Opera Omnia Luigi Einaudi

La pace perpetua sulle Alpi occidentali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/02/1946

La pace perpetua sulle Alpi occidentali

«Risorgimento liberale», 10 febbraio 1946

«L’Opinione», 10 febbraio 1946

 

 

 

Piccole rettifiche di frontiera sono state, a detta dei comunicati di agenzia, chieste dalla Francia ad occasione del trattato di pace. Non si tratta della grossa questione di Tenda e Briga; ma di minuti avanzamenti della linea di spartiacque delle Alpi: pochi chilometri quadrati nelle testate di alcune valli e poche, forse non più di due, migliaia di abitanti; minime variazioni sulle quali non sembra valga la pena di soffermarsi, in un momento nel quale i bombardamenti dall’alto e le bombe atomiche consentono di annientare città e regioni e di rendere inutili le difese naturali più formidabili.

 

 

Eppure no. Nato in Piemonte e devoto alla mia terra, non posso non ricordare che il confine occidentale non è un dono della natura; ma quando nel 1760, il 24 marzo, fu firmato a Torino il Traitè des limites, il quale fissava definitivamente quelli che rimasero poi sino ad oggi i confini fra la Francia e l’Italia nel tratto compreso fra il ducato di Savoia e la Contea di Nizza, quel trattato poneva il suggello a due secoli di guerre, di negoziati, di reciproche cessioni di territori. I confini perfetti fra due stati non si costruiscono con lezioni di geografia fisica e con paternostri di politici sentimentali; e quelli occidentali che a noi oggi paiono e sono naturali, furono il frutto dell’opera di sette generazioni di grandi ostinati principi, di ministri insigni e di popoli valorosi.

 

 

Non sono sempre stati valorosi i popoli che abitavano le terre di Savoia. Quando nel 1559 Emanuele Filiberto riconquistò colla spada e col consiglio gli stati perduti, i piemontesi, che pur nascevano, a detta degli ambasciatori veneti, «buoni soldati», amavano tuttavia «godersi il mondo in quel modo nel quale lo trovarono quando ci vennero» e non avevano «altro pensiero che di attendere a mangiar bene ed ai piaceri»; ed i savoiardi erano «timidi e vili», e quando il duca ordinò una levata di soldati e consegnò ai militi le armi necessarie, dopo poco si trovò che «dè morioni e corsaletti se n’erano serviti in far delle pignatte e degli spiedi». Da questi popolani impoltroniti e da una nobiltà riottosa e selvatica Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III trassero soldati e capitani i quali nei due secoli dal 1559 (pace di Cateau Cambresis) al 1760 (trattato dei confini di Torino) seppero portare i confini delle Alpi sulla dorsale alpina.

 

 

Ve n’era davvero bisogno. Il lettore gitti uno sguardo alla cartina, che ho disegnato allo scopo di illustrare, senza pretendere ad una precisione compiuta, difficilissima su scala così ridotta, la cronaca degli avvenimenti.

 

 

Cominciando i due secoli, la Francia si incuneava per lungo tratto nel cuore del Piemonte. Erede, con buone o male arti, del marchesato di Saluzzo, la Francia dominava tutto il Piemonte meridionale, separando Cuneo da Pinerolo, affermando con le terre separate di Dogliani il suo dominio sul medio Tanaro e giungendo con Carmagnola quasi alle porte di Torino, difficilissima a difendersi. Cogliendo il pretesto della difesa contro gli ugonotti del Delfinato francese, il 28 settembre 1588 Carlo Emanuele I occupa a forza Carmagnola e poi l’intiero marchesato di Saluzzo; e lo conserva durante il trambusto delle guerre civili che desolarono la Francia sotto Enrico III e nei primi tempi nel regno di Enrico IV. Ma, per conservarlo legalmente contro Enrico IV capitano vittorioso e restauratore sapiente del regno, gli è giocoforza rassegnarsi a duro sacrificio: le più belle e piane terre di Savoia, la Bressa, il Bugey, il Valromey e il Gex sono cedute col trattato di Lione del 17 gennaio 1601 al re cristianissimo, il quale si rassegna in cambio a riconoscere la perdita del saliente saluzzese, di valore non minore per l’Italia di quello posseduto sino alla guerra del 1915-1918 dal Trentino. Il confine delle Alpi non è tuttavia in quel punto ancora raggiunto perché il marchesato di Saluzzo non comprendeva, nei suoi limiti storici, la testa della Val Varaita, con i comuni detti di Castel Delfino: Sant’Eusebio, Ponte Chianale, Chianale e Bellino. Precorrendo la terminologia di Tirolo italiano applicata dagli austriaci al Trentino, i francesi davano a quella e ad altre teste di valle nome di Delfinato italiano, Dauphiné aux eaux pendantes vers l’Italie. In compenso, i Savoia possedevano al di là delle Alpi, la testa della valle dell’Ubaye con il borgo di Barcellonette. Dovette passare più di un secolo perché nel 1713 alla pace di Utrecht, fatto il cambio, i limiti fra il Delfinato francese e le terre italiane fossero portati sino allo spartiacque delle Alpi e la cima del Monviso, la quale domina superba tutto il Piemonte, segnasse finalmente il confine fra Italia e Francia.

 

 

Frattanto, poco più a nord, il trattato di Cherasco del 31 maggio 1631, spalancava un’altra porta agli eserciti francesi. La casa di Savoia acquistava, è vero, Alba, Trino, Nizza di Paglia – memorando nome, che ricordava le capanne ricoperte di paglia sotto cui i fieri Alessandrini si erano secoli prima rifugiati per sottrarsi alle ire del tedesco – ed altre 74 terre del basso Monferrato; acquistava cioè un territorio anticamente posseduto da casa d’Angiò ed ora nuovamente rivendicato dalla francese casa di Nevers; ma spalancava un’altra porta agli eserciti di Francia, colla cessione di Pinerolo e delle valli valdesi di Perosa, del Chisone e della Dora Riparia. La indipendenza del Piemonte, dominata sin nel suo cuore da Pinerolo, subito mutata in munitissima piazza forte dal re cristianissimo, era divenuta vana parola. Per 65 anni dovettero i Savoia mordere il freno; ed era freno durissimo. Anticipando i metodi di Napoleone, il quale a Tilsit doveva imporre invano alla Prussia di non tenere in arme più di 40.000 soldati, Luigi XIV ordinava nel 1688 al duca Vittorio Amedeo II di non tenere più di 2.000 uomini sotto le armi. Come poi i prussiani, Vittorio Amedeo II finge di obbedire; ma ricorre allo spediente di congedare ogni quattro mesi gli anziani, sicché i suoi soldati sono in effetto seimila, ma quattromila sono in congedo. Per liberarsi della spina inflitta nel cuore del Piemonte, Vittorio Amedeo II partecipa nel 1690 alla lega di Augusta, raccolta da Guglielmo d’Orange contro lo spirito di dominazione egemonica di Luigi XIV. Fu guerra durissima per i subalpini, durata sei lunghi anni. Contro l’ordine di Louvois a Catinat: «Brulez, brulez bien leur pays», Vittorio Amedeo II fa scrivere sulla bandiera di un reggimento valdese il motto: «Patientia laesa fit furor»; ed i contadini piemontesi si stringono intorno al capo, il quale, per dar loro i mezzi per procacciarsi cibo, fa a pezzi e dona ad essi il collare dell’Annunziata, che gli pende dal petto. Contro un sovrano ed un popolo siffatti, ostinati nudi e parchi, anche il Re Sole deve venire a patti e cedere, col trattato di Torino del 29 agosto 1696, confermato a Ryswick il 10 settembre 1697, Pinerolo e la val Perosa. Un altro grande saliente era tagliato; ma rimanevano in potere di Francia tre teste di valle, che non erano mai state unite storicamente al Pinerolese; essendo aggregate, alcune almeno da 360 anni, al Delfinato francese. Oltre le terre di Casteldelfino in Val Varaita di cui dissi sopra, appartenevano invero al «Delfinato delle acque pendenti verso Italia» due altre teste di valle. A venti chilometri sopra Pinerolo, nella valle del Chisone, nel punto in cui la valle si chiude nella selvaggia gola dominata dal Bec Dauphin cominciavano invero le terre di Francia: Meana, Mentoulles, Fenestrelles, Pragelato, sino al colle di Sestrieres. Subito dopo la perdita della fortezza di Pinerolo, notissima per la lunga prigionia della maschera di ferro, i francesi fortificavano Fenestrelles, e di lì minacciavano uno degli sbocchi principali delle Alpi sulla pianura piemontese.

 

 

Al di là del Colle di Sestrieres si apre un’altra vallata, quella della Dora Riparia. Tutta la sua testata, con Cesana, Bardonecchia, Oulx, Exilles, Salbertrand e Chaumont faceva parte del Delfinato italiano in potere di Francia; e la fortezza di Exilles dominava in alto, a pochi chilometri di distanza Susa e consentiva agli eserciti francesi di marciare rapidamente all’assalto di Torino.

 

 

Con un’altra guerra lunga e fortunosa, quella detta di successione spagnola durata dal 1701 al 1713 e gloriosa per l’assedio di Torino e l’eroismo di Pietro Micca, Vittorio Amedeo II conquista finalmente all’Italia, col trattato di Utrecht dell’11 aprile 1713, i suoi confini naturali da parte d’occidente.

 

 

È usanza dei libri di testo narrare della politica del carciofo, con cui i principi piemontesi a poco a poco allargarono i confini degli stati sabaudi verso l’Italia. Si dimentica che molta parte, forse la maggior parte dello sforzo militare durato per secoli dalla casa Savoia fu rivolto non ad allargare i confini del Piemonte verso la Lombardia; ma a respingere i confini di Francia dalla pianura padana verso la sommità delle Alpi. Si dimentica che l’ora del maggior pericolo per l’unità d’Italia volse quando Luigi XIV e Napoleone si insediarono al di qua delle Alpi. Il tentativo parve due volte vittorioso: alla metà del seicento ed al principio dell’ottocento; ed eletti ingegni prognosticarono allora la vittoria della lingua francese nell’estrema parte occidentale della penisola. Se quel pericolo fu sormontato, lo dovemmo alla perseveranza ed alla spada affilata dei piemontesi. Se quel pericolo fu sormontato, senza danno, anzi con vantaggio della pace fra Italia e Francia, lo dovemmo allo spirito di tolleranza dei nostri vecchi, ai quali mai non cadde in mente di vietare in val d’Aosta, nelle valli Valdesi e nelle testate delle valli di Saluzzo e di Cuneo l’uso della lingua francese nelle scuole, nei verbali dei consigli municipali, nelle sentenze dei giudici e negli atti notarili. Un francese, il prof. Lamaire dell’università di Lione, in principio di questo secolo percorse a piedi gran parte delle terre piemontesi che furono teatro di guerra dal 600 all’800 per studiare fra l’altro, le vicende della lingua francese di qua dalle Alpi. Di anno in anno nei registri dei verbali consigliari dei comuni delle nostre valli egli riscontrò il progressivo arretramento dalla piana alla montagna dell’uso del francese, per deliberazione volontaria dei padri di famiglia convinti esser meglio conformarsi al comodo ed all’uso universale degli abitanti, oramai abituati alla parlata italiana. La volontà degli uomini consacrava il risultato della armi.

 

 

Il trattato dei confini del 1760 segnò davvero la data della pace «perpetua» fra le due nazioni sorelle. È nell’interesse di ambedue di non tornar sopra a quel patto solenne. La risurrezione, anche in proporzioni territorialmente insignificanti, delle vecchie ferite che la teoria del Delfinato delle acque pendenti verso l’Italia aveva inflitto al corpo vivo d’Italia, segnerebbe un solco profondo di discordia fra i due paesi, distruggerebbe un’opera che fu bensì il frutto di guerre lunghe, ma fu suggellato da patti conchiusi da uomini di stato i quali a Parigi ed a Torino s’erano fatti persuasi che a sancire davvero, come si disse allora, la pace perpetua tra le due nazioni era sovratutto necessario togliere di mezzo ogni traccia anche minima delle cause territoriali di discordia tra di esse. Le Alpi dividono sì, fisicamente, Italia e Francia; ma le uniscono spiritualmente insieme in un patto di fratellanza fermato su quelle vette e su quei colli da uomini deliberati da ambo le parti a metter fine alle lotte fratricide con la stretta di mano data nei luoghi dove la natura segnò lo spartirsi delle acque intese a fecondare da una parte le terre di Francia e dall’altra quelle d’Italia.

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