Opera Omnia Luigi Einaudi

La Pira in «difesa della povera gente»

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

La Pira in «difesa della povera gente»

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 386-390

 

 

 

Lettera inviata dopo la lettura di un artico dell’on. La Pira dal titolo sopra citato. Il La Pira durante il fascismo pubblicò una piccola rivista, intitolata Principi, presto soppressa da un regime, sospettoso anche di citazioni dai vangeli.

 

 

Di nuovo le citazioni dei vangeli e dei santi padri mi hanno fatto ricordare quei Principi che tanta eco ebbero durante il regime passato. Le citazioni, sia latine, sia quelle tratte da teologi recenti, sono sempre nutrite di alti insegnamenti morali che dovrebbero fare riflettere anche le coscienze più indurite. Forse nei Principi, il legame logico fra i dettami evangelici e dei santi padri e la pratica della vita politica era più evidente. Oggi, il legame tra i precetti evangelici e le regole della vita economica è più incerto e qualche volta viene il sospetto che invece di fusione vi sia forse contaminazione.

 

 

Mi consenta di esporle qualcuno dei dubbi.

 

 

Parrebbe, a leggerla, che coloro che possiedono le leve dell’economia, della finanza e della politica debbano adempiere ad un solo ufficio: dare a tutti il lavoro e il cibo al tempo opportuno.

 

 

Tra coloro che posseggono le leve dobbiamo annoverare i banchieri? Se sì, devo osservare che il progetto di dare a tutti il lavoro e il cibo è perentoriamente subordinato ad una condizione: che il banchiere faccia tutto ciò che è necessario allo scopo di soddisfare innanzi tutto all’obbligo di restituire ai depositanti, al tempo stipulato, le somme che essi gli hanno affidato. Questo è il dovere primo assoluto. Se il banchiere non soddisfa a questa condizione, egli è un malversatore del denaro altrui. Non gioverebbe al banchiere fedifrago dire al giudice: io ho dato i denari a coloro i quali avevano bisogno di cibo e di lavoro; il giudice avrebbe il dovere assoluto di mandarlo in galera. Il banchiere può affidare il denaro altrui a chi promette di aprire una fabbrica e dar lavoro, soltanto quando avrà la sicurezza – entro i limiti in cui per le cose umane vi può essere la sicurezza – che il prenditore del denaro sarà in grado di restituirlo; se no il grido: «Voglio denaro a prestito perché devo dar lavoro» è un pretesto delittuoso a cui non si deve prestare ascolto.

 

 

Tra coloro che possiedono quelle tali leve sono compresi i ministri del tesoro? Se sì, essi possono consentire a stanziamenti intesi a dar lavoro entro i limiti nei quali essi hanno la coscienza di non distruggere tanto altro lavoro, che sarebbe creato se i contribuenti non fossero spinti alla disperazione o meglio alla neghittosità da imposte troppo feroci.

 

 

Essi devono anche avere la coscienza di non dover, per dar lavoro, stampare quella tale carta falsa che per ben due volte in Italia ha distrutto le classi sociali le quali vivono di redditi fissi, classi sociali di cui vi è l’abitudine di esaltare il patriottismo, l’abnegazione, lo spirito di risparmio quando il paese è in pericolo, salvo poi a denunciarli come parassiti della società quando l’ora brutta è passata.

 

 

Noi abbiamo assistito due volte agli effetti deleteri della stampa di carta falsa. Una prima volta dopo il 1918 ed una seconda dopo la guerra ultima. In ambedue i casi la riduzione della potenza di acquisto della moneta ad un sesto dopo la prima guerra, ad un cinquantesimo dopo la seconda ed in totale ad una trecentesima parte della potenza d’acquisto del principio del secolo, produsse gli effetti fatali che doveva produrre. Questi effetti furono la distruzione delle classi medie, l’impoverimento delle masse contadine ed operaie, l’invidia fra tutte le classi sociali; anche gli arricchiti essendo persuasi di essere stati danneggiati dal maggior arricchimento altrui. In questo clima fiorirono fascismo e nazismo. In questo clima si diffondono i sentimenti rivoluzionari e si dissolvono i legami sociali. Il ministro del tesoro il quale non rifletta alle conseguenze inesorabili di una sua condotta imprudente, non dà pane e cibo a nessuno, ma toglie di bocca pane e cibo e vesti e casa a coloro che più ne hanno bisogno.

 

 

La premessa secondo cui lo sradicamento della disoccupazione e della miseria non può essere operato organicamente che dallo stato e costituisce il compito nuovo ed in certo senso fondamentale dello stato moderno, deve essere messa in connessione con un’altra premessa che non ho visto da Lei elencata e cioè che lo stato moderno ha come primo compito di non creare quella disoccupazione e quella miseria di cui Lei giustamente si preoccupa. Da due anni circa, da quando cioè non sono più in grado di scrivere per il pubblico, non ho cessato per un momento, e credo di averne parlato anche con Lei, di sostenere il principio che primo dovere dello stato è quello di non creare disoccupazione. Di questi giorni sul «Mondo» Ernesto Rossi si è meravigliato giustamente che in Italia i disoccupati siano «soltanto» due milioni. Io vorrei aggiungere essere miracoloso che in Italia i disoccupati non siano quattro o cinque o più milioni, come dovrebbero essere se fossero osservate sul serio le leggi vigenti. Basta fare un piccolo elenco delle cause volute dallo stato, per cui la disoccupazione dovrebbe essere assai più grande di quello che è. Ecco un elenco parziale:

 

 

1)    Esiste in Italia la servitù della gleba. Il nostro paese è infatti diviso in province ed in città, qualche centinaio tra le une e le altre, attraverso cui i lavoratori non possono passare senza il consenso di prefetti e di uffici, i quali sovra tutto sentono la voce di coloro, anche essi lavoratori, ma lavoratori restrizionisti, i quali impediscono ai poveri diavoli di venire a fare loro concorrenza. Noi italiani facciamo la figura di sepolcri imbiancati quando ci lamentiamo che la Francia spopolata non accetti i nostri lavoratori in ossequio alla opposizione degli operai francesi; e facciamo peggio creando artificialmente nel nostro paese qualche centinaio di mercati separati attraverso cui non è possibile il passaggio a chi ha voglia di lavorare.

 

2)    Agli impedimenti alle migrazioni interne si devono aggiungere gli impedimenti al passaggio degli operai da una fabbrica ad un’altra, dei mezzadri da un podere ad un altro, impedimenti che creano milioni di piccoli mercati non comunicanti tra loro.

 

 

Quale meraviglia che ci siano due milioni di disoccupati? Questa disoccupazione è il risultato di centinaia e di migliaia di piccolissimi mercati nei quali fra la domanda e la offerta di lavoro solo per miracolo può essere coincidenza, data la piccolezza dei mercati. Forse che la somma di migliaia di piccoli scarti non è necessariamente di gran lunga superiore all’unico scarto che ci sarebbe se il mercato italiano del lavoro fosse unificato?

 

 

3)    I divieti di licenziamento, ancorché aboliti, funzionano ognora, per la resistenza delle leghe operaie interessate. L’imponibile di mano d’opera imperversa nelle campagne. Come è possibile che un imprenditore non sia preoccupato dalla previsione che una domanda, in quel momento conveniente per lui, significherebbe l’obbligo, in perpetuo, di dar lavoro a persone di cui non si ha più bisogno?

 

4)    L’esistenza della disoccupazione è un assurdo teorico. A un certo salario gli imprenditori sono sempre disposti ad assorbire tutta la mano d’opera che si offre sul mercato. Se non l’assorbono, se ci sono sacche di lavoratori disoccupati ciò è dovuto, fra l’altro, al fatto che le leghe operaie mantengono in talune regioni e per alcune industrie livelli di salario superiori a quelli che sarebbero di mercato. Nessuno può porre in dubbio che, se nel mezzogiorno si pagano salari di trecento lire al giorno e se qua e là vi sono disoccupati, ciò è dovuto al fatto che altrove alcuni gruppi di operai riescono ad ottenere salari notevolmente superiori a quelli che consentirebbero agli imprenditori relativi di assorbire una quantità maggiore di lavoro. La politica salariale delle leghe operaie italiane è responsabile di una parte della disoccupazione esistente.

 

5)    Dopo aver parlato dei monopolisti di parte lavoratrice, si deve parlare dei monopolisti di parte imprenditrice. Che cosa sono i contingenti all’importazione, i dazi indiscriminatamente stabiliti in percentuali incongrue su migliaia di voci, se non strumenti con i quali si limita la quantità di merce che potrebbe venire sul mercato, si limita la quantità di merce che potrebbe essere consumata e si limita quindi la quantità di merce che può essere prodotta con riduzione del numero dei lavoratori occupati? Non appena si è parlato di liberazione degli scambi, dopo la adesione data giustamente dagli uomini di governo al principio, è cominciata la tregenda degli esperti, degli specialisti interessati che si industriano a far sì che la liberazione degli scambi sia ridotta al minimo possibile.

 

 

Tutto ciò non crea lavoro; tutto ciò distrugge lavoro; tutto ciò diminuisce la quantità delle merci che sono prodotte e messe a disposizione dei lavoratori; tutto ciò crea quindi disoccupazione e miseria.

 

 

Si potrebbe continuare; parmi che le cause di disoccupazione qui elencate sono più che sufficienti per spiegare una massa di disoccupazione di gran lunga superiore a quella esistente. Se la disoccupazione è soltanto di due milioni di persone ciò è dovuto al fatto che in Italia fortunatamente le leggi non sempre si applicano, che tutti disobbediscono in quanto possono a leggi insensate e antisociali. Nonostante la nostra disubbidienza innata qualche cosa però rimane: rimane abbastanza per creare il fenomeno della disoccupazione e per indurre molte persone da bene ad aggravarlo con la pretesa di volerlo abolire.

 

 

Conviene infatti ricordare che tutte le norme che sono state elencate, tutte indistintamente, sono state emanate in difesa del lavoro e per diminuire la disoccupazione. Quando la cecità giunge a questo punto non ci si può meravigliare se altri uomini bene intenzionati si propongono di diminuire la disoccupazione lasciando invariate le cause di essa. Finché le cause esisteranno nasceranno le conseguenze logiche di tali cause, scarsa produzione, disoccupazione, miseria. Pretendere che in questo ambiente sia possibile trarre dalla miseria i mezzi per combattere la miseria parmi sia pura illusione.

 

 

30 luglio 1950.

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