Opera Omnia Luigi Einaudi

La predica della domenica (XI)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/04/1961

La predica della domenica (XI)

«Corriere della Sera», 2 aprile 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 33-37[1]

 

 

 

Stavolta, invece della predica, poiché siamo nel tempo delle celebrazioni del risorgimento italiano, offro qualche ricordo. Nato nel 1874, e vissuto sino al ’90 in borghi di provincia, non ho naturalmente alcun ricordo di quel che succedeva a Torino nei giorni nei quali si avverava il grande sogno dell’unità. Erano tuttavia, ancor vent’anni dopo, negli anni dal 1880 al 1885, vive costumanze, delle quali, almeno in Piemonte, non v’è ormai più traccia e che danno l’impressione di quel che era nel Piemonte rurale la vita del tempo sino al 1860.

 

 

Sulla grande piazza noi assistevamo affacciati alla finestra a fatti che oggi possiamo solo più contemplare nei quadri settecenteschi di Graneri nella stupenda raccolta del museo civico di Torino. Il cavadenti giungeva nei giorni di fiera quando la piazza era popolosa di contadini intabarrati. Il tabarro, a forma di abbondante mantello ripiegato sulle spalle, era usato da tutti, anche nell’abitato, ed era nell’inverno assai confortevole. Oggi, si vede solo indosso ai sacerdoti ed a pochissimi anziani. Sul carro del ciarlatano, adorno a festa e tirato da due grossi cavalli, il cavadenti, assistito dal servitorello, iniziava l’operazione, magnificando i frutti dei rimedi suoi particolari, che dispensava copiosi, con afflusso di grossi soldoni di rame; sinché, conchiuso l’imbonimento, il sacrificio si compieva al cospetto di donne paurose e di bambini urlanti; ed il dente afferrato con la grossa tenaglia era rammostrato agli astanti, mentre il paziente si allontanava dolorante e sanguinante e, incoraggiati, altri salivano sul palco, parati al danno.

 

 

Mio padre, che per un ventennio fu esattore a Carrù, ogni due mesi faceva il viaggio di Cuneo, per versare i denari della rata delle imposte che entro il 18 del mese pari aveva o doveva avere riscosso. Immagino che oggi i versamenti abbiano luogo in maniera meno antiquata; ma in quel giorno tutti gli esattori della provincia si ritrovavano a Cuneo, dove versavano i denari, bene classificati in fogli da 1000 (erano rarissimi e corrisponderebbero a 300, 400 mila lire di oggi), quelli rossi meravigliosi da 100 e via via scendendo sino agli scudi ed alle lire d’argento ed ai soldi e soldi e soldini di rame. Oro non ne vidi mai versare; ché l’esattore aveva ragione di versarne l’importo in biglietti al valor nominale; e la differenza del cambio era sua e con quella, le multe e l’aggio, che ricordo convenuto al 2, all’1 e meno per cento, noi si campava, prestando l’opera sua anche nostra madre. Ma l’interessante per me ragazzino, non erano i denari, sibbene il viaggio, il quale aveva inizio alle tre del mattino, per giungere a Cuneo in tempo per l’apertura dello sportello della cassa del ricevitore provinciale. La carrozza ad un cavallo, presa a nolo dall’amico Toni, vetturino e negoziante in granaglie, partiva per lo più al buio, per il solito stradone provinciale. Ciò che a me, quella volta che ebbi il premio del viaggio, incuriosì di più fu che ai ronchi dove la strada attraversava boschi ed incolti oggi scomparsi, vidi mio padre tirar fuori la rivoltella, caricarla e mettersi in posizione di risposta all’assalto dei briganti che, correva la fama frequentassero quel luogo, mentre il vetturino si apprestava ad usare, al bisogno, la frusta per forzare il passo al cavallo. Quella volta ne fu nulla, per fortuna, ché le grassazioni, pur rare, non erano ignote; e mia madre stava in pena sino al ritorno. Non credo gli esattori di oggi viaggino con la borsa piena di biglietti, bene ordinati ed elencati e usino rivoltelle nei viaggi su vettura di gran mattino.

 

 

Mio padre non era di Carrù, dove nascemmo tutti noi; ma di San Damiano Macra, nella montagna sopra Dronero, dove Giolitti trascorse parecchi anni della giovinezza, per rafforzare, su consiglio dei medici, la salute reputata delicata. Il mio ricordo di quel villaggio si chiama Don Alisiardi, allora maestro elementare, ma prima cappellano militare nell’esercito sardo. Aveva fatto le campagne dell’indipendenza; ed a me appariva ammirando perché diverso dagli altri preti. Portava vestito corto, a due falde, pantaloni legati sopra i polpacci, con calze nere e scarpe a fibbia. Aveva piglio militare, di che noi eravamo incantati.

 

 

Dopo la morte di mio padre, mia madre ritornò a Dogliani, dove era nata e dove vivevano i suoi. Anni dopo, divenuto studente universitario, avevamo preso l’abitudine, mia madre ed io, di alzarci di gran mattino, verso le quattro o le cinque e di girare in campagna, per strade e sentieri, nel territorio del comune. Appresi allora che mia madre, prima di sposarsi, ancora nel decennio dal ’60 al ’70, aveva insegnato per un paio d’anni come maestra elementare a Dogliani. Qualche contadino anziano, incontrandola, la salutava: «come sta, signora maestra?» Del buon ricordo mia madre si compiaceva, raccontando poi a me che le sue erano classi di ragazzini, non di rado irrequieti per il gran numero. La giovinetta inesperta doveva tenere a segno in classe sino ad 80 scolari; e lo stipendio, se mal non ricordo, era di 300 lire, all’incirca da 100 a 120 mila lire d’oggi, all’anno. Annoto le due cifre, degli scolari e della paga, che oggi non si usano più. Ma le 300 lire erano accolte assai bene, nelle famiglie dei cosidetti signori, viventi di cosidetto reddito. Oggi, nei borghi piemontesi, le famiglie dei signori viventi di reddito sono praticamente scomparse; e tutti si addicono ad un qualche lavoro. Allora, negli anni dopo l’unità d’Italia, la società era ancora ordinata gerarchicamente: in alto i signori, fra cui alcuni pochi ufficiali, impiegati regi e professionisti, notai, medici e farmacisti, i quali, attendendo ai loro terreni, vivevano di reddito.

 

 

Erano redditi i quali raramente andavano sino alle 5000 (oggi si direbbe da un milione e mezzo a due milioni) lire all’anno, con punte massime di 10.000 lire, e minime, più frequenti assai, verso le 1200 lire e talvolta ancor meno. Teatri non c’erano; sostituiti da recite di dilettanti, più frequenti assai d’ora, delle quali conservo rendiconti, rarissimi, in un giornale illustrato di Torino innanzi al risorgimento.

 

 

Dicevasi che i signori accudissero alla campagna; dove però si recavano una volta all’anno ad assistere alla trebbiatura; che si faceva, e l’uso durò sino ai primi di questo secolo, indurendo con stallatico liquido l’aia e facendovi passar sopra un grosso rullo di legno trascinato dai buoi; ed i buoi col calpestio del loro piedi giovavano altresì alla bisogna, che durava, per ognuno di quei poderi, da due a tre giorni, tra un gridare e un polverio da non si dire. L’altra gita in campagna dei signori aveva luogo durante la vendemmia; ed ogni volta per lo più si giungeva al podere sul carro dei buoi, sul quale aveva preso posto tutta la famiglia.

 

 

Al disotto dei signori, nell’abitato dimoravano i bursua, termine dialettale cavato dal francese, il quale ha però una parentela assai lontana con il borghese dei libri di storia cosidetta sociale. Erano bottegai, artigiani, intermediari; ed era il ceto che saliva e che, divenuto numeroso e laborioso ed intraprendente, dà il la oggi alla vita borghigiana. La maggior parte degli abitanti erano contadini, che si vedevano nei giorni di mercato e alla domenica star fermi sulla piazza o sul sagrato, cappello in testa (berretti non si conoscevano) e col tabarro addosso. I più erano particolari, ossia proprietari coltivatori; e gli altri mezzadri; con la solita mescolanza di famiglie che andavano su e comperavano terra e di altre che andavano giù e vendevano e si impoverivano. Segno caratteristico delle prime: la madre assidua, la quale sfaccendava di continuo nella semplice nitida casa e nell’aia pulita e approntava la minestra calda all’ora dovuta; delle seconde: la madre disordinata, la cui casa è mal tenuta ed i grandi arrivano dalla campagna e da sé si servono nella credenza e nella madia: formaggio, pane, frutta. Vivande che non soddisfano e, col disgusto, persuadono a vendere.

 

 

I ricordi miei degli anni venuti poco dopo all’unità d’Italia finiscono qui; e non recano tracce dirette del risorgimento.

 

 

Probabilmente i più dei piemontesi rurali che allora erano ragazzini non hanno ricordi diversi. I reduci del ’48 e del ’59 non erano ancora radunati, fuorché nelle città, in associazioni; ed il risorgimento si contemplava in ogni casa sulle stampe di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi e di Mazzini ed era ricordato nelle vignette del Fischietto. Più tardi, conobbi un parroco, oriundo delle montagne dove mio padre era nato, il quale mi raccontò come, prima di vestire l’abito – il beneficio parrocchiale l’aveva avuto non dalla curia vescovile, ma, essendo in voce di liberale, in virtù della presentazione di un patrono laico – egli era stato stenografo al senato piemontese ed aveva avuto la ventura di assistere e di stenografare discorsi di Cavour: «aveva la voce stridula ed in falsetto», ma «si faceva ascoltare lo stesso».

 

 

L’esile ricordo campagnolo di quelle grandi giornate è poca cosa; ma piace non dimenticarlo.



[1] Col titolo La voce stridula di Cavour [ndr]

 

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