Opera Omnia Luigi Einaudi

La predica della domenica (I)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/01/1961

La predica della domenica (I)

«Corriere della Sera», 22 gennaio 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 3-5[1]

 

 

 

Forse la spinta più forte alla presentazione del disegno di legge detto unico, e che in Italia un tempo si sarebbe detto omnibus, ed alla agitazione sociale odierna nel Belgio, fu la necessità, in cui gli uomini di governo si sono trovati, di dare inizio alla progressiva chiusura delle miniere di carbone, la maggior parte delle quali lavora in perdita, per la cattiva qualità del prodotto e per il crescente costo di estrazione. Noi, in Italia, ci ostiniamo a perdere miliardi ogni anno per volere coltivare il pessimo carbone sardo, che nessuno volontariamente usa, e vogliamo crescere la perdita, trasformandolo in forza elettrica, da trasportare poi, attraverso mari e monti, sul continente. Ciò è insensato; come è insensato ostinarsi a perdere denari nel coltivare ligniti in Toscana: col risultato principale di provocare infortuni sul lavoro a causa della difficoltà di coltivar bene là dove si perde.

 

 

Continuiamo a perdere in Italia perché i miliardi, anche se sono parecchi, scompaiono nel calderone delle spese statali e queste crescono perché gli italiani attivi seguitano a crescere il reddito nazionale, affinché le mosche cocchiere possano dire, a nome del bue che tira l’aratro: abbiamo arato!

 

 

Nel Belgio, l’industria carbonifera essendo principalissima, il Paese non può seguitare a perdere tanto; epperciò bisogna decidersi a cominciare a chiudere le pessime fra le cattive miniere. Gridano i difensori della povera gente: voi riducete il lavoro e create disoccupazione!

 

 

Quasi sempre coloro, che così parlano, sono in buona fede, credono a quel che dicono e meritano rispetto. Essi sono tuttavia tanto più pericolosi, quanto più credono. Assumere qualche operaio, od inserviente, od impiegato in più, anche se non necessario, vuol dire, secondo la buona gente, compiere opera socialmente benefica, vuoi dire contribuire a lenire il male della disoccupazione, che è il massimo male del nostro Paese.

 

 

Costoro si illudono ed ottengono l’effetto opposto a quello desiderato: crescono e non scemano la disoccupazione. Gli uomini vivono infatti del prodotto nuovo totale che ogni giorno, ogni settimana ed ogni anno nasce nel Paese. Si mangia il pane, si consuma il vino, si vestono panni, si calzano scarpe, si ricevono servizi, quei tanti e non di più, che sono prodotti continuatamente ogni ora ed ogni giorno nel Paese. Se è vero che ogni anno si producono non so se 15 o 16 o 18 mila miliardi di lire di reddito in Italia, ciò vuol dire che in Italia si producono ogni anno beni, merci, derrate e servizi umani per quell’ammontare e non più e non meno. Se i beni e servizi prodotti, in una data unità di tempo, sono 100 ed a produrli hanno concorso 10 lavoratori o risparmiatori o imprenditori, ognuno di essi riceve, in quella unità di tempo, 10 unità di beni e servizi. Se i lavoratori ecc. ecc. crescono a 12 ed i due in più non hanno aumentato il prodotto comune, ecco il quoziente ridotto a poco più di 8; se aumentano a 13, il quoziente si riduce a poco più di sette e mezzo. E così via. Se la torta resta quella che è ed a dividersela sono, invece di 10, 12 o 13, nascono le gomitate e qualcuno cade a terra. Costui è il disoccupato.

 

 

Quel che importa, non è aumentare il numero di chi lavora o impiega capitali, ma aumentare nel tempo stesso almeno proporzionatamente il prodotto dell’impresa.

 

 

Chi impiega nuovi operai senza essere sicuro di ottenere un maggior prodotto, chi occupa minatori ad estrarre carbone cattivo nelle miniere sarde o ligniti in Toscana, compie atto delittuoso, provoca morti ed infortuni, dovuti alla ingordigia, purtroppo vera, di chi tenta, sparagnando sui provvedimenti di sicurezza, di non perdere troppo.

 

 

All’ingenuo, convinto in buona fede di contribuire a ridurre la disoccupazione, preferisco colui il quale commette l’errore sapendo che quello è l’errore, colui il quale sa di compiere opera dannosa alla società e tuttavia compie il male. Costui, essendo consapevole dell’errore, lo commette o lo tollera perché sa che ai mali sociali non si pone riparo in poco tempo, sa che è necessario mutare prima le idee dei più, che le idee mutano lentamente, che l’impresa di sostituire al male il bene comune è ardua; e procede innanzi verso il bene per tentativi provando e riprovando, avanzando due passi ed ogni volta retrocedendo di uno. Soprattutto, importa veder chiaro e non scambiare l’errore con la verità.



[1] Con il titolo Come ridurre la disoccupazione [ndr]

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