Opera Omnia Luigi Einaudi

La proprietà fondiaria e l’imposta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/12/1922

La proprietà fondiaria e l’imposta

«Corriere della Sera», 15 dicembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 991-995

 

 

 

In un articolo precedente mi sono posto la domanda: sono troppo o troppo poco tassati i 4 miliardi di lire di reddito dei proprietari come tali? Ricordisi che si tratta della prima parte del prodotto totale della terra; quella che spetta ai proprietari nella loro qualità di proprietari puri e semplici. Della quota che loro spetta come industriali, coltivatori dei terreni proprii, si parlerà poi.

 

 

Il peso dell’imposta fondiaria sui proprietari di terreni può essere calcolato così in milioni di lire:

 

 

imposta erariale

sovrimposte locali

totale

1914

83,2

204,5

287,7

1921

139,1

667,1

806,2

 

 

Se noi aggiungiamo alla cifra del 1914 un milione e mezzo per addizionali ed a quella del 1921 circa 74 milioni per la quota di varie imposte centrali e locali afferenti ai terreni (complementare, contributo di guerra, terreni bonificati, ecc.) arriviamo a circa 290 milioni per il 1914 e ad 880 milioni per il 1921. Alla cifra del 1921 bisognerebbe aggiungere altresì una parte del reddito dell’imposta straordinaria sul patrimonio, che nel 1921 fu di 730 milioni, ma devesi normalmente calcolare di 365 milioni di lire, essendosi nel 1921 verificato un raddoppiamento eccezionale delle aliquote a causa della legge sul pane. Io calcolerei che da un sesto ad un ottavo di questi 365 milioni sia stato pagato dai proprietari di terreni: poniamo, per gran media, 50 milioni. Questi 50 milioni possono considerarsi il carico medio che per 20 anni graverebbe ogni anno sulla proprietà fondiaria a titolo di imposta patrimoniale, se rimanesse in vigore la valutazione provvisoria oggi corrente. Siccome la valutazione dovrà rifarsi e già le agenzie delle imposte hanno predisposto tutto il lavoro, il carico sulla terra, con effetto retroattivo dall’1 gennaio 1920, sarà moltiplicato probabilmente per quattro e forse anche, tenendo conto della progressività delle aliquote, per un coefficiente assai maggiore.

 

 

Per avere un’idea compiuta di quel che paga la proprietà fondiaria terriera, bisognerebbe anche tener conto della sua quota delle imposte non annuali, le quali dipendono dal verificarsi di avvenimenti volontari, come le compre vendite, o involontari, come le successioni per morte. I tre principali capitoli di questo ramo di imposte nei rispetti della proprietà fondiaria sono il registro, le ipoteche e le successioni. Il rendimento fu il seguente in milioni di lire:

 

 

1913-14

1921-22

Registro

94,3

554

Ipoteche

11,1

75,3

Successioni

50

219

 

 

Fatta uguale a 100 la somma pagata nel 1913-14, il registro fruttò 586 nel 1921-22, le ipoteche 678 e le successioni 440. È impossibile sapere quale parte abbiano avuto i terreni nel rendimento delle tasse di registro, ipoteche e successioni; si può tuttavia supporre che la loro quota non sia ora minore d’un tempo; e poiché la terra, non potendo occultarsi ed oggi non potendo neppure più sottovalutarsi al par dei beni mobili, delle scorte di commercio, e dei titoli al portatore, pagava assai più della quota giustamente ad essa afferente, si può dire che, sotto questo rispetto, la terra ha diritto di chiedere che l’attenzione della finanza a scopo perequativo venga dapprima fissata sugli altri cespiti. In via assoluta, i terreni pagano, insieme con le altre forme della ricchezza nazionale, a titolo di tasse di registro, ipoteca e successione molto di più di quanto non sarebbe consentito dalla svalutazione della moneta, essendo il loro peso cresciuto assai più che da 1 a 4. Epperciò sarebbe prudente, come è oramai proclamato anche dai banchi del governo per la tassa di successione e come si potrebbe ripetere per le altre (le tasse sulle vendite di immobili sono passate dal 4,80 all’8,60%, quelle sulle locazioni dallo 0,30 allo 0,50% e così via), diminuire le aliquote, nell’interesse stesso dell’erario.

 

 

Il vero problema è quello dei 930 milioni che la proprietà fondiaria paga oggi a titolo di imposte dirette (806 imposta sui terreni + 74 varie personali e minori + 50 patrimoniale) e dei 1.100 o più che essa pagherà a patrimoniale assestata. Sono molti o pochi? Sono bene o male distribuiti? Se è unanime la risposta negativa sul secondo punto, i pareri sono discordi sul primo. La cattiva distribuzione del peso totale deriva da molte cause, di cui una è la antichità dei vecchi catasti, in base a cui nella maggior parte delle province è ripartita l’imposta fondiaria e un’altra è la diversità della pressione tributaria degli enti locali. Ben 670 milioni su 930 sono percepiti dalle province e dai comuni, e tra questi ve ne sono taluni che commettono dei veri reati di espropriazione. Si pensi che a Ravenna la media dell’imposta e della sovrimposta è arrivata a 153 lire per ettaro, a Cremona a 140, a Mantova a 123, a Reggio Emilia a 99, a Milano a 95, a Rovigo a 87, a Pavia a 81; si rifletta che in certi comuni di quelle province (le sole dell’Alta Italia a superare la media di 80 lire per ettaro) il carico tributario deve essere stato molto più elevato della media generale della provincia, e si avrà un’idea approssimata della baldoria espropriatrice a cui certe amministrazioni rosse si sono abbandonate. Quello della ripartizione tra contribuente e contribuente, tra comune e comune è tuttavia un problema a sé, diverso da quello del carico complessivo sulla categoria. La ferocia dei tassatori rossi in certi punti ha fatto sopravalutare il peso medio complessivo. Il quale non è esagerato, nel senso che probabilmente, astrazion fatta dalle imposte sui trapassi e dalla patrimoniale, non supera il peso comparativo gravante sulle altre forme di ricchezza. Il problema tributario è, invero, sovratutto un problema comparativo. Se tutti pagano molto, il male è minore di quello che sarebbe, a carico uguale, se gli uni pagassero molto e gli altri poco. All’ingrosso, si può dire che esista oggi un certo equilibrio nella tassazione delle tre specie fondamentali in cui il nostro legislatore ha diviso i redditi. Riassumendo cose già dette, si può dire che il peso tributario oggi si distribuisce con la riserva delle astrazioni fatte sopra, in milioni di lire così:

 

 

Redditi imponibili legali

Totale imposte e sovrimposte dirette

Redditi ipotetici tassabili reali

Percentuale delle imposte al reddito imponibile reale

Terreni

1.000

880

4.000

88%

22%

Fabbricati

800

640

3.200

80%

20%

Ricchezza mobile

10.200

2.200

16.800

22%

13%

12.000

3.720

24.000

30%

15%

 

 

Sempre parlando molto all’ingrosso, si può dire che nelle linee generali tale distribuzione è soddisfacente. In apparenza, terreni e fabbricati pagano troppo, perché l’88 e l’80% sono enormità in confronto al 22% della ricchezza mobile. Ma il 22% della ricchezza mobile si riferisce prevalentemente a lire carta, a redditi valutati oggi, in lire attuali o che stanno per rivalutarsi sulla base della moneta attuale. Potremo andare in pochi anni dai 10 miliardi circa attuali (6 circa tassati per ruoli e 4 circa per ritenuta) a 17 circa; ed altra volta ho rilevato i grandi passi fatti su questa via dall’amministrazione finanziaria. È questione di abilità e di pazienza nello scoprire nuovi contribuenti o nell’accertar meglio i contribuenti vecchi.

 

 

Invece l’88% dei terreni e l’80% dei fabbricati si riferiscono a 1.000 e 800 milioni rispettivamente di redditi imponibili legali espressi in lire oro, in lire vecchie. Se rivalutassimo questi redditi, col criterio proposto, ad esempio, dal Comizio agrario di Torino per la patrimoniale – cito un’autorità agraria, per non farmi gridare la croce addosso dagli agricoltori – dovremmo verosimilmente moltiplicare quelle cifre per quattro, all’incirca nella ragione della svalutazione monetaria. In tal caso i redditi imponibili reali diventerebbero di 4 miliardi e di 3 miliardi 200 milioni; e ragguagliate a queste cifre, le percentuali delle imposte discenderebbero al 22% per i terreni, e al 20% per i fabbricati. Dico essere giusto che all’ingrosso, se i redditi dei terreni pagano il 22% e quelli dei fabbricati il 20%, i redditi mobiliari paghino in media solo il 13%; perché i primi sono redditi esclusivamente derivanti dal possesso di un capitale (capitale-terre o capitale-case); mentre i secondi derivano in gran parte dal lavoro. Sono redditi di fittavoli, commercianti, industriali, professionisti e impiegati e dovranno essere redditi di contadini coltivatori; redditi destinati cioè a cessare con la morte o con la malattia del percipiente e quindi meno capaci di pagare imposta. In conclusione:

 

 

  • i redditi della proprietà fondiaria come tale sono tassati a sufficienza;
  • bisogna perequare la tassazione, affinché nessuno paghi troppo o troppo poco;
  • bisogna rivalutare i redditi portandoli al livello attuale in moneta rivalutata;
  • bisogna ridurre, quando si rivalutino i redditi, le aliquote al quarto circa dell’altezza odierna; poiché se si conservassero le aliquote attuali sui redditi rivalutati, la proprietà fondiaria sarebbe confiscata.

 

 

Di queste esigenze, le ultime due sono formali. Il fatto che i redditi siano alti o bassi non ha importanza, quando il peso comparativo tra contribuente e contribuente sia uguale. È indifferente tassare con l’88% i miliardo di reddito antiquato o col 22% 4 miliardi di reddito attuale. Tutto il baccano che si fa sulle cifre degli imponibili non vale la carta su cui sono scritti gli articoli relativi. La vera esigenza sostanziale è quella della perequazione. Ed in fondo, perciò, l’unico scopo che la finanza deve sul serio perseguire è la sollecita ultimazione del nuovo catasto. Questo deve volere oggi la finanza; questo deve chiedere l’opinione pubblica per i redditi terrieri.

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