Opera Omnia Luigi Einaudi

La più grande riforma tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/08/1919

La più grande riforma tributaria

«Corriere della Sera», 2 agosto[1] e 6 novembre 1919[2]; 8[3] e 24 aprile 1920

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 342-359

 

 

 

I

 

Il reclutamento dei funzionari delle imposte[4]

 

Ad una ad una le diverse categorie di pubblici impiegati hanno ricevuto un acconto sull’aumento di stipendio promesso dal governo o già godono di un nuovo e migliore organico. Per un po’ le lagnanze sembrano perciò acquetarsi ed il governo può avere l’illusione che il male sia curato e la tranquillità ritorni nelle numerose file dei suoi dipendenti.

 

 

Pura illusione; ché il male è più profondo di una semplice questione di stipendio e tocca alla radice dell’organizzazione del lavoro. Bisogna che il governo, in questi mesi di tranquillità relativa, tra la soddisfazione dell’ottenuto aumento di stipendio e l’inevitabile prima manifestazione di nuovo malcontento, sappia trovare la sua via. Bisogna che la gerarchia sia alleggerita; che le qualifiche troppo numerose e complicate siano abolite; che i capi si riducano a coloro che sanno veramente comandare e distribuire il lavoro; che sia ristabilita la circolazione tra centro e provincie; che sia tolto il contrasto tra direttivi ed esecutivi; che sia posto freno alle inframmettenze politiche; che sovratutto i migliori abbiano la sensazione di essere preferiti agli infingardi ed ognuno sia valutato, così materialmente come moralmente, sulla base dei suoi meriti.

 

 

Ciò è necessario in tutti i rami della pubblica amministrazione: per i magistrati come per i professori, per i militari come per i funzionari di polizia, per le prefetture come per gli uffici finanziari. Non v’è gerarchia tra i pubblici funzionari, quando l’ufficio è necessario. Frutta altrettanto allo stato il magistrato che rende bene giustizia, come l’agente delle imposte che spinge al massimo il gettito delle imposte ripartendole con equità; il postelegrafonico che fa procedere sollecitamente il servizio come il professore che fa lezione con amore e cura lo spirito degli scolari. Vi è solo una gerarchia individuale di valori morali, per cui eccellono quelli che adempiono al proprio compito con coscienza, con passione, con devozione all’interesse pubblico.

 

 

Ci sia lecito tuttavia di ritornare, per la gravità e l’urgenza del problema, su una esemplificazione del problema generale degli impiegati pubblici, di cui abbiamo già parlato e su cui importa insistere affinché l’opinione pubblica ed il governo si persuadano della necessità della riforma. Vogliamo accennare ai funzionari finanziari. Qui il nesso fra la buona organizzazione del servizio e il rendimento per lo stato è evidente anche agli occhi dei ciechi. Date allo stato buoni funzionari, capaci, solerti, animati da spirito di vera giustizia per i contribuenti e da zelo per il pubblico servizio e le imposte esistenti frutteranno cento; date impiegati svogliati, malcontenti, abitudinari, nemici per principio dei contribuenti e le stesse imposte frutteranno venticinque.

 

 

Qualunque riforma tributaria è pura ipocrisia, ciarlataneria, polvere negli occhi se non è preceduta da una riforma negli ordinamenti dei funzionari fiscali. Le altre categorie dei funzionari pubblici dovrebbero essere concordi, nel proprio interesse, a reclamare d’urgenza questa che può davvero chiamarsi la più grande riforma tributaria. Il magistrato, l’insegnante, il funzionario di prefettura ha diritto ad avere quel trattamento morale e materiale che compete al suo ufficio; ha il dovere di dare allo stato servigi equivalenti al trattamento ricevuto. Ma, perché un equo trattamento sia possibile, fa d’uopo che lo stato possegga i mezzi, ossia sappia ritrarre dai contribuenti secondo giustizia i miliardi necessari. Senza un adeguato gettito di imposte nulla si può fare. Nelle ferrovie, nelle poste e telegrafi il servizio può e deve bastare a se stesso: ferrovieri e postelegrafonici devono premere sul governo con tutta la forza della loro esperienza affinché il servizio dia il massimo rendimento col minimo costo. Solo così si salveranno i servizi economicamente e direttamente produttivi dal baratro finanziario che li minaccia e minaccia nel tempo stesso lo stato. Ma per tutti gli altri servizi pubblici, che non fruttano denaro, che costano, ma sono tuttavia fondamentali e necessarissimi – amministrazione civile, esercito, marina, giustizia, sicurezza, insegnamento, ecc. ecc. – i mezzi debbono essere forniti da una buona amministrazione finanziaria.

 

 

Purtroppo, è doloroso dovere constatare che le cose vanno di male in peggio. Non bisogna lasciarsi fuorviare dal cresciuto gettito delle imposte. Queste fruttano di più quasi naturalmente, non per merito dell’amministrazione. Con prezzi doppi e tripli di prima, con redditi monetari cresciuti, anche le imposte le quali colpiscono i consumi ed i redditi espressi in moneta debbono per forza dare un rendimento maggiore. Che il gettito delle imposte sia cresciuto da 2.500 a 4.000 o 5.000 milioni di lire non è merito dell’amministrazione; è anzi un indice della sua scarsa e negativa efficienza. I quattro o cinque miliardi di oggi valgono meno dei due e mezzo di prima. Non rispondono ad un vero aumento: e non tengono neppure dietro agli aumenti nei prezzi e nei redditi. La verità è che l’amministrazione tassa oggi meno, scopre minor materia imponibile di quanto accadesse nel 1914.

 

 

Come potrebbe essere altrimenti? Nel campo delle imposte dirette, i migliori funzionari se ne vanno ad uno ad uno. Dovrebbero essere eroi se sapessero resistere alla tentazione di passare da stipendi di 4, 10 mila lire a guadagni di 15, 20, 30 mila lire che possono ottenere come ragionieri di società anonime, di ditte private, come consulenti dei contribuenti contro la finanza. Quelli che rimangono fedeli allo stato – e ve ne sono ancora dei valorosi, i quali finiranno per andarsene – sono assolutamente impotenti a far fronte alla valanga di lavoro caduta su di essi. I vantati gettiti dell’imposta sui sovraprofitti sono una illusione. Essi sono stati ottenuti a prezzo di abbandonare a se stesse le imposte preesistenti, il cui gettito si è irrigidito. Un presidente di commissione delle imposte mi scrive:

 

 

«Anche in questa regione così intensamente produttiva, l’agente superiore delle imposte ha appena ultimato l’accertamento dei sovraprofitti pel 1916 e si accinge a quelli del 1917! E, nonostante la sua eccezionale diligenza, nulla o quasi nulla fa pei redditi ordinari, tantoché la commissione mandamentale, ch’io presiedo, da molti anni è perfettamente inoperosa per assoluta mancanza di ricorsi. Anche la revisione dei fabbricati, che era stata provvidamente iniziata per l’enorme incremento verificatosi in questi paesi di villeggiatura, è stata completamente sospesa».

 

 

Si attui domani, come dovrà essere attuata, la riforma Meda; ed i funzionari dovranno abbandonare i sovraprofitti e concentrarsi sulla imposta globale sul reddito. Ne caveremo qualche centinaio di milioni; ma, se non provvediamo ad arricchire e ringiovanire le file dei funzionari accertatori, saranno denari rubati alle imposte esistenti, il cui gettito, se curato a dovere, dovrebbe essere doppio e triplo di quello d’oggi.

 

 

La imposta straordinaria sul patrimonio, annunciata dal governo, sarà un inganno elegante, una manipolazione elettorale demagogica, se non sarà preceduta da una riorganizzazione degli uffici. Senza di questa, quel tanto che darà la patrimoniale straordinaria sarà ottenuto a spese della complementare sul reddito o delle imposte normali; né potrà servire ai fini di riscatto del debito pubblico e dei biglietti circolanti in eccedenza.

 

 

Lo stesso si ripeta per gli altri rami della pubblica finanza. L’imposta successoria, pure colle tariffe attuali, già alte, potrebbe rendere il doppio. Ma come potrebbero riuscire a ciò i ricevitori del registro, oberati da un’infinità di attribuzioni, di tasse e tassette, costretti a lavori materiali, che tolgono loro la voglia di far bene sul serio e fanno dettare ad essi lettere, in cui si sente l’ansia di chi vede il molto che potrebbe fare a pro dello stato e lo scoraggiamento di chi non può far nulla?

 

 

Invece di creare nuovi monopoli e nuove imposte di produzione, perché non si cura e non si riorganizza il corpo dei verificatori tecnici di finanza, a leggere il cui giornale di classe ed a sentire i cui rappresentanti si acquista la convinzione che le imposte esistenti di produzione potrebbero fruttare, invece di 500 milioni, forse 800 e più?

 

 

Nelle dogane, il compito dei finanzieri è reso inutilmente arduo da una tariffa complicatissima, la quale minaccia di diventare ancora più complicata con le specificazioni a scopo protezionistico che commissioni e ministro vanno a gara ad annunciare. Semplificare la tariffa, ridurre il numero delle voci, dare ai dazi carattere prevalentemente fiscale ed elevare la capacità tecnica e la posizione dei finanzieri incaricati di applicare la tariffa: ecco le condizioni più sicure di un elevamento nel gettito di questo ramo di tributi.

 

 

Parecchie sono le condizioni le quali debbono essere osservate affinché questa prima e più grande riforma tributaria raggiunga il suo intento.

 

 

Se in molti rami dell’amministrazione pubblica ed anche di quella finanziaria gli impiegati sono troppi, in altri, ad esempio nelle imposte dirette, occorre aumentare il numero dei funzionari. È assurdo, stravagante che si crei una nuova imposta complementare sul reddito o se ne istituisca una straordinaria sul patrimonio mantenendo invariato il numero dei funzionari esistenti. Più che un lavoro per volta non si può fare; più di sette ore al giorno la massa degli impiegati non rimane in ufficio. Il tempo dedicato all’imposta nuova è sottratto alle vecchie. Creare nuovi tributi senza adeguati organi per applicarli è un pestar l’acqua nel mortaio.

 

 

I nuovi funzionari debbono essere reclutati con severità di criteri. Non basta assumere altri 400 o 500 agenti delle imposte. Se non qualificati, se privi di preparazione giuridica ed economica, costoro apparterranno al vecchio tipo degli aguzzini dei contribuenti e faranno più male che bene. Bisogna attirare a questa, come alle altre amministrazioni pubbliche, i migliori giovani delle classi colte dello stato.

 

 

Perciò bisogna rimunerare adeguatamente i vecchi funzionari come le nuove reclute. Gli stipendi pagati dallo stato possono essere, per la maggiore dignità e sicurezza dell’ufficio, minori degli stipendi privati. Ma non smisuratamente minori. Non si possono dare 3.000 lire a chi fuori guadagna 6.000; né 10.000 a chi agevolmente guadagnerebbe 20.000 lire nelle imprese private. Facendo così, allo stato giungono solo gli scarti, i quali si lamentano sempre e costano moltissimo in proporzione alla scarsa resa.

 

 

Perciò ancora, bisogna adeguare gli stipendi alle funzioni. In nessun ufficio occorre che le teste direttive siano molte. Dove sono troppi a comandare, nasce la confusione. Ma le poche teste veramente dirigenti e produttive debbono essere pagate altrimenti dagli amanuensi. Adesso accade che in certi uffici delle imposte, funzionari che per tutta la vita non hanno fatto mai altro e non sarebbero capaci mai di far altro che ricevere e protocollare reclami e denunzie di contribuenti o compilar ruoli, sono pagati alla stessa stregua, e, se più anziani, maggiormente dei funzionari produttivi che scoprono ed accertano milioni di materia imponibile. Se il governo recluterà 500 nuovi agenti delle imposte; ma poi, avendo scoperto chi tra essi deve protocollare reclami e chi deve deciderli, li pagherà alla stessa stregua, farà più male che bene. Gli accertatori saranno assorbiti dalle industrie private e rimarranno i protocollisti. Anche questi sono necessari ed anch’essi debbono essere pagati decorosamente; ma immagino che essi medesimi nell’intimo della loro coscienza giudicano strano di essere pagati alla stessa stregua dei colleghi veramente produttivi per l’erario.

 

 

Bisogna dunque non solo saper pagare meglio, ma anche saper premiare i migliori. Non si può ad essi dare, sempre parlando degli agenti delle imposte, una provvigione in rapporto ai redditi accertati. Ciò sarebbe odioso, provocherebbe ingiustizie contro i contribuenti, toglierebbe ai funzionari il nome e l’abito di veri magistrati tributari. Ma il capo del servizio dovrebbe avere a sua disposizione un fondo cospicuo, proporzionato forse al gettito complessivo dei tributi diretti in tutto lo stato, da distribuire fra i diversi uffici locali delle imposte. Il criterio della ripartizione dovrebbe essere complesso: la produttività delle imposte sia in senso assoluto, sia, e forse più, in proporzione relativa alla difficoltà – ben nota ai pratici – degli accertamenti nelle diverse regioni; la mancanza di reclami fondati da parte dei contribuenti, la quale è indice della correttezza con cui i funzionari hanno saputo applicare la legge; la importanza delle proposte pratiche e concrete di riforma delle leggi vigenti provenienti dai funzionari esecutivi, le quali siano giudicate opportune dall’amministrazione, dietro parere, come propone il progetto Meda, della commissione centrale delle imposte dirette; la importanza delle economie ottenute nella gestione del servizio. Questo è un punto della massima importanza. Molte operazioni materiali, di copia, di compilazione di ruoli, ecc., non occorre siano affidate ad impiegati di ruolo, i quali debbono far carriera e costano un occhio del capo. Non è una assurdità pagare 500 o 600 lire al mese ad un semplice amanuense, solo perché è anziano? Invece di sprecare i denari in così malo modo, si diano le 600 lire al capo ufficio, coll’obbligo della resa dei conti. Saprà ben egli trovare una signorina, un giovanotto felici di ricevere 100 o 150 lire al mese, supponiamo anche 200, i quali faranno un lavoro ugualmente ben fatto. Il risparmio dovrebbe essere per una parte, un terzo od un quarto, restituito all’erario e per la parte maggiore, due terzi o tre quarti, dato in premio al capo ed ai suoi collaboratori.

 

 

Senza dubbio, ciò contrasta ad una massima fondamentale dell’amministrazione italiana: che è la sfiducia, la quale fa ritenere capaci di concussione e di peculato tutti i pubblici funzionari, dal direttore generale all’ultimo usciere. Massima pestifera, la quale non impedisce le concussioni e produce solo controlli innumerevoli ed ingombranti, attraverso a cui i ladri passano con facilità ed agli onesti vien tolta la capacità di agire. Ad essa bisogna sostituire un’altra massima: se un funzionario è disonesto o sospettato di ladrerie e di corruzione, lo si licenzi; ma si abbia fiducia in coloro i quali sono conservati in ufficio. Più ancora dei compensi pecuniari, giova a mantenere salda la compagine delle pubbliche amministrazioni la fiducia, l’elogio opportuno dato ai migliori, la parola incoraggiante del ministro o del capo servizio fatta giungere a chi ha bene meritato del paese. Se un capo non conosce ad uno ad uno i suoi funzionari e non sa stimolarli, incoraggiarli, premiarli, quegli non è degno del suo posto. Creare questo ambiente di fiducia e di emulazione, ecco uno dei mezzi principali per rinnovare la burocrazia e renderla atta al suo gravissimo compito.

 

 

II

 

L’ostruzionismo degli agenti delle imposte e la nomina di Pasquale D’Aroma

 

Con recentissimo provvedimento, in seguito alla nomina del direttore generale delle imposte dirette, comm. Abbate, a consigliere di stato, fu chiamato a suo successore il dott. Pasquale D’Aroma, agente superiore delle imposte e capo dell’ufficio di Torino. La nomina è stata commentata negli ambienti ministeriali perché essa appartiene al novero di quelli che si sogliono chiamare salti mortali e poté avvenire solo passando sopra a numerosi funzionari di grado superiore ed appartenenti all’amministrazione centrale.

 

 

Agli occhi miei è invece degna di nota da un punto di vista più generale. Anzi, soltanto ed esclusivamente da questo punto di vista, io debbo lodare assai il ministro Tedesco e, poiché la nomina spettava al consiglio dei ministri, insieme a lui l’on. Nitti, per avere preso il provvedimento. Il dott. D’Aroma non è solo stimatissimo tra i suoi colleghi, ma ha dato prove sicure della sua preparazione segnalata all’alta carica, anche come insegnante di legislazione finanziaria all’università commerciale Bocconi di Milano e come membro attivissimo delle commissioni le quali prepararono la riforma Meda delle imposte sui redditi e stanno preparando il disegno di imposta straordinaria sul patrimonio.

 

 

Nell’imminenza dell’attuazione di così gravi provvedimenti, i quali debbono, con spirito di giustizia, chiedere ai contribuenti sacrifici straordinari di patrimonio o decurtazioni permanenti sul reddito era necessario che la direzione del servizio fosse affidata ad un uomo giovane ed energico, il quale desse affidamento di indirizzare il lavoro di riforma fin dal principio con polso sicuro. Sotto parecchi aspetti, la direzione generale delle imposte dirette è divenuta e sta vie maggiormente diventando il più importante dei servizi incaricati di esigere tributi dai cittadini. Il suo rendimento annuo supera ora i due miliardi di lire e deve giungere ai quattro miliardi permanenti, senza tener conto dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Altrimenti la finanza dello stato non si salva.

 

 

Gli on. Tedesco e Nitti hanno creduto di dovere scegliere l’uomo incaricato di raggiungere questi risultati fuori dell’amministrazione centrale ed il loro sperimento è degno di essere seguito con la maggior simpatia e col più grande interesse.

 

 

Il nuovo direttore generale ha dinanzi a sé un compito non lieve. Il controllo dell’opinione pubblica, divenuto più fino e severo, mette all’opera sua vincoli, che dianzi non si conoscevano. Non è più, a cagion d’esempio, il tempo delle sciabolate tributarie, con cui, col pretesto delle necessità finanziarie o della guerra, colpivasi a dritta ed a manca, senza badare a perequazione, ad equità , a ragione. Contro le proposte di far denaro purchessia, le quali vengono da tutte le parti; vengono alla rinfusa a ministri, a funzionari, vengono persino, quotidianamente, a me, solo perché scrivo articoli su questi argomenti, bisogna che i capi – servizio puntino risolutamente i piedi. Altrimenti essi mancano al loro compito e ne scapita la loro riputazione. Bisogna tassare con rigore; ma con giustizia, ma in base a principii semplici, chiari, rispondenti alla coscienza universale. Bisogna non aver paura di tagliare sul vecchio, di sgravare, di condonare imposte, di consentire detrazioni, quando queste detrazioni siano corrette, riguardino spese, debiti, carichi personali. Una delle macchie più rivoltanti del nostro sistema tributario è di tassare come reddito ciò che non è tale ed è invece una passività , per futili pretesti, come quello che le imposte sui terreni o sui fabbricati sono imposte reali o catastali e simiglianti cavilli. Si tassano in altri casi le ditte come se fossero una persona sola, si sommano cose non paragonabili. Tutto ciò deve cessare. L’iniziativa ed il merito delle riforme spetta ai ministri ed è bene sia così. Altrimenti, quale molla avrebbe un uomo politico a far bene? Ma ogni direttore generale, ciascuno nel suo ambito, deve essere il consigliere ed il moderatore del suo ministro; il consigliere nelle riforme buone, il moderatore nella tendenza, inevitabile, a prestar l’orecchio alle mille disparate e per lo più non meditate voci le quali giungono sino a lui. Nessuna imposta nuova può essere immaginata e tutte le immaginabili hanno precedenti di successo o di insuccesso. Compito dei consiglieri dei ministri politici è di presentare con fermezza al proprio capo le varie faccie dei problemi che si devono risolvere. Ed il compito non si assolve senza esperienza lunga e senza preparazione scientifica.

 

 

Il corpo degli agenti delle imposte saluterà certamente la nomina del nuovo direttore generale con larga simpatia e con fervida aspettazione. È uno dei loro, ed essi da tanto tempo insistono sulla necessità che i funzionari centrali abbiano vissuto la vita pratica degli uffici esecutivi. Adesso vedono appunto a loro capo chi ancor ieri dirigeva una delle maggiori agenzie del regno.

 

 

Il momento non è facile. Gli agenti delle imposte hanno deliberato di usare l’arma dell’ostruzionismo per ottenere l’adozione di provvedimenti finanziari a loro favore. Le loro richieste sono in gran parte ragionevoli e degne di essere accettate. Non è ammissibile che, mentre si bandiscono concorsi ad 8.000 posti di guardie scelte investigatrici (di pubblica sicurezza con 4.400 lire di paga annua, tra indennità e caro-viveri), si bandisca contemporaneamente un concorso a posti di volontario nelle imposte dirette a 120 lire al mese, se il volontario presta servizio in residenza, ed a 240 lire, se il servizio è prestato fuori residenza. Sono paghe, anche per l’anno di volontariato, prive di significato e che stanno a pari con la indennità di 2 lire e rotti al giorno che si dà ai verificatori tecnici delle finanze quando si debbono recare fuori sede per verifiche a distillerie, zuccherifici ed altre industrie soggette ad imposte di produzione.

 

 

Gli stipendi dei funzionari delle imposte debbono essere convenientemente e notevolmente migliorati. Se non si vuole guastare la uniformità di trattamento con gli altri impiegati dello stato, si dia all’aumento il nome di indennità e la si paghi in misura corrispondente alla delicatezza delle funzioni, agli ostacoli che si devono sopportare, alle odiosità che gli agenti si procacciano, quando operano con giustizia, presso i contribuenti. Per vincere la repugnanza che giovani valenti sentono nell’entrare nella carriera dei funzionari delle imposte e per trattenere i più valorosi dal passare all’industria privata, uopo è concedere loro indennità speciali. Ed insisto sull’idea che in non poca parte queste indennità non siano fisse, ma vengano distribuite a fin d’anno, su proposta dei capi d’agenzia, soltanto tra i funzionari i quali abbiano dato prova di buon rendimento.

 

 

Dopo ciò, mi consentano i funzionari delle imposte una franca parola. L’ostruzionismo, che essi hanno attuato, non è degno di loro. Il funzionario deve essere, prima di tutto, un fedele servitore dello stato. Deve esserlo anche se, come tutti i servitori devoti, talvolta è maltrattato dal padrone. In un momento in cui le assise statali pericolano, ci deve essere chi serba fede alle antiche tradizioni. Chi sa di esercitare funzioni di giudice, non deve mai, ad ogni costo, negar giustizia a chi si rivolge a lui. Non dar corso al reclamo di un contribuente, non sbrigare con sollecitudine gli accertamenti è un atto di denegata giustizia.

 

 

Oramai l’opinione pubblica è consapevole del fondamento delle richieste dei funzionari delle imposte. Ne è convinto il ministro delle finanze e l’atto suo odierno di chiamare a capo dell’amministrazione centrale delle imposte dirette un ottimo fra gli agenti delle imposte ne è la prova più chiara. Perseverare nell’ostruzionismo toglierebbe ai funzionari delle imposte le simpatie, se non dei contribuenti comuni, forse felici di un insperato respiro, di tutti coloro i quali guardano al pubblico bene.

 

 

III

 

L’agitazione degli agenti delle imposte e la perequazione degli stipendi

 

Gli agenti delle imposte sono nuovamente in subbuglio. Dopo avere, col decreto 23 ottobre 1919, ottenuto che si esaudissero i desideri perseguiti attraverso un trentennio di voti, di congressi e di agitazioni, un successivo decreto del 27 novembre toglieva d’improvviso ad essi la parificazione che avevano quasi ottenuto con gli impiegati centrali. Per riconquistare il perduto oggi gli agenti delle imposte minacciano di aderire alla confederazione del lavoro ed annunciano l’ostruzionismo e lo sciopero a scadenza brevissima. Il ministro delle finanze, dinanzi alla minaccia urgente, fa osservare che la questione dei due decreti del 23 ottobre e del 27 novembre è rimessa alla giunta del bilancio, la quale esprimerà il suo avviso intorno alla contesa fra impiegati provinciali, i quali lamentano di essere considerati alla stregua di un ceto inferiore, e gli impiegati centrali, i quali asseriscono il diritto ad una superiorità indiscussa sui cosidetti esecutivi. Per parte sua, il governo considererà lo sciopero e l’ostruzionismo come un atto di ribellione allo stato e resisterà ad oltranza.

 

 

Sia lecito a chi non da oggi ha difeso la causa degli agenti delle imposte, a chi sostiene da anni che la più grande riforma tributaria è la riforma negli accertamenti dei redditi e dei valori ossia la creazione di un personale colto e capace, atto ad interpretare la legge con fermezza ed equità, di esprimere il proprio pensiero con parole chiare.

 

 

«Sciopero» ed «ostruzionismo» sono parole che suonano falso in bocca a funzionari, nei quali diventa viva e visibile quella che si chiama la sovranità dello stato. Paiono già far ricorso a ricatto i ferrovieri ed i postelegrafonici, i quali, avendo le mani, per ragione di ufficio, su uno degli organi essenziali della vita della nazione, la minacciano, rivoltella alla gola, di morte se non si arrende alle loro pretese. Ma è atto di suicidio per coloro che partecipano alla vita dello stato: magistrati, funzionari di polizia e di finanza, ufficiali dell’esercito, insegnanti.

 

 

Gli agenti delle imposte commetterebbero un altro passo falso se insistessero sul voler risolvere la loro questione indipendentemente da quella delle altre categorie dipendenti dal ministero delle finanze. Col decreto 23 ottobre si tentò di parificare gli agenti delle imposte ai funzionari centrali del ministero delle finanze. Ma subito insorsero i centrali, dicendo che la carriera degli «esecutivi» provinciali era divenuta più rapida e più remunerativa di quella dei «direttivi» centrali; che gli esecutivi avevano ottenuto il grado «intermedio» di agente-capo precisamente quando per i direttivi veniva abolito il corrispondente grado intermedio di capo-sezione; che ingiustamente si era tolta ai direttivi la superiorità che da tempo immemorabile essi godevano e debbono razionalmente godere sugli esecutivi e riuscirono a «conquistare» il decreto del 27 novembre. Le allegazioni dei centrali sono quasi del tutto infondate: priva di senso comune la distinzione fra direttivi ed esecutivi; perniciosa la pretesa di vedere ristabilito il grado intermedio, che dovrebbe essere abolito di nuovo per gli agenti delle imposte. Ma nelle lagnanze dei centrali c’era un nucleo di verità , il quale importa ben bene illuminare: che le riforme di organici e di stipendi fatte a spizzico, a sezioni seminano malcontento ed agitazioni senza fine. Si ritoccano gli stipendi degli agenti delle imposte? E subito sono in armi e dicono e scrivono parole di fuoco i centrali, i doganali, i demaniali. Peggio. Siccome non si sono potuti ritoccare, successivamente, col decreto 27 novembre, gli stipendi dei centrali del ministero delle finanze senza ritoccare nella stessa misura quelli dei centrali degli altri ministeri, eccoti, ad esempio, i professori delle scuole medie e, più sommessamente per la maggiore ritenutezza imposta dalla carica, i professori universitari lamentarsi di essere trattati peggio dei funzionari della Minerva; ed eccoti i professori medi minacciare persino di aderire anch’essi alla confederazione del lavoro. E dietro ad essi tutto un codazzo di altri sparificati: gli ingegneri del genio civile, quelli degli uffici tecnici di finanza, i direttori di carceri, e così via. E che dire dei più dimenticati di tutti: i pensionati, i quali spesso patiscono oggi la fame, la vera fame, specialmente le vedove, con pensioni di lire 100 o meno al mese, vedove di professori d’università con 140 lire, di tenenti generali con 200 lire, ecc. ecc.?

 

 

Bisogna persuadersene: viviamo in paese di democrazia, in cui il sentimento sociale più vivo è l’invidia ed in cui l’aspirazione somma è l’uguaglianza. L’uomo di stato non può ignorare questo sentimento e questa aspirazione: deve costruire coi materiali che ha sottomano. Non può erigersi arbitro tra le pretese di superiorità di un ceto sugli altri. Tutti i funzionari dello stato sono ugualmente indispensabili. Se un ministro radunasse attorno a sé i rappresentanti delle diverse categorie di funzionari, tutti saprebbero tirar fuori argomenti ottimi per dimostrare che la propria categoria compie un ufficio altrettanto e più complicato ed utile delle altre. Appena scrivo un articolo intorno ad una classe, piovono sul mio tavolo memoriali interessantissimi delle altre classi; il che, dopo tutto, dimostra che c’è ancora spirito di emulazione e ci sono ancora gli innamorati del proprio mestiere. Che cosa può dire un disgraziato ministro ai rappresentanti delle categorie in zuffa se non l’estote omnes marchiones di Carlo V?

 

 

In fondo, il motto di Carlo V è ancora il solo il quale ci additi la via d’uscita. Bisogna una volta per sempre trovare il modo di unificare le carriere e parificare i gradi. Se il governo non vuole fronteggiare ad ogni tre mesi un’agitazione nuova, deve fondere insieme i vari ruoli: centrali e provinciali, esecutivi e direttivi, imposte e registro, dogane ed uffici tecnici di finanza. Tutte queste separazioni alimentano animosità, litigi e nuociono al pubblico servizio. I centrali ritengono di essere il fior fiore della burocrazia finanziaria, scelti per concorso tra i provinciali; i provinciali li accusano di incompetenza, di corpo chiuso, di vita comoda, di orari brevi, di passeggiate su e giù davanti al caffè Aragno, di esercizio di ogni sorta di mestieri complementari, anche nelle ore di ufficio. Al ministero dell’interno hanno capito il pericolo ed hanno fuso i ruoli di palazzo Braschi e delle prefetture locali, sì da permettere i passaggi ed i ritorni dalla periferia al centro e viceversa. Altrettanto dovrebbe farsi alle finanze ed in genere in tutti i ministeri, dove la cosa non sia impossibile.

 

 

L’unificazione dei ruoli non è tuttavia impresa facile; e non si può compiere in pochi giorni, sotto la minaccia dello sciopero. Tutte le categorie di interessati dovrebbero essere chiamate a collaborarvi e dovrebbero dar prova della loro miglior buona volontà.

 

 

In avvenire, le variazioni di stipendio dovrebbero farsi per semplici aggiunte di decimi. Nessuna mutazione dovrebbe essere consentita nei gradi, nelle qualifiche e negli stipendi senza un riesame integrale e contemporaneo di tutta la materia.

 

 

Nessuna differenza vi deve essere fra categoria e categoria quanto a stipendi. Vi potranno essere servizi più rischiosi o più antipatici o più laboriosi a cui bisognerà assegnare un’indennità di carica, simile a quella che si dà ai commissari di pubblica sicurezza, per compensarli del rischio della vita. Una indennità di questo genere deve essere data agli agenti delle imposte; non fissa, non uniforme, come vedo essere chiesta in taluni loro memoriali, ma globale, di un tanto per cento sul reddito delle imposte nuove. L’agente non deve essere interessato all’accertamento singolo, il che sarebbe immorale. Ma vi deve essere un fondo unico, per tutta Italia, proporzionato al gettito delle imposte, da distribuirsi secondo il merito, a giudizio dei capi-servizio. Si correrà il rischio di qualche favoritismo; ma è rischio minore del danno certo di dare 3.000 lire all’anno fisse a tutti coloro i quali hanno un certo grado nella gerarchia. L’opinione pubblica sarà solidale coi funzionari delle imposte se essi chiederanno fusione delle carriere e indennità di produzione; ma li abbandonerà a se stessi se li vedrà muovere all’assalto dello stato con l’arma suicida dello sciopero.

 

 

IV

 

Nel nord non si reclutano più impiegati pubblici!

 

Ho sott’occhio i risultati dell’ultimo concorso ad agenti delle imposte; ultimo bandito senza la condizione della laurea, d’or innanzi obbligatoria in virtù del decreto-legge 24 novembre di riforma dei tributi diretti. I concorrenti furono 1.217, di cui 325 laureati e 892 non laureati. Sui 160 vincitori solo 19 erano sforniti di laurea; ma data l’urgenza del bisogno, la commissione dichiarò idonei altri 180 laureati e 390 non laureati, in tutto 570, i quali verranno probabilmente assunti in servizio. Il 64% dei vincitori e il 61% degli idonei erano combattenti; il 26 ed il 25% rispettivamente avevano età superiore ai 30 anni. Indizio quest’ultimo della perturbazione che la guerra ha determinato nell’inizio delle carriere.

 

 

Ma il dato più interessante della statistica è quello della distribuzione per regioni. Cito solo i dati relativi ai vincitori ed agli idonei, avvertendo però che essi non differiscono apprezzabilmente dai dati relativi ai concorrenti. Sul totale l’Italia meridionale diede il 78,90%, l’Italia centrale il 15,45 e quella settentrionale il 5,65 per cento. A mano a mano che si sale verso il nord diminuisce il concorso all’ufficio di agenti delle imposte. Classificando le regioni nell’ordine della partecipazione percentuale al totale dei vincitori ed idonei abbiamo: Romagna 0,55%, Emilia 0,68, Liguria e Veneto 0,91, Piemonte 1,51, Lombardia, Marche ed Umbria 1,64 per ognuna, Toscana 2,46, Sardegna 3, Abruzzi 3,01, Lazio 3,15, Basilicata 4,52, Calabria 6,03, Puglie 8,08, Campania 25,20 e Sicilia 35,07 per cento. Anche senza fare il calcolo più preciso della distribuzione in ragione di abitanti, si vede subito che senza il mezzogiorno, anzi senza la Campania e la Sicilia, non sarebbe più possibile in Italia accertare ed esigere imposte. In minori proporzioni la stessa verità può affermarsi di tutti gli impieghi pubblici. Lo stato in Italia non potrebbe funzionare senza quella borghesia meridionale a cui ogni giorno rimproveriamo di essere priva di iniziativa, incapace di darsi alle industrie ed ai commerci ed alla terra; ma che è certamente frugale, amante della famiglia, l’unica classe in cui resista ancora un certo sentimento di rispetto allo stato, di tutela dell’interesse collettivo. Senza i figli poveri di questa borghesia meridionale, come, ripeto, potrebbe oggi funzionare lo stato?

 

 

Non bisogna tuttavia chiudere gli occhi dinanzi al danno di questa esclusività del mezzogiorno nel provvedere agli uffici pubblici. I funzionari venuti dal mezzogiorno nell’alta Italia non conoscono bene il paese, vivono chiusi nel proprio ceto, non si affiatano con gli abitanti, desiderano ardentemente di ritornare nella propria regione nativa. Sui 730 vincitori ed idonei, i nove decimi vorrebbero vivere nella propria regione; e non pochi lasciano decadere il diritto al posto perché l’amministrazione non può, per evidenza intuitiva, soddisfare i desideri di tutti.

 

 

Se il reclutamento si fa male ed a stento, la colpa è in gran parte dello stato. Gli agenti delle imposte hanno compiuto un atto deplorevolissimo, proclamando l’ostruzionismo e mettendosi contro lo stato, di cui essi sono parte e sostegno. Ma che cosa si può rispondere quando ci si trova dinanzi a uomini che hanno un quarto di secolo di carriera, che reggono uffici importantissimi, fruttiferi di decine e centinaia di milioni all’erario e ricevono poco più di 600 lire nette al mese e ne avranno forse 700 quando saranno liquidati gli aumenti, che datano dall’1 maggio dell’anno scorso? Che cosa si può dire quando quel funzionario cita con invidia lo stipendio di 800 lire che ha l’usciere della tale banca? Chi osserva i passanti per le vie di Torino e di Milano non vede più operai vestiti con abiti tanto stinti e tanto frusti come sono quelli indossati dagli impiegati di stato; le facce scarne, indizio di scarsa alimentazione, non si vedono più sotto ai berretti, ma sotto ai cappelli lucidi della borghesia che scrive. Ogni giorno si sente dire di figli delle cosidette «buonissime famiglie» che vanno a fare gli operai nelle fabbriche, ma disdegnano concorrere ai pubblici uffici.

 

 

Contro questa iniziale paralisi dello stato bisogna reagire subito. Un’occasione da cogliere è quella degli agenti delle imposte. Ritornino questi al lavoro con alacrità ; ed inizi il ministro delle finanze quel lavoro di unificazione delle carriere finanziarie che è urgente per ridare pace e tranquillità ad un servizio, di cui nessuno è più importante oggi per l’Italia. Ed attui quel principio della indennità di produzione, che è sancito nelle leggi vigenti e che forse potrebbe giovare ad eccitare la produttività dei funzionari ed a procacciar nuove reclute anche tra i giovani del nord, oggimai insensibili alle attrattive degli stipendi fissi.

 



[1] Con il titolo La più grande riforma tributaria [ndr].

[2] Con il titolo L’ostruzionismo degli agenti delle imposte e un buon atto di governo [ndr].

[3] Con il titolo L’agitazione degli agenti delle imposte [ndr].

[4] Con il titolo La riforma tributaria in Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 21-27[ndr].

Torna su