Opera Omnia Luigi Einaudi

La politica ferroviaria nell’avvenire

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/08/1901

La politica ferroviaria nell’avvenire[1]

«Critica Sociale», 1 agosto 1901, pp. 230-234

 

 

 

Alle molte cose dette bastano brevi conclusioni.

 

 

Oramai l’Italia si trova davanti allo spirare del primo ventennio di quelle Convenzioni, i cui difetti organici abbiamo posto in chiaro e non sono più un mistero per nessuno. Non solo si tratta di ovviare ad essi, non solo devesi far sì che la Ferrovia divenga un’impresa non di rovina, ma di lucro. È pure indispensabili che il servizio migliori in modo permanente, così per prontezza di trasporti come pel loro buon mercato, sì che l’industria paesana tragga da esso quegli utili che ha diritto e bisogno di attendersi.

 

 

Percorrendo i volumi dell’Inchiesta industriale del 1872, quelli dell’Inchiesta doganale del 1886, gli Atti stampati della Commissione doganale del 1892; leggendo gli studi recenti che Associazioni industriali e Camere di commercio vanno facendo sulle condizioni delle industrie nostre, troviamo costantemente ripetuto un grido di biasimo contro la eccezionale altezza dei prezzi di trasporto delle nostre Ferrovie. Queste da una parte, Società di navigazione dall’altra, sembrano quasi riunite in Sindacato per creare tariffe, che hanno forma proibitiva. E qui un industriale dimostra come una tonnellata di ferro trasportata da Manchester a Palermo costi meno che non condotta ivi da Milano; là si avverte come il carbone, giunto sul luogo di destinazione, per causa del nolo e della ferrovia, costi tre a cinque volte il prezzo originario; come questo impedisca agli industriali di valersi dei carboni a minor prezzo, ma più lontani, e di creare quella rapida trasformazione dei motori idraulici in motori a vapore, che pur sarebbe richiesta da tante tecniche necessità di perfezionamento. Ed è sempre l’altezza delle tariffe di trasporto, che le industrie concordi portano avanti come uno degli elementi del maggior costo di produzione dei prodotti nazionali, base di tutte le richieste di una protezione doganale. Che se poi dai reclami dell’industria passiamo a controllare coi fatti, vediamo il lento e faticoso accrescersi del traffico delle merci, raggruppato del resto solo intorno a pochi centri principali d’industria, e l’aumento ancora più misero nel numero dei viaggiatori, specialmente dopo che la legge 15 agosto 1897 stabili una sovrimposta sul prezzo di trasporto di essi nella misura dell’1% per i treni omnibus e del 10% per i treni diretti, sovrimposta trasformata poi, con la legge 18 marzo 1900, in un aumento generale delle tasse sui trasporti, che varia dal 2 al 3% per la piccola velocità, dal 13 al 16% per la grande! Per tal modo tutta Italia in generale, il suo commercio in ispecie, è venuto e viene pagando i colossali errori amministrativi e tecnici delle Casse pensioni. Condizione di cose queste tanto più grave, in quanto l’incremento delle industrie nazionali spinge sempre più il commercio ad avvalersi dei mezzi di trasporto per intensificare gli scambi interni e spingere i nostri prodotti sempre più lontano dai ristretti cechi della nostra esportazione, verso i paesi più remoti.

 

 

Occorre quindi cambiar strada. Il primo problema che ci si presenta è questo: concederemo di nuovo le Ferrovie all’esercizio privato, o lo Stato, liquidando tutto il passato, riprenderà nelle sue mani i mezzi di trasporto così come si trovano, salvo cercare di far più e meglio per l’avvenire?

 

 

Giova riassumere le principali ragioni teoriche pro e contro i due sistemi.

 

 

Esercizio governativo. La strada ferrata costituisce, per la sua importanza, a cui è collegata tutta la vita del paese, un vero servizio pubblico. Come tale, rappresenta una delle funzioni dello Stato moderno, tutore degli interessi della università. Inoltre, la strada ferrata è, per la sua peculiare natura tecnica, un monopolio. In tal modo, coloro che la esercitano, possono padroneggiare il pubblico e i commerci, giovare o nuocere a determinate industrie, o centri di mezzo delle tariffe. Indirettamente anche, la creazione di potenti Compagnie, che dispongono di forti mezzi finanziari e di migliaia di uomini, crea quasi tanti Stati nello Stato, con manifesto pericolo dei diritti sovrani di questo. Invece lo Stato, esercitando direttamente il grande monopolio dei trasporti ferroviarii si ispira all’interesse di tutto il paese: promuove il traffico, avendo in vista non solo il benessere presente, ma i bisogni futuri, nel mentre l’amministrazione ferroviaria, resa più semplice, con un’unica Direzione centrale e vigilata dai poteri di controllo, non è certo più costosa di quella delle Società private. La ferrovia ha anche somma importanza strategica. Ora affidata allo Stato, l’amministrazione viene organizzata in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze militari, sì in tempo di pace che in tempo di guerra. Infine, non è da temersi grave danno politico da questa nuova azione dello Stato e dal gran numero di nuovi impiegati governati. Uno Stato libero e nazionale non può prendere in sospetto il Governo e i suoi rappresentanti. Da noi e il paese che governa sé stesso, e d’altra parte, quando pure si verificassero in piccola misura i danni temuti di una crescente estensione delle funzioni dello Stato, è facile il provvedere.

 

 

Esercizio privato. Dal fatto che le Strade ferrate hanno un’importanza grandissima, non consegue logicamente che l’esercizio di esse costituisca una funzione dello Stato. La questione va posta nel modo più concreto e va risoluta considerando imparzialmente la vera natura dell’esercizio delle Strade ferrate, i frutti dell’esperienza e le reali presenti condizioni dello Stato italiano.

 

 

Chi esercita la Strada ha, sotto un certo aspetto, prerogative di monopolio, derivanti in parte dalla natura di questo commercio, in parte dalle leggi. Però è da osservare che una certa concorrenza esiste sempre diretta e indiretta. Diretta, quella compiuta dalle strade ordinarie, dal tramways che sempre più si estendono e dalle vie di acqua. Indiretta, pel fatto che uno spostamento nei mercati, prodotto da cause diverse da quelle dei trasporti, genera una concorrenza effettiva fra la varia natura di questi. È però vero che, in generale e nei paesi dove il movimento commerciale non è così spiccato come in Inghilterra, la concorrenza non è così attiva da produrre sempre i soliti effetti di essa. E appunto da questo fatto, unito alla grande importanza politica ed economica delle Strade ferrate, che trae origine l’intervento dello Stato nel concederle e nel regolarne l’esercizio. In questo lo Stato agisce precisamente come per tutte le grandi istituzioni politiche, economiche e morali, su cui esso esercita un alto diritto di vigilanza.

 

 

Uno dei motivi, per cui si invoca l’esercizio diretto dello Stato, è che il monopolio ferroviario può produrre i suoi effetti dannosi specialmente sulle tariffe, che formano uno dei lati fondamentali dell’industria dei trasporti.

 

 

Molti ritengono che lo Stato, divenendo esercente, scemerebbe le tariffe fino al punto di rimborsarsi delle sole spese vive di esercizio, prescindendo dagli interessi e dalle quote di ammortamento del capitale d’impianto. Questa singolare speranza però è smentita assolutamente dai fatti. Così nel Belgio, come nella Germania, i Governi, spinti da necessità finanziarie, mantengono le tariffe e tale altezza, da farle partecipare al doppio carattere di prezzo e di imposta. Notisi che si tratta di due paesi ricchi, e con bilancio più che consolidato. In un paese povero l’Italia, il vero direttore delle ferrovie sarebbe il ministro del Tesoro, che trarrebbe motivo da ogni deficit finanziario per riparare con quel mezzo, così comodo in apparenza, così pericoloso e iniquo nella realtà, di un piccolo aumento nel prezzo unitario di trasporto. E se questa forma di imposta può giustificarsi, come vedremmo altrove, in Germania, non altrettanto può dirsi nel paese nostro, dove le imposte sono già eccezionalmente elevate, imperfette e sperequate. E sinora difatti, malgrado lo Stato italiano non abbia l’esercizio, non solo la vigilanza sull’azienda ferroviaria, la sua azione non si è esercitata che nel senso di aggravare i prezzi di trasporto, e, come abbiamo visto, di resistere e qualunque proposta delle Società nel senso di opportuni ribassi.

 

 

È vero che non si può ritrarre da ogni Strada ferrata un reddito netto, che basti a compensare le spese dell’esercizio e rimunerare e rimborsare il capitale impiegato nel costruirla. Per conseguenza, lo Stato che ordina la costruzione di simili Strade, deve stabilire una garanzia o una sovvenzione, senza di che la Strada non si farebbe. Costruisca però ed eserciti il Governo, oppure il privato, sarà sempre necessario che l’erario pubblico sopporti questo onere, che è la conseguenza inevitabile dell’avere costruito la Strada sotto l’impulso di una dichiarazione di pubblica utilità.

 

 

Nuovi treni, nuovi comodi, maggiore velocità, sono altre ragioni, per cui da taluni si chiede l’esercizio governativo. Tutte queste domande in sé sono giuste; ma non giustificano l’intervento diretto dello Stato, anzi ne costituiscono uno dei maggiori pericoli. Finché la ferrovia è esercitata dalle Società private, queste si mostrano poco corrive a concedere treni diretti e grandi comodità su quelle linee dove il traffico ha una minima importanza. Quando invece l’industria fosse esercitata dallo Stato, la confusione dell’amministrazione ferroviaria con l’azienda generale, da una parte, l’azione più diretta che sul Governo in tale materia potrebbero esercitare i rappresentanti degli interessi locali, dall’altra, renderebbero più facile l’esecuzione e il mantenimento in grande di quelle linee finanziariamente disastrose, che già sin d’ora costituiscono uno dei danni principali della nostra politica ferroviaria. Ed è singolare che i fautori dell’esercizio governativo, da un lato richieggano aumenti di spese e di comodi, e dall’altro diminuzione di tariffe: vogliono avere di più e pagare di meno. Se vede quindi, che, sia pure inavvertitamente, fanno largo assegnamento sul bilancio dello Stato e quindi sui contribuenti.

 

 

Vi è, inoltre, una parte della grande industria ferroviaria, in cui il carattere industriale è più specialmente spiccato; è quella che comprende gli approvvigionamenti necessari all’andamento dell’impresa. Bisogna fare continui contratti all’interno e all’estero, acquisti, appalti, impianti, modificazioni di tariffe, ecc. A questo è necessario che l’amministrazione di una Ferrovia sia ordinata in forma industriale, e che il personale abbia attitudine, intelligenza, spirito industriale, vada soggetto a forte responsabilità individuale, possa essere promosso, premiato, punito o licenziato, secondo i meriti di ognuno. Ora, quanto ai contratti, l’amministrazione pubblica, complicata, lenta e continuamente sindacata, legata inoltre dal regolamento e dalla legge di contabilità di cui abbiamo visto tutti i difetti, appare precisamente la più inetta all’uopo. Si immagina, ad esempio, un contratto per acquisto di carbone fatto a epoche fisse, ai pubblici incanti, entro i limiti delle somme stanziate nel bilancio previa richiesta di cauzione dai fornitori, e sempre col pericolo per questi di vedersi all’ultimo momento respinto il contratto per mancanza dell’approvazione suprema?

 

 

Quanto all’andamento dell’esercizio, fatto dallo Stato italiano per mezzo di una burocrazia, tocchiamo a uno dei punti più vitali e più delicati dell’argomento. Non vogliamo parlare tanto del personale locale e viaggiate, che potrebbe essere conservato quale è, e che si mostra atto in generale; e per quanto pure questo personale, risentendo l’influenza degli ordinamenti burocratici, acquisterebbe quel fare lento, conservatore, minuzioso della burocrazia, e risentirebbe del rallentamento della disciplina. Ma il danno maggiore si sentirebbe nell’amministrazione centrale. Agli amministratori personalmente interessati, largamente partecipanti ai profitti e con gravissima responsabilità personale, amovibili per semplice volontà degli azionisti, lo Stato sostituirebbe funzionari disinteressati, personalmente indifferenti ai risultati dell’esercizio, difficilmente rimovibili e giunti a quelle cariche altissime per la solita via dell’anzianità. L’elemento del merito nelle amministrazione italiane cessa di avere influenza sugli avanzamenti, precisamente quando comincia a sentirne il bisogno. Non è nostro compito entrare in una questione spinosa, su cui pure tanto si è scritto senza conoscenza di causa. In linea di fatto però, sta che l’impiegato in Italia cessa dell’avere un impulso materiale allo studio e alla coltura, quando ha appena superato i due primi gradi della carriera. Sicché, senza tema di errare, si può affermare come regola: «che nella amministrazioni centrali italiane il grado di coltura e di intraprendenza sono in ragione inversa della carica». E a simili funzioni, ignari di tutto il movimento odierno economico, estranei ai nuovi orizzonti delle dottrine giuridiche, abituati a tenere come articoli di fede la circolare e il regolamento, si potrebbe a cuor leggero affidare un servizio così snello nei suoi andamenti, così vario nelle sue mutazioni, così spinoso nei suoi rapporti giuridici ed economici, sia col pubblico, sia col personale viaggiante, quale il servizio ferroviario?

 

 

Chi ha ancora di queste illusioni, consulti quanto è stato operato sinora dal Consiglio superiore delle tariffe e dall’Ispettorato generale delle ferrovie.

 

 

Inoltre, due ragioni, di peculiare importanza per l’Italia, militano contro l’esercizio dello Stato. I bilanci di questo, che già tanto risentano indirettamente del cattivo andamento dell’azienda ferroviaria, verrebbero posti dall’esercizio diretto in continue incertezze e perturbamento, causati specialmente dalle rapide oscillazioni nei prezzi dei ferri e dei carboni, proprio ora che, grazie a non poco di buona volontà generale, siano riusciti ad ottenere un bilancio relativamente sicuro. Questo è uno dei difetti lamentati, specialmente nel Belgio, dai relatori sui bilanci preventivi.

 

 

Inoltre, è indispensabile per lo Stato italiano sottrarsi alla necessità di emettere consolidato per le spese in conto capitale ed evitare, per le spese di miglioramento e di completamento delle Strade, ulteriori emissioni di rendita. Questo punto è troppo chiaro per venire qui delucidato. Avvertiamo però solo che, secondo il calcolo stabilito dalla Società delle Meridionali nella Nuova Antologia dell’1 marzo corrente anno, un riscatto fatto presentemente costerebbe allo Stato parecchie centinaia di milioni, pur ritenendo esagerata la cifra di un miliardo, indicata dai tecnici di quella Società stessa. Come abbiam visto, il valor netto capitale delle Ferrovie italiane, calcolato all’interesse del 4%, è di 1200 milioni di lire. Qualora esso venga prudentemente amministrato, con le cautele che diremo più sotto, e calcolandosi che, per le speciali condizioni dei mercati internazionali, l’interesse andrà abbassandosi abbastanza rapidamente al 3 e anche al 2 1/2 per cento, non è da disperare che fra quarant’anni quel valore capitale sia risalito ai 4 miliardi, che le ferrovie sono realmente costate.

 

 

Crediamo di aver portato sufficienti motivi di ordine finanziario, amministrativo, e morale, per cui l’esercizio ferroviario da parte dello Stato in Italia si presenta come prematuro. Dato quindi che si rinnovino le Convenzioni con le attuali Società o con altre nuove quali dovranno essere i caposaldi dei nuovi patti? I difetti riscontrati in quelli antichi agevolano assai la via a una ricostruzione sintetica.

 

 

1. E intanto, per generale consenso di quanti si sono occupati della materia, comprese le stesse Società, quel principio, così nemico di ogni perfezionamento, che è la partecipazione dello Stato al prodotto lordo, va assolutamente abbandonato.

 

 

Come già accennammo, esso era stato adottato sull’esempio dell’Olanda, quando colà gli si sollevavano già contro critiche serissime. Con nuove Convenzioni 21 gennaio 1890, le Società Neerlandesi corrispondono allo Stato un canone, da aumentarsi di una somma fissa per ogni chilometro di nuova linea che vanga aggiunta a quelle già esercitate da esse, più una eventuale quota di utili netti. Così lo Stato nei Paesi Bassi non partecipa più agli aumenti di prodotto lordo, che rimangono alle Società: queste però hanno a loro carico l’interesse delle spese capitali per miglioramenti e ampliamenti. Conveniamo con l’on. Carmine, che questo sistema del canone fisso sarebbe il metodo migliore da adottarsi nelle nuove Convenzioni, come quello che assicurerebbe al bilancio dello Stato un introito fisso e sicuro, permetterebbe alle Società di calcolare con precisione il loro movimento finanziario, e semplificherebbe i rapporti così pesanti esistenti fra Stato e Società.

 

 

Come si determinerebbe questo canone? Non è da farsi illusioni: dati gli oneri che con le nuove Convenzioni verrebbero accollati alle Società e di cui diremo in seguito, non è da sperare che per i primi anni esso possa raggiungere una considerevole altezza: si potrebbe però stabilire che, dopo un periodo di 10 anni almeno, una revisione delle entrate ferroviarie dia diritto allo Stato di esaminare, in contraddittorio colle Società, se questo canone possa dello Stato di partecipare, oltre che col canone, a una certa quota di utili netti, come molti propongono. Questo sistema ci sembra il più pericoloso e il più illusorio di tutti.

 

 

Chiunque abbia pratica di una contabilità industriale, sa con quanta gelosa cura vengano nascoste le voci particolari da cui deriva l’utile netto annuale, perché la pubblicazione di esse sarebbe una esposizione di tutti i segreti speciali, con cui ogni Società amministra la propria azienda. È perciò che anche il Codice di commercio, nel prescrivere che gli istituti commerciali pubblichino il loro bilancio annuale, ha adottato una dizione tale, da permettere ad essi di sottrarre alla conoscenza del pubblico la dimostrazione dei profitti. Ora il sistema della partecipazione dello Stato agli utili netti, nel nostro caso, sarebbe o illusorio o deleterio, qualora lo Stato si accontentasse di partecipare agli utili nella misura dei bilanci ad esso presentati dalle Società. Deleterio invece nel caso più probabile che lo Stato volesse seguire, con occhio interessato e fiscale, passo passo l’andamento annuale di questi utili. Poiché questo implicherebbe una vigilanza, su tutte le più minute parti dell’amministrazione, così sottile e vessatoria, da distruggere ogni libera iniziativa delle Società e rendere queste non più organi indipendenti, ma semplici amministrazioni per conto dello Stato.

 

 

2. In conformità alle Convenzioni olandesi, si dovrebbe stabilire che tutte le spese, che attualmente dovrebbero far carico ai tre fondi di riserva, debbano sostenersi dalle Società. Vedemmo già i difetti dei tre fondi di riserva, e come essi, eleganti teoricamente, abbiamo nel fatto data cattiva prova. Nel sistema ora indicato le Società provvederebbero a quelle spese nel modo che meglio loro sembrasse opportuno, non eccedendo, s’intende, i limiti di spesa determinati dallo Stato.

 

 

3. Vedemmo anche le continue difficoltà a cui dà luogo la ripartizione fra le due parti contraenti delle spese ordinarie d’esercizio e di quelle per gli aumenti e migliorie del materiale e degli impianti, causa lo stretto nesso logico che intercede fra di esse. Queste spese dovrebbero pure affidarsi alle Società contro compenso da calcolarsi nella determinazione del canone.

 

 

4. Rispetto alle nuove costruzioni, sarebbe opportuno che prevalesse il concetto, già ammesso nelle Convenzioni vigenti, di preventivarne le spese d’accordo con le Società esercenti, e di affidarne completamente l’esecuzione ad esse, riserbandosi lo Stato, qualora sorgessero contestazioni posteriori sulle spese già preventivate, il diritto di continuare direttamente la costruzione. In tal modo verrebbe eliminato quel sistema scandaloso dei pubblici appalti, di cui rilevammo altrove i disastri, tenendosi anche presente che l’unica linea italiana, il cui costo non abbia superato il preventivato, fu la Roma Sulmona, costruita appunto direttamente dal Governo. Ma sopratutto sarà feconda per la finanziaria italiana l’applicazione della recentissima legge del 5 giugno scorso, che autorizza di trattare con le Società esercenti, per trasformare il servizio col sistema più economico. In forza di questa legge, per la quale l’Italia dovrebbe senza esagerazione un monumento di riconoscenza all’attuale ministro dei lavori pubblici, onorevole Giusso, il sistema economico si potrebbe applicare a tutte le linee che non rendono più di diecimila lire al chilometro. Per avere un’idea delle portata di questa legge, basti dire che l’Italia ha di tali linee per 5 mila chilometri, che con le nuove costruzioni volute dalla legge del 1879 se ne aggiungerebbe per circa altri 1000 chilometri, e che la differenza della spesa fra il sistema ordinario e il sistema economico è di un terzo! Il sistema economico importa altresì la grande riduzione di prezzo (fino al 25%) nel trasporto, sì di viaggiatori che di merci, e le stesse tasse erariali sono ridotte nella dovuta proporzione.

 

 

5. Il problema delle tariffe ferroviarie dovrà, colle nuove Conversioni, riprendersi in istudio. Il sistema del canone fisso permette appunto, assicurando lo Stato circa alle sue entrate, il compiere un ardito tentativo per abbassare in modo notevole le tariffe, come è stato fatto con fortuna da tutte le nazioni civili. È nostra ferma convinzione, fondata sullo sviluppo industriale che l’Italia ha assunto in questi ultimi anni, che una economica nei prezzi di trasporto darebbe un tale slancio al movimento commerciale, da compensare ad usura le Società del minore introito unitario. E non è da dire che si procederebbe alla cieca. È enorme l’aumento del traffico che si è ottenuto sulla semplice linea Bologna San Felice, ove, con legge speciale del 1900, fu introdotto il servizio economico. Paragonati i risultati del maggio 1900 con quelli del maggio 1901, si ha che, da tre coppie giornaliere di treni, si è arrivati a sette, e che il trasporto delle merci è aumentato in un sol mese di settemila tonnellate.

 

 

Il piano avvenire è quindi relativamente semplice.

 

 

Non eccessive trasformazioni, ma prudente riordinamento di quanto si fece nel passato. Maggiore libertà d’azione e correlativa responsabilità alle Società esercenti, economia e onestà maggiori da parte dello Stato. Bisogna persuadersi che qualunque sistema di trasporti non è mai assolutamente cattivo: quello che lo rende tale è il cattivo andamento degli affari generali. La Ferrovia, per dirla con termini edonistici, è un bene complementare: e la sua utilità dipende da quella dei beni diretti. È dallo sviluppo dell’industria che dobbiamo aspettarci il rifiorimento di quella dei trasporti.

 

 

In tutto il nostro studio abbiamo di proposito evitato di complicare la questione, introducendovi un loto spinoso: quello dei rapporti fra le Società esercenti e il personale ferroviario.

 

 

Per essi occorrerebbe uno studio speciale: ci sia concesso dire poche parole.

 

 

Se la politica ferroviaria è stata avventata e dissipatrice in parte, l’atteggiamento delle Società e dello Stato verso il personale ferroviario fu ed è dolosamente iniquo. Giammai, come nel trattamento fatto ad esso, sono risaltati così chiari i caratteri negativi della borghesia italiana, che non sa neppure essere intelligentemente egoista. I rapporti fra Società e impiegati si riassumono in pochi termini: imprevidenza e mancanza ai patti. L’atteggiamento dello Stato è il solito: poliziesco.

 

 

E valga il vero. Già al secolo decimottavo, Giacomo Bernouilli, in quel calcolo delle probabilità ch’egli chiamava nodosum et jucundum, gettava le basi della scienza delle assicurazioni. Nel 1885 in Italia non si sapevano ancora creare le Casse pensioni dei ferroviari. La storia degli errori tecnici di tale Istituto sarebbe un documento di onta. Non passo anno da allora, che relatori di bilancio non rilevassero il deficit a getto continuo lasciato da dette Casse, non passò anno che lo Stato non gettasse in esse milioni, che le Società non dovessero aumentarvi le loro quote, rivalendosi, al solito, con economie ed angherie di ogni sorta sul personale. A questo vennero aumentate le ritenute, violando i capitolati annessi alle Conversioni; si accrebbero i casi di sospensione dallo stipendio; si diminuirono sino all’assurdo, le indennità di malaria. Si procedette con piccoli palliativi di ogni sorta: ma la questione delle Casse pensioni nel 1901 si può dire ancora aperta! E ciò mentre le Compagnie francesi dedicano ogni anno somme sempre maggiori per istituti di previdenza d’ogni genere a favore dei loro impiegati più umili.

 

 

Gli articoli 103 del capitolato per le reti Adriatica e Mediterranea e 98 per la Sicula decretavano: che si stabilisse un organico del personale ferroviario e si emanassero regolamenti per gli avanzamenti, le sospensioni, le dispense dal servizio, ecc. Il ruolo organico non è ancora stato eseguito.

 

 

Non vi è paese civile, anche dei più liberisti, dove lo Stato non sia intervenuto, per motivi di umanità da una parte, di sicurezza del pubblico dall’altra, a regolare in modo tassativo l’orario di lavoro dei ferroviari: la stessa Inghilterra, con atti del 1900, dà precise e severe disposizioni in materia. Nella sola Italia si sono avute scarse norme, a cui le Società sanno abilmente sottrarsi, risolvendosi così quelle in una irrisione.

 

 

E tutto questo sarebbe ancor poco, se ad invelenire i mali non concorresse il sistema di oppressione morale permanente, con cui le Società sanno asservire i loro subalterni, mediante trasferimenti in massa, sospensioni, sorveglianze avvilenti, ecc. ecc.

 

 

Di fronte a questo stato di cose, insopportabile quando si pensi al grado di elevatezza richiesto per esercitare l’arduo servizio del ferroviere, sì pieno di delicate responsabilità, coloro che si occupano delle nuove Convenzioni, Cadolini, Carmine, le Società stesse, altro non sanno se non chiedere che queste siano lasciate più libere nei loro rapporti col personale subalterno.

 

 

Noi ammettiamo la libertà di lavoro, ma ad un patto: che essa valga per ambo le parti contraenti. Ora, una delle armi più legali e potenti della classe operaia, per rivendicare i propri desiderii e le proprie aspirazioni, è il diritto di sciopero. Ma quando, di fronte alla minaccia di uno sciopero di ferrovieri, il Governo interviene così compiacentemente a farsi il manutengolo dei signori azionisti delle Società, militarizzando i ribelli; quando invece, dall’altro lato, esso non trova più le sue energie per costringere gli azionisti a mantenere i patti contratti coi lavoratori; non si può più parlare di libertà, poiché i ferrovieri restano abbandonati, mani e piedi legati, al più sfrenato arbitrio delle Compagnie.

 

 

A dir vero, quest’arme della militarizzazione non ci sembra gran fatto pericolosa in sé. Quando uno sciopero generale e ben organizzato scoppiasse, per forti motivi, a Camera aperta, quando i deputati liberali potessero esercitare in tutti i modi più energici la loro azione, un rifiuto di assumere servizio, malgrado il decreto di militarizzazione, non vediamo a quali sventure potrebbe condurre gli scioperanti. Il loro numero ingente li protegge: e d’altra parte, l’Italia del 1901 non è più quella del 1894 e nemmeno del 1898.

 

 

Ma appunto perché l’arme dello sciopero generale, date le condizioni peculiarissime del servizio ferroviario, è arme sicura da usurarsi solo come ultima ratio, e d’altra parte un decreto di militarizzazione, anche se sprezzato, introdurrebbe un elemento di grave inacerbimento degli animi, è più che mi necessario che il Governo, respingendo le subdole insinuazioni delle Società ferroviarie e dei loro azionisti interessati, intervenga nella nuove Convenzioni con la massima energia, per regolare in modo rapido e definitivo la situazione di quei centomila individui, che in Italia mettono in opera i mezzi di comunicazione e trasporto.

 

 

I metodi per garantire a questa ingente e benemerita massa di lavoratori una esistenza libera e onorevole, sono indicati a contrariis negli Atti della R. Commissione d’inchiesta sui rapporti fra le Società esercenti le tre principali reti di Ferrovie del Regno e il loro personale (Roma, tipografia del Senato, 1899). I capisaldi devono essere: un organico ben determinato; un regolamento che minutamente esponga i modi e le cautele per l’avanzamento, il collocamento a riposo, le punizioni e i trasferimenti; un riordinamento definitivo delle Casse pensioni; una Commissione arbitrale indipendente, per ricevere i reclami individuali o collettivi dei ferrovieri contro la Società e contro lo Stato, con decisione esecutiva e inappellabile.

 

 

Solo quando le nostre classi dirigenti si saranno convinte, di buon accordo o con la forza, che il progresso odierno dell’industria capitalista non è e non può essere fondato sull’asservimento e sull’esaurimento dei lavoratori, sarà avvenuto in Italia quel passo decisivo verso la civiltà e il benessere generale, che nei paesi più avanzati è oramai un fatto compiuto.

 

 

ATTILIO CABIATI, LUIGI EINAUDI

 



[1] Occorre appena di qui rammentare, per la peculiare importanza del tema, quella che è massima costante della nostra Rivista: che cioè delle opinioni espresse in articoli firmati, sopra argomenti speciali, rispondono esclusivamente i rispettivi autori. Affidando a due scrittori di competenza e di indipendenza superiori ad ogni sospetto lo studio del ponderoso problema ferroviario italiano, noi intendemmo sopratutto di porre la questione, di porla in tempo perché possa dar luogo a una discussione feconda, e di offrire a questa un buono e ben coordinato munizionamento di fatti. Se opinioni opposte si presenteranno, purché seriamente sostenute, da un punto di vista che interessi il nostro partito, le accoglieremo con uguale liberalità. (Nota della CRITICA)

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