Opera Omnia Luigi Einaudi

La predica della domenica (III)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 05/02/1961

La predica della domenica (III)

«Corriere della Sera», 5 febbraio 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 9-11[1]

 

 

 

 

Professori e studenti concordi hanno protestato contro le condizioni nelle quali si svolge la vita universitaria italiana. Se fosse lecito tradurre in termini economici fatti attinenti alla vita spirituale, si potrebbe dire che le università offrono:

 

 

  • lezioni in aule, nelle quali cento studenti possono apprendere e comprendere ed assimilare idee; avvicinare ed interrogare ed obbiettare ad insegnanti; ed invece accade che in talune università e facoltà vi siano corsi con mille iscritti; e le lezioni diventerebbero vociferazioni in pubblico comizio, quando non soccorresse provvidenzialmente l’assenza della più parte degli studenti, in altre faccende occupati o sprovvisti dei mezzi opportuni a frequentare le lezioni;

 

  • esercitazioni e discussioni dinnanzi a gruppi di studenti, in numero non superiore a venti, chiamati a redigere e leggere scritti o relazioni o progetti su problemi posti dall’insegnante;

 

  • biblioteche speciali, laboratori, gabinetti nei quali, ad ogni studente, dovrebbero essere forniti, sul suo tavolo di lavoro, libri e strumenti di ricerche;

 

  • cliniche, nelle quali allo studente fosse assicurata la possibilità di studiare, sotto l’occhio del professore o dell’assistente, il malato. Invece si sa che le biblioteche, i laboratori e le cliniche, che potrebbero essere efficacemente attrezzate per una ventina di studenti, sono disadatte alle esigenze di centinaia di giovani.

 

 

L’università offre cioè un servigio che non può effettivamente fornire se non ad una parte, spesso piccola, degli aspiranti. Lo offre a prezzi ridicolmente bassi in confronto al costo. È ovvio ed è corretto che il prezzo di offerta debba mantenersi inferiore al costo totale del servigio; perché l’università, accanto all’insegnamento utile ad ogni singolo studente, produce un bene generale, che è la formazione di un ceto dirigente di studiosi, professionisti, amministratori, politici, il cui costo deve essere sopportato dalla collettività, a mezzo delle imposte. Se si suppone che il costo totale debba essere diviso, in mancanza di una regola migliore, a giusta metà fra lo studente, il quale gode il vantaggio diretto specifico della formazione professionale, ed i contribuenti i quali debbono essere chiamati a pagare imposte per compensare i benefici generali prodotti dall’università, si deve constatare che le tasse ed i diritti attuali sono ridicolmente inferiori alla metà del costo totale. Cresce così inutilmente il numero di coloro che richiedono il servigio offerto sotto costo; e non è consentito perciò ai consigli universitari di assegnare tante borse di studio quante consentirebbero ai meritevoli di coprire, oltre le tasse, le spese di residenza e di frequenza.

 

 

È moralmente lecito offrire a mille quel servigio che l’università sa di non poter fornire se non a cento? Perché i miliardi, che si chiedono allo stato, non siano perduti, è necessario che l’università abbia il dovere di scegliere quel numero di scolari a cui sa di poter fornire sul serio i suoi servigi, tenendo conto della scuola di provenienza, del profitto risultante dai certificati di studio, dei colloqui (non esami) personali con gli studenti; e nessuno di questi ed altri criteri abbia una valutazione precisata in alcun articolo di regolamento; ma siano il compendio di un giudizio personale di chi gode la fiducia dell’autorità accademica.

 

 

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari, crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.



[1] Col titolo La crescita dell’università [ndr]

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