Opera Omnia Luigi Einaudi

La requisizione del naviglio mercantile

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/01/1916

La requisizione del naviglio mercantile

«Corriere della Sera», 29 gennaio, 1 febbraio[1] 1916; 5 febbraio 1917[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 278-297

 

 

I

Requisire, anche e sovratutto, uomini

 

Il fattore più importante del rialzo del prezzo del carbone, come di tutte le altre merci importate dall’estero, è indubbiamente l’ascesa dei noli marittimi. Ho chiarito come, in principio di gennaio, su 160 lire di aumento totale, ben 75 lire fossero da attribuirsi al rialzo dei noli, astrazion fatta dal cambio sul nolo stesso. Ora pare che il malanno sia cresciuto, poiché da 66-67 scellini per tonnellata di carbone da Cardiff a Genova siamo passati agli 80 e persino a 90 scellini; né si sa se l’aumento debba finir lì. Sicché, astrazion fatta dal cambio sul nolo, l’aumento in moneta italiana non può considerarsi inferiore oramai alle 100-110 lire per tonnellata di carbone.

 

 

Sembra, per fortuna, che gli sforzi del governo italiano per persuadere il governo inglese a concedergli un certo numero di piroscafi da carico, per il trasporto del carbone e forse anche di altre merci necessarie al nostro consumo, possano essere coronati almeno da un parziale successo. Sarebbe bene che il governo italiano potesse noleggiare per un certo periodo di tempo piroscafi inglesi (con contratto di time-charter), a condizioni ragionevoli.

 

 

Ciò sta benissimo: ed andrà resa dovuta lode per tutto ciò che il governo riuscirà ad ottenere, con mezzi diplomatici, dal governo inglese. Ma non vorrei che il pubblico italiano si facesse soverchie illusioni sugli effetti che la requisizione di piroscafi inglesi avrà. Vi è una certa probabilità che l’effetto sia: diminuzione dei noli per il quantitativo di carbone e di frumento trasportabili coi piroscafi requisiti e noleggiati; ed aumento dei noli per tutte le altre merci che dovranno ancora ricorrere alla bandiera libera.

 

 

Ricorderò a questo proposito che l’Inghilterra ripetutamente requisì navi per i suoi crescenti trasporti militari, allo scopo di assicurarsi tonnellaggio sufficiente, e di pagare nel tempo stesso noli «miti» inferiori a quelli di mercato. L’effetto fu questo che ad ogni successiva requisizione, i noli sul mercato libero residuo rincararono maggiormente. L’ultimo atto del governo inglese fu una serie di «Orders in Council» del novembre scorso, con cui si proibiva ai piroscafi inglesi di viaggiare, dopo il primo dicembre, tra porto e porto straniero, senza apposita licenza; e si autorizzava il governo a requisire piroscafi per il trasporto delle derrate alimentari e di altre merci o derrate di prima necessità. Anche questa volta l’effetto fu un clamoroso rialzo dei noli; che per il carbone (Cardiff-Genova) salirono da 49 a 67 scellini e per il frumento (Plata-Londra) da 7 a 130 scellini. E trattasi, a quanto pare, di un vero «effetto» di provvedimenti, i quali avevano per iscopo di rendere più abbondante il tonnellaggio navale nei porti intesi e quindi più miti i noli e di dar modo al governo di trasportare cereali al costo. In Italia pare siasi verificato lo stesso fenomeno. Sui 180 piroscafi da carico (cargo-boats), i quali sostanzialmente compongono la marina mercantile italiana libera, esclusi cioè i piroscafi per passeggeri ed il naviglio per cabottaggio, pare che la maggior parte sia oramai requisita; dai due terzi ai tre quarti a seconda di quanto mi affermarono persone pratiche. Orbene, anche in Italia, l’aumento nella percentuale delle navi requisite era ogni volta susseguito da un aumento nei noli delle navi rimaste libere.

 

 

Il risultato può spiegarsi soltanto in un modo: che cioè le navi requisite e viaggianti per conto del governo compiano un lavoro meno efficace delle navi libere. Se esse infatti compiessero lo stesso lavoro, ossia trasportassero nello stesso tempo la medesima quantità di merci, la domanda di navi non sarebbe cresciuta od almeno sarebbe cresciuta solo in rapporto ai maggiori trasporti militari. I trasporti effettuati dalle navi requisite non avrebbero più dovuto essere fatti dalle navi libere; e non vi sarebbe stata nessuna buona ragione perché la domanda di tonnellaggio libero crescesse così da provocare aumenti spasmodici di noli.

 

 

Le cose pare siano appunto così: requisizione di navi vuol dire lavoro meno efficace da parte delle navi requisite.

 

 

I giornali inglesi sono pieni di lagnanze circa l’uso non economico che si fa delle navi requisite. E tutto il mondo è paese. Potrei riempire colonne se volessi riferire gli aneddoti, tutt’altro che allegri, intorno agli errori commessi da funzionari, anche degnissimi, preposti all’amministrazione del naviglio requisito. Navi che fanno carbone dove il carbone è carissimo; navi che sono dimenticate in porto per giorni e giorni e frattanto pagano controstallie favolose; altre che sono mandate in buon numero in un porto a caricare una merce qualsiasi, che qui non mette conto citare, ed arrivano contemporaneamente in modo che lo scarico non può farsi, e le ultime devono aspettare il loro turno per tanto tempo da consentire di fare, durante le more, un altro viaggio. Sarebbe strano che le cose non andassero così, in regime di requisizione. L’industria dell’armatore richiede, come tutte le altre, una competenza, la quale si acquista solo colla pratica. Chi non conosce una folla di piccole cose, che sui libri non si leggono, commette errori, che danno luogo a perdite di tempo e di denaro; funzionari anche di prim’ordine debbono compiere il loro tirocinio; ma il guaio si è che la guerra sarà finita prima che essi siano diventati dei mediocri armatori.

 

 

Questa – l’essere cioè il naviglio requisito amministrato non economicamente – è una esperienza universale del momento presente; e produce dappertutto l’identico effetto: che il naviglio amministrato con criteri pubblici e burocratici è un naviglio che perde tempo. E poiché non importa nulla possedere molte navi, bensì importa molto avere navi viaggianti, si può conchiudere che finora «requisizione di navi» ha avuto il significato preciso di «distruzione di tonnellaggio navale»; od, ancora, di «siluramento di navi mercantili da parte di sommergibili nemici». Il che ancora vuol dire diminuzione dell’offerta totale di tonnellaggio sul mercato; ed ancora significa, necessariamente, fermo rimanendo o crescendo il bisogno di trasporti, aumento dei noli per le navi rimaste libere e per le merci che non trovano posto sulle navi requisite.

 

 

Non vuol con ciò dire che siano state biasimevoli le requisizioni operate. Di fronte alle necessità della guerra cessa, ripeto ancora una volta, il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici, quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria? L’operato delle autorità militari non è criticabile; è invece illogico il contegno di chi vuole la requisizione e non ne vorrebbe i necessari effetti; è dannoso il clamore di chi, vedendo i noli salire, vorrebbe estendere a tutti i trasporti un provvedimento, il quale ha contribuito, da parte sua, ad inasprire quel rialzo dei noli, a cui si vorrebbe porre rimedio.

 

 

La requisizione totale è possibile in Italia, la quale non possiede neppure una marina da carico sufficiente ad effettuare i trasporti più urgenti degli approvvigionamenti militari, delle materie prime per industrie di guerra, del carbone e del frumento; e deve ricorrere al noleggio di piroscafi inglesi, anche a questo fine.

 

 

Ma pare grandemente controversa la convenienza di requisire tutta la marina mercantile inglese, anche quella parte di essa che eccede i bisogni urgenti e fondamentali degli alleati. Dicono i «Times» che «tutta la marina mercantile britannica dovrebbe venire centralizzata sotto una direzione ed una organizzazione unica, intesa a ridurre le spese di concorrenza e lo sciupio, distribuendo i vapori disponibili secondo norme più razionali». Per quanto grande sia il rispetto dovuto al ricordo della tradizione di autorità politica dei «Times», i suoi ragionamenti o meglio i suoi desideri economici non paiono atti a scrollare la verità del fatto già ricordato che «requisizione» vuol dire noli più bassi per il naviglio acquisito o regolato, ma vuol dire certamente minore efficacia produttiva delle navi. Se, a poco a poco, tutta la marina mercantile inglese venisse assorbita o regolata dal governo inglese, noi ci troveremmo dinanzi a questa fatale conseguenza: che la potenzialità di trasporto di quella bandiera verrebbe a diminuire di qualche milione di tonnellate di portata. Il che ancora significa che, quelle derrate o merci, le quali riuscissero a farsi trasportare dalle bandiere belligeranti requisite o regolate, pagherebbero un nolo diminuito, supponiamo, da 80-90 a 50 scellini per tonnellata. Farebbero forse viaggi più lenti, si perderebbe più tempo nei porti, per la minore esperienza degli amministratori, ma pagherebbero di meno.

 

 

E le altre merci? Quelle che non riuscissero a trovare posto sulle navi belligeranti, requisite e regolate, diminuite di efficacia e perciò, in realtà, diminuite di numero? Dovrebbero cercare carico sulle navi neutre: greche, danesi, norvegesi, svedesi, olandesi, nordamericane; le sole, le quali rimarrebbero libere e che potrebbero andare alla cerca dei noli massimi. Lascio immaginare ai lettori l’altezza a cui giungerebbero i noli, i quali dovrebbero essere pagati da coloro che avessero veramente urgenza di effettuare un trasporto. Se si pensa che le navi neutre sono una piccola parte del tonnellaggio navale mondiale, che esse sono disputatissime nei paesi neutri, si rimane allibiti al solo pensiero dei noli che quelle navi potrebbero richiedere. È inutile sforzare la realtà; non è possibile ridurre i noli del carbone da 80-90 a 50 scellini colla requisizione, senza spingere da 80-90 a 100, a 200 e forse a 300 scellini il nolo di qualche partita di carbone urgentissima o di qualche altra merce, in guisa che la media torni ad essere di 80-90 scellini. Il danno non viene tolto; viene soltanto spostato dalla generalità ad alcuni disgraziati pochi. Ed il profitto verrebbe anche esso non abolito, ma semplicemente spostato dalla bandiera italiana ed inglese alla bandiera neutra. È questo lo scopo che si vuole raggiungere? Ed è un risultato il quale ci avvicini alla vittoria? L’ineluttabilità del risultato ora descritto è talmente chiara, che un mio interlocutore finì per dichiarare che, a questo punto, sarebbe stato necessario fare un altro passo innanzi: decretare una specie di blocco dei porti dell’intesa, vietando alla bandiera neutrale di approdarvi se non si assoggettasse ai medesimi massimi noli stabiliti per le navi dell’intesa. Ma qui la mia mente si perde in un mare di difficoltà politiche, economiche e tecniche, che dovrebbero essere affrontate quando l’intesa si decidesse ad una azione così lesiva degli interessi delle potenze neutrali e dei trattati di commercio; ad un’azione la quale potrebbe trasformare i neutri in nemici; e li trasformerebbe in nemici senza alcuna sicurezza di vantaggio per noi. Si possono, infatti, escludere dagli approdi le navi neutre contravventrici ai massimi di nolo, non si possono costringere ad approdare. Si può vietare alle navi di bandiera neutra lo scarico ed il carico nei porti belligeranti quando esse non si adattino ai noli massimi fissati dall’intesa; ma si corre il pericolo di rappresaglie dei paesi neutri, come l’Argentina, Stati uniti, paesi scandinavi, e forse anche di un belligerante, il Giappone, i quali potrebbero proibire il carico delle munizioni, delle granaglie e del carbone su navi belligeranti.

 

 

Sulla via della requisizione totale non mi pare si possano raccogliere altro che frutti di tosco. I modi di azione efficaci sono necessariamente più modesti. Poiché il rincaro del nolo è dovuto per le merci residue, non servite dalla bandiera requisita – e si vide sopra che quanto più si requisisce, tanto più cresce la quantità di merce in cerca di navi libere -, uopo sarebbe trovare un qualche mezzo artificiale per scemare siffatta quantità di merce residua. In parte, il rimedio è dato dalla diminuzione del consumo conseguente agli alti noli. Ma ho il dubbio che in Inghilterra, in Francia ed in Italia ci sia ancor troppa gente la quale seguita a consumare cose inutili, anche se rincarate di prezzo. Il signor Booth, presidente della Cunard Line, ha rilevato il fatto strano ed ha invocato la proibizione assoluta del trasporto da e per i porti britannici di tutte le merci inutili, o che almeno paiono inutili a popoli, i quali dovrebbero abituarsi a vivere spartanamente. Se fosse possibile compilare una lista di merci non trasportabili, il suggerimento del signor Rooth mi parrebbe utile anche per l’Italia. Gioverebbe a far spazio sulle navi ed a scemare il nostro debito verso l’estero. Il consiglio è utile per l’Inghilterra, la quale deve risolvere, – contrariamente a quanto pensano coloro che in Italia, ingiustamente e senza notizia dei fatti veri, si lamentano di un immaginario sfruttamento finanziario inglese a danno degli alleati, – forse i più delicati e difficili problemi economici della guerra presente; ed è altrettanto utile per noi che dobbiamo affrontare problemi meno complessi, ma disponiamo all’uopo anche di minore ricchezza.

 

 

Fuori di questo rimedio, io non vedo per l’Italia altra via se non questa: amministrare bene i 180 piroscafi italiani da carico; i 30 o 40 piroscafi austro-tedeschi requisiti e quelli da prendersi in fitto dagli armatori inglesi. Il problema è delicatissimo, non suscettivo di una soluzione perfetta, poiché si tratterà di amministrare un 250-300 piroscafi circa in guisa da soddisfare a parecchie condizioni parzialmente tra di loro contradittorie:

 

 

  • trarre da essi il massimo risultato di viaggi e di carico; il che potrebbe ottenersi solo lasciandoli nella piena disponibilità degli armatori;
  • compiere i trasporti militari; il che implica un certo grado di segretezza e di gestione pubblica, incompatibile con la assoluta indipendenza degli armatori;
  • pagare noli inferiori a quelli di mercato; il che nuovamente richiede un certo grado di ingerenza governativa.

 

 

Armonizzare le varie condizioni, in guisa da ottenere la soluzione più tollerabile, richiede molta abilità e competenza ed è l’effetto di decisioni variabili di caso in caso, di viaggio in viaggio, di persona in persona.

 

 

Ho visto con piacere che un recente decreto del 10 gennaio autorizza le pubbliche amministrazioni a valersi di piroscafi requisiti, «lasciando interamente all’armatore il governo della nave ed il conseguente onere di tutte le spese occorrenti al suo esercizio (comprese le spese portuali, di assicurazione del corpo equipaggi tanto per i rischi normali che per quelli di guerra e per la Cassa invalidi e quelli per acquisto di carbone, acqua e materie grasse), e corrispondendo un compenso al termine di ogni viaggio». Il governo è così autorizzato a sostituire, quando sia opportuno, il contratto ordinario di noleggio a viaggio al contratto di noleggio a tempo (time-charter), per effetto di requisizione per il naviglio nazionale e di contrattazione per il naviglio estero. Può essere opportuno il noleggio a viaggio perché l’opposto sistema del noleggio a tempo, ossia fitto della nave, accollava allo stato noleggiatore tutte le spese di esercizio, salvo le paghe e panatiche dell’equipaggio, facendogli correre il rischio di spender troppo per consumo di carbone, grassi, zavorra, spese di porto, spese di carico, ecc. ecc. Talvolta il noleggio a tempo è indispensabile per dare allo stato l’assoluta disponibilità della nave, la quale può inviarsi in missioni segrete, ignorate dall’armatore e per ottenere più facilmente dal governo inglese, quando si tratti di navi inglesi, per un anno intero, invece che per ogni viaggio, la licenza di navigare tra porti esteri, per cui gli «Orders in Council» del novembre prescrivono la licenza governativa. In generale, però, è opportuno che il governo si scarichi di ogni rischio dell’esercizio sugli armatori, che sono competenti. Gioverà sempre pagare piuttosto agli armatori nazionali requisiti 40 scellini ed agli armatori inglesi quel nolo che sarà concordato per tonnellata di carbone da Cardiff a Genova, piuttostoché avere l’illusione di spendere soltanto 35 scellini coll’esercizio in economia della nave. Se si perde tempo, se si consuma troppo carbone, e si trasporta lo stesso carico nel tempo doppio, il nolo finisce per essere in realtà di 70 e più scellini. Meglio lasciar lucrare l’armatore che spendere di più in falsi costi.

 

 

Sono così giunto alla conclusione dell’articolo: oltre a requisire le navi strettamente indispensabili per i trasporti militari, oltre a requisire le navi di bandiera nemica, sequestrate nei nostri porti, oltre ad affittare o noleggiare piroscafi inglesi per il trasporto del grano e del carbone ed invece di requisire navi per compiere ordinari trasporti privati, si requisiscano gli uomini competenti. In tutti i grandi porti italiani esistono uomini competentissimi, rotti a tutte le difficoltà della complessa arte dei trasporti: i quali sarebbero disposti o potrebbero essere indotti a mettere i loro servizi a disposizione dello stato. Ciò vale per le navi e per le merci, per il carbone, per il frumento, per il ferro e per tutte le altre cose necessarie al paese. Tanto più sarebbero disposti a servire lo stato, quanto più questi, col suo intervento, impedisce il libero sviluppo della iniziativa privata e cresce i rischi di questa. Se gli uffici direttivi e deliberativi si vogliono riserbati ai funzionari di carriera, accanto a questi si mettano, come consulenti, uomini pratici: individui e non consigli consultivi. Così pare si sia fatto in Inghilterra in taluni casi e con buoni frutti; e così la stampa seria inglese chiede si faccia in tutti i casi. Ho ragione di credere che qualche dicastero italiano abbia ottenuto buoni risultati ricorrendo appunto al consiglio di armatori, negozianti, industriali, requisiti a pro della cosa pubblica. Perché non generalizzare il sistema?

 

 

II

 

La Camera di commercio di Milano, nella seduta del 28 gennaio, ha votato un ordine del giorno nel quale, fra l’altro, si facevano voti per la istituzione di uno speciale dicastero per il rifornimento delle materie prime provenienti dall’estero. Illustrando la proposta nella relazione, la commissione permanente per la guerra faceva notare come il nuovo dicastero dovrebbe provvedere «agli approvvigionamenti dall’estero richiesti dall’esercito e dall’armata per la difesa nazionale; all’integrazione dei bisogni delle nostre industrie nei riguardi delle materie prime provenienti dall’estero; all’integrazione della privata attività per i vettovagliamenti di grano e di carne sempre dall’estero per il consumo del paese; allo studio ed alla soluzione di tutti i problemi relativi alla politica dei noli e dei trasporti per via di mare e per via di terra; ed eventualmente anche alla razionale distribuzione dei vettovagliamenti di grano e di carni nell’interesse dei privati consumatori. Nella creazione di questo dicastero si dovrebbe prescindere da ogni criterio politico – parlamentare e le funzioni ad esso demandate dovrebbero venire attuate con il mezzo di una commissione, presieduta naturalmente dallo stesso ministro e composta di elementi tecnici per l’industria dei trasporti marittimi e per via di terra, delle industrie maggiormente interessate ed eventualmente di rappresentanti della cooperazione di consumo…». Nella discussione seguita alla camera fu chiarito che il nuovo ente non doveva avere nulla di uguale nel suo funzionamento ai comuni ministeri. «Trattasi di un organismo, nel quale dovrebbero prevalere criteri eminentemente pratici, immuni da infiltrazioni burocratiche; ma che in pari tempo dovrebbe raccogliere in sé quel tanto di potere esecutivo che gli consenta di esplicare un’azione efficace ed immediata».

 

 

«Requisire uomini» dicevo dianzi; e «requisire uomini» afferma autorevolmente la Camera di commercio di Milano. Le merci, le derrate, le navi, i carri servono solo in quanto possono essere usati a pro degli uomini. Requisire merci e mezzi di trasporto è perfettamente inutile, anzi può essere pernicioso, quando non siano pronti gli uomini atti a far muovere merci, navi, carri, carbone e portarli là dove il consumo per uso bellico o per uso della popolazione civile richieda. Non si può pretendere che tutto questo sia fatto dai militari e dai funzionari. I militari compiono un lavoro magnifico ed hanno tutta la riconoscenza della nazione per l’opera loro gloriosa. Ma la nazione non deve volere che essi facciano tutto, anche quando il loro intervento non è opportuno: i mugnai, i fabbricanti di vestiti, i provveditori di carbone e di frumento per la popolazione civile, i regolatori del porto di Genova. Pretendendo e facendo fare l’assurdo, noi togliamo uomini preziosi dal compimento del lavoro a cui sono adatti, che è la difesa del paese, e li costringiamo a fare cose, a cui essi per i primi si reputano non adatti. Peggio forse i funzionari. Questi hanno una mentalità che fa a pugni con quella dell’uomo di affari. Immaginano di andare in direttissimo, mentre tutt’al più usano i mezzi di locomozione dei nostri nonni. Nulla è più estraneo alla mentalità gerarchica della deliberazione pronta, individuale e responsabile. Vogliono il paracadute, la firma del superiore che corrobori la loro propria. Hanno in sospetto la speculazione, in un momento in cui tutto è speculazione, che vuol dire previsione dell’avvenire, calcolo e decisione sulla base non dell’esperienza passata, ma dell’incerta esperienza dell’indomani. Essi non possono, come sarebbe oggi sempre urgente e necessario, speculare sull’avvenire. Rifiutano di comprare frumento a 35, perché il prezzo sembra caro; e non si decidono a credere che è meglio accaparrare a 35 per non cadere nel 40-45, che è cifra maggiore. Vedono ribassare i noli da 25 a 20 e disdicono preziosi contratti lunghi a 25, perché l’interesse pubblico immediato insegna che è meglio noleggiare a 20. Frattanto i noli ricominciano a salire a 25, a 30, a 40; e conviene rinoleggiare le stesse navi ad un prezzo più alto di quello a cui si erano impegnati dianzi. Il funzionario, anche alto, non può speculare, perché egli guarda ai «precedenti»; mentre l’industriale ed il commerciante guardano all’avvenire ed hanno in pregio i precedenti in quella modesta misura in cui possono servire di indizio per l’avvenire. Ma per possedere la facoltà dello «speculare» ossia «prevedere» bisogna avere una competenza tecnica seria, essere vissuti a lungo nell’industria e nei commerci, essere dotati dell’intuito spontaneo degli affari. Né gli uomini politici, né i professori, né i militari, né i funzionari possono, e senza loro colpa, avere questo intuito e questa competenza tecnica.

 

 

Altrove, quando vollero fare qualcosa di serio, misero a capo dei dicasteri industriali uomini che erano vissuti nella industria. Non ricorderò più il signor Rathenau, perché tutti i giornali italiani hanno pubblicato lo schizzo brillante che dell’opera energica di questo uomo d’affari fecero, con ammirazione ed invidia, i «Times». Pare vero che, se non tutto, almeno buona parte del merito dei successi della Germania nella produzione delle munizioni da guerra e nell’approvvigionamento delle industrie e della popolazione civile sia dovuta all’avere posto the right man in the right place. Sono un assai scarso ammiratore di quella «organizzazione» germanica che è di moda oggi ammirare; fra l’altro perché ho l’impressione – trattasi di una semplice impressione, che la mancanza di giornali, di riviste, di notizie tedesche non permette per ora di controllare – che l’organizzazione a ben poco sarebbe valsa se a costruirla ex novo, appena scoppiata la guerra, non fossero stati posti uomini pratici sperimentati come il Rathenau, il Ballin, per ora disoccupato e già direttore della Amburgo-America, l’Hellferich, ex direttore della Deutsche Bank, ecc. ecc. Nessuno avrebbe impedito a noi di fare altrettanto; ma quale non sarebbe stato lo scandalo politico – parlamentare in Italia se si fosse preso un banchiere, un industriale, un commerciante e si fosse messo a capo di un dicastero qualunque? Eppure il dott. Hellferich non era politicamente nulla: né membro del Reichstag, né di una camera prussiana; non era mai stato neppure insignito di una cattedra ufficiale. Era un banchiere, in una banca privata e non in un istituto di emissione. E bene a ragione gli affidarono la condotta finanziaria della guerra.

 

 

In Inghilterra, se in occasione della guerra il signor Lloyd George fece qualcosa di buono, ciò fu perché ebbe talvolta il merito di sentire e seguire il parere di uomini competenti di banca e di affari. È noto invero come il signor Lloyd George, per la sua vita tribunizia, non abbia avuto occasione di conoscere il meccanismo della vita economica; come egli inoltre aborra dalle letture e sia un precipitoso improvvisatore ed almanaccatore di piani grandiosi, privi di fondamento. Erano pessimi precedenti in un cancelliere dello scacchiere, che improvvisamente, invece di combattere i lordi, cosa facile, si trova a dover combattere impresa assai più difficile e dura – la crisi di borsa e di banca scoppiata nell’agosto 1914. Se, tutto sommato, il governo inglese commise in quella occasione un numero tollerabilmente piccolo di errori, il merito è dovuto alla consapevolezza per fortuna avuta dal cancelliere della propria incompetenza in materia ed all’avere, con la cavalleria caratteristica dei lottatori inglesi, richiesto e seguito il consiglio dei suoi acerrimi nemici di ieri: degli uomini della City di Londra. Fu il signor Lloyd George a scegliere a proprio consigliere finanziario il signor Hartley Withers, il quale aveva fatto la propria educazione economica in qualità di rappresentante dei «Times» nella City e da anni viveva la vita quotidiana di borsa e di banca, sì da divenire il più ascoltato scrittore inglese di cose di banca.

 

 

Usare bene gli uomini competenti: ecco il modo di utilizzare, di valorizzare, di «organizzare» – adoperiamo pure la brutta parola – le cose. Ma occorre siano uomini venuti su dalle industrie e dai commerci e dalla banca. Non professori, con sopportazione di tutti noialtri accademici; e neppure uomini politici di professione. Dottrinari e uomini politici hanno una irrefrenabile tendenza a fare i padreterni; a credersi capaci di fare, di guidare, di organizzare tutto e tutti. Ognuno ha in tasca un piano – e quanti ne sono venuti fuori sui giornali in questi giorni! – per risolvere tutti i più complicati problemi: dei noli, dei cambi, del grano, del carbone, ecc. ecc. Il pericolo maggiore oltreché nel non far nulla, sta nel fare troppo e far male. L’uomo che ha il piano è pericolosissimo. Dice di essere un pratico, di odiare la dottrina e di voler cercare le vie nuove, ora che la guerra, secondo lui, ha distrutto tutta la scienza di prima. Bisogna diffidarne, poiché costui è il vero dottrinario, che vuol sostituire le sue immaginazioni ai fatti; mentre il teorico si limita ad osservare i fatti e ad estrarne il succo. I fatti bisogna lasciarli fare ai veri pratici, che li facevano prima e seguiteranno a farli dopo la guerra. Tra i pratici molti sono disposti a servire lo stato, con fervore e con abnegazione. Parecchi fra essi sono anche uomini colti; ed io ho pensato spesso ai magnifici libri di scienza che potrebbero scrivere certi negozianti, industriali, banchieri ed agenti di cambio, se sapessero o volessero maneggiare la penna a descrivere le cose da essi vissute. Altro che i piani di organizzazione di coloro che vogliono insegnare altrui le cose che non hanno mai vissuto!

 

 

Non sarei d’accordo con la Camera di commercio di Milano quando essa chiede, allato al capo del nuovo dicastero degli approvvigionamenti una «commissione» di uomini pratici. In Italia le commissioni non servono al lavoro vero di deliberazione e di esecuzione. Danno dei consigli e tirano in lungo le faccende. Servono a scaricare i ministri delle loro responsabilità ed a crescere il confusionismo.

 

 

Altri ha proposto che, invece di un nuovo dicastero, si nomini un nuovo sottosegretario agli approvvigionamenti presso il ministero esistente di agricoltura, industria e commercio. Purché il sottosegretario non sia un uomo politico, ma un grande industriale o negoziante, l’idea mi sembra ottima. Anche perché, a guerra finita, sarà più facile abolire un sottosegretariato, non coperto da un uomo politico e quindi non appetibile, che un nuovo ministero degli approvvigionamenti. Il quale, se durasse a pace fatta, sarebbe una pestilenza per il paese.

 

 

Il sottosegretario dovrebbe avere ampi poteri propri esecutivi, salvo l’accordo nelle grandi linee col gabinetto. Dovrebbe accentrare le funzioni che ora sono sparpagliate fra i ministeri della guerra, della marina, dell’agricoltura e delle finanze. Oggi tutti i ministeri fanno un po’ la stessa cosa; e perciò si sovrappongono e si contrastano a vicenda. Quanti sono i ministeri che comprano grano e carbone? e requisiscono navi? ed agiscono in modo contradittorio sui cambi Il ministero del tesoro e la Banca d’Italia è probabile cerchino di moderare l’ascesa dei cambi, coi mezzi legittimi ed utili che sono a loro disposizione. Ma siamo sicuri che il vicino ed affine ministero delle finanze non li spinga, spinto a sua volta dal ministero della guerra, all’insù con i divieti di esportazione? Non sarebbe tempo di rivedere la lista dei divieti, mettendo nel novero delle merci libere tutte quelle la cui esportazione non giova alla condotta della guerra da parte dei nemici e non nuoce a noi? Perché continuare ad imporre la licenza di esportazione a merci che l’Italia avrebbe interesse ad esportare ad amici, a nemici, a neutri ed a quant’altri volessero acquistarle? Forse per dare la soddisfazione ad un comitato esistente presso il ministero delle finanze di ritenersi indispensabile alla salvezza del paese e per far vivere qualche centinaio di avvocati, procuratori, sollecitatori a spese dell’industria italiana?

 

 

Se tutti questi problemi dovessero essere risoluti da un sottosegretario agli approvvigionamenti, che fosse egli stesso un uomo d’affari, la soluzione sarebbe resa più agevole. Egli non istituirebbe commissioni, sovratutto miste di delegati di ministeri diversi: che è un modo di far perder tempo a uomini molto affaccendati per non decidere nulla. Ma deciderebbe senz’altro, dopo aver sentito il parere di altri industriali, negozianti, delegati di leghe operaie, cooperatori anche costoro, se sono i veri dirigenti delle leghe e delle cooperative e non i soliti professionisti buoni a far tutto, che seggono negli innumerevoli consigli e rappresentanze e nel parlamento, hanno certamente saggi consigli da dare – di cui egli dovrebbe e saprebbe circondarsi.

 

 

Probabilmente il sottosegretario eviterebbe di far tutto e di attuare un piano «completo». Le vie della salvezza sono molte. Qui occorrerà semplicemente consigliare ed incitare, perché le cose si fanno già da sé ed occorre solo la spinta di chi sa far vibrare la corda dell’amor patrio e dell’ambizione di servire il paese. Là occorrerà integrare con sussidi pecuniari o con altri aiuti l’iniziativa privata. Altrove occorrerà sostituirsi addirittura all’iniziativa privata che non esiste od è scomparsa. Chi può formulare un piano prestabilito in quest’opera che è tutta di intuito, di tatto, di adattabilità delle decisioni ai casi vivi mutabili di giorno in giorno? Uomini competenti e non piani sapienti: ecco ciò che occorre nel momento attuale. Non è rivelare un segreto ricordare che allo scoppio della guerra italiana l’amministrazione della guerra aveva predisposto un piano per assumere direttamente in sue mani la gestione ferroviaria; le ferrovie avrebbero dovuto essere gerite direttamente dalla gerarchia militare. Se v’era desiderio legittimo era questo poiché in tempo di guerra tutto deve essere subordinato al comando militare.

 

 

Fu osservato tuttavia che la sostituzione di orari nuovi, segnalazioni nuove, dirigenti nuovi avrebbe disorganizzato il servizio; e le ferrovie furono lasciate ai ferrovieri. Il plico misterioso, contenente le norme per il servizio di guerra, dorme ancora sotto sette suggelli, nelle casseforti delle stazioni italiane. E si adottò il principio: il comando militare ordini ed i ferrovieri eseguano. Fu un principio provvidenziale. La ferrovia, lasciata in mano ai competenti, fece miracoli, che coloro i quali sanno dicono superiori alle meraviglie tedesche. L’esercito fu servito; ed i treni continuarono a correre per l’industria e per la popolazione civile. Così si dovrebbe fare dappertutto: requisire i competenti.

 

 

III

Il decreto, il quale nomina l’ing. Riccardo Bianchi a commissario per i carboni è un buon provvedimento, il quale pecca soltanto per eccesso e per difetto.

 

 

È fuor di dubbio essere stata cosa provvida l’aver affidato il servizio dei carboni ad una sola persona apprezzata da coloro che la conoscono per la sua perizia, la sua energia organizzatrice e la sua capacità di veder lontano.

 

 

Importa certamente non avere illusioni, immaginando che un uomo possa colla sua forza di volontà far spuntare dal nulla il carbone ed eliminare gli effetti della guerra sottomarina, della scarsità del tonnellaggio e della crescente enorme domanda di prodotti bellici. Ma importa del pari non seguire vie le quali, per lunga esperienza, rendono più difficile l’opera di quell’uomo a cui la fiducia del governo ha affidato la soluzione del problema. A questo riguardo sembra davvero che il decreto contenga un eccesso di precauzione.

 

 

L’ing. Bianchi è soggetto ad un comitato di ministri, composto in parte di ministri, aventi una competenza determinata e di essa gelosi custodi, ed in parte di un ministro senza occupazione fissa, perché senza portafoglio. Un organo dunque per se stesso poco adatto a risoluzioni rapide. Né basta: il Bianchi deve sentire le proposte di un comitato centrale per la ripartizione dei carboni; può presentare i suoi voti alla commissione per il traffico marittimo ed alle sue sottocommissioni per tutto quanto si riferisce ai noli; e sulla proposta del comitato centrale carboni può fissare i prezzi massimi per i carboni stessi.

 

 

Se si pecca per eccesso di comitati e di commissioni, fanno invece difetto al commissario i poteri per risolvere in modo unitario il problema. Egli non può occuparsi dei carboni nazionali, come se l’utilizzazione e la ripartizione delle ligniti non fossero in rapporto con quella dei carboni esteri. Nulla è detto dei metalli; nulla dei noli. Occorre sempre e occorre sovratutto in questi tempi febbrili di guerra, risolvere problemi di questo genere: per produrre una tonnellata di acciaio è preferibile importare due tonnellate di carbone per utilizzare il minerale di ferro esistente in paese; ovvero meno carbone ed una tonnellata di rottami? Per lo più le due soluzioni non si escludono; variando all’infinito e di momento in momento le combinazioni più utili ad adottarsi. Il problema deve essere risoluto al tempo stesso, essendo carbone e metalli i due fattori principali della resistenza bellica. E già fu osservato: chi dice carboni e metalli non li pensa in Inghilterra od a New York od in India – anche dall’India e dall’Egitto vennero rottami di ferro – ma li pensa trasportati in Italia. Come è possibile che il problema del trasporto possa essere risoluto da un commissario, il quale debba dipendere dal beneplacito di innumeri e benemerite commissioni?

 

 

L’unità è anche necessaria nel tempo. Il commissario ai carboni ed ai metalli deve badare non solo all’oggi, ma anche e sovratutto al domani. Deve avere la vista lunga e preparare subito ciò che occorrerà fra due, tre, sei mesi, un anno. Ma egli deve potere scartare senza compassione tutto ciò che gli può fare concorrenza oggi e domani; e che, utile a raggiungere i fini di pace, può essere dannoso ai fini della guerra. Il commissario o dittatore degli approvvigionamenti bellici deve poter dire: io non voglio che si mettano sul cantiere nuove navi, perché ciò mi obbliga ad importare carboni e metalli, i quali mi sono e mi saranno necessari durante la guerra per altri fini più urgenti. Egli deve poter dire: io non voglio che si inizino impianti industriali, i quali potranno essere magnifici per il dopo guerra, ma frattanto rubano operai, metalli, cemento, ecc. ecc. alla produzione bellica. Ed egli deve avere l’autorità di farsi ubbidire.

 

 

Perché il problema possa essere risoluto, occorre abbia fine la tragicomica guerra di competenze fra ministeri. Il pubblico avrà torto; ma è persuaso che i comitati di ministri, le commissioni composte di funzionari delegati dai vari dicasteri abbiano per compito essenziale di perdere il tempo nell’usurpare le competenze altrui e nel non lasciarsi rubare le proprie. Gli on. Arlotta ed Ancona probabilmente non vogliono si tocchi nulla alla competenza del nuovo ministero dei trasporti; gli on. Bonomi e De Vito tengono ben stretto ciò che spetta al ministero dei lavori pubblici; gli on. De Nava, Raineri, Canepa ecc. difendono le attribuzioni degli sdoppiati dicasteri di agricoltura, industria e commercio.

 

 

Tutto ciò è irritante sempre in tempo di pace; essendo indice di scarsa coordinazione e di uso dei mezzi diplomatici di azione (protocolli, lettere, passacarte) ai metodi industriali (telefono ed intese verbali). Ma è inquietante in tempo di guerra. I ministri, pieni di ottime intenzioni, in breve respirano l’aria dei ministeri; e nei ministeri la burocrazia non si è ancora accorta che l’Italia è in guerra. Crede di essersene accorta solo perché legifera ed arricchisce a decine ogni giorno la raccolta dei decreti luogotenenziali. Legiferare però non è un fare la guerra; forse è soltanto un frastornarla. I ministri devono avere l’abnegazione di passar sopra alle suscettibilità della burocrazia di governo. Gioverà loro assai di più essere responsabili dinanzi al parlamento dell’azione di pochi uomini tecnici, scelti per le loro attitudini ed in cui abbiano fiducia, che non di quella della macchina amministrativa solita. Del resto, anche dopo aver abdicato ai loro poteri in due o tre campi, nei quali i metodi consueti di azione non servono, rimarrà ai ministri ancora tanto da fare! Vi sono forse in Italia uomini più oppressi dal lavoro dei ministri? Gli uomini politici devono adattarsi all’idea che bisogna lasciar fare i tecnici e dar loro mani libere. In Inghilterra ed in Francia hanno finalmente compreso tale necessità, dopoché la Germania aveva chiamato al tesoro un banchiere ed agli approvvigionamenti di guerra il capo di una azienda elettrica. Nel ministero Lloyd George due dei membri più cospicui sono lord Devonport e sir A. H. Stanley. Lord Devonport, controllore dell’alimentazione, nacque col nome di Hudson E. Kearley da un fittavolo rurale e cominciò la sua carriera come fattorino in un magazzino da tè. Divenne ben presto il maggiore negoziante di coloniali dell’Inghilterra. Creato baronetto, col nome di sir Hudson Kearley organizzò ex-novo il porto di Londra; e sei anni fa fu creato lord Devonport. Il suo collega sir Albert Stanley cominciò la sua carriera, come Albert Stanley, in qualità di controllore delle tranvie in Detroit, nel nord-centro degli Stati uniti. Nove anni fa, già famoso come organizzatore ferroviario, venne a Londra per unificare ed elettrificare le ferrovie sotterranee di Londra. Tre anni fa fu naturalizzato inglese e subito dopo gli fu dato il titolo di sir. Oggi è ministro. In Francia, due sottosegretari agli ordini del Thomas, sono due tecnici: il signor Claveille, amministratore di ferrovie, e Loucheur, industriale dell’acciaio.

 

 

Da noi, si ha paura di dare a chi fu già a capo della principale nostra amministrazione di stato, i poteri necessari per fare sul serio e senza pastoie. Si ha paura di lasciar mano libera ai tecnici; si ha timore che qualcuno dica essersi il governo inchinato dinanzi agli «interessati».

 

 

Aver dato ascolto agli «interessati»: questa è una delle più gravi colpe che si possano muovere agli uomini politici italiani. Fa d’uopo però anzitutto vincere la guerra, e perciò fa d’uopo vincere la paura degli «interessati» che è una paura «romana», una paura «burocratica». È naturale che gli industriali ed i commercianti veggano prima degli uomini politici la convenienza di operare in un dato modo per assicurarsi la maggiore quantità possibile, ad esempio, di acciaio. I primi sono rotti al mestiere e quindi sarebbero degli inetti se non sapessero vedere subito dove sta la radice del male e quali sono i rimedi possibili ed efficaci; mentre sarebbe strano rimproverare ai secondi di non sapere ciò che non è dover loro conoscere e ciò a cui la loro educazione politica non li ha preparati. È dovere dei politici, che sono necessariamente dei generici, di sentire i competenti e di seguirne l’avviso, quando si siano persuasi che esso è conforme all’interesse generale. Così fece il signor Lloyd George nell’agosto 1914. Ben sapendo di essere interamente digiuno di cose monetarie e bancarie si mise nelle mani di sperimentati e reputati uomini di finanza e ne seguì l’avviso con prontezza ed energia. Così fece anche in seguito per far sorgere le fabbriche di munizioni. Furono probabilmente le due sole cose buone che egli fece sinora nel campo economico e finanziario; ed è doveroso, anche da chi non lo ha mai avuto in gran concetto, dichiarare che, così operando, egli dimostrò di avere alcune vere qualità di uomo di stato.

 

 

In Italia, purtroppo, domina a questo riguardo una detestabile timidità. Se gli interessati sono molti, se costituiscono classi numerose di operai, di contadini, di agricoltori, non vi è ministro che non si affretti a far suoi i loro voti. Allora gli «interessi» diventano «legittime e sante rivendicazioni» anche se si tratta di interessi nettamente contrari al pubblico vantaggio.

 

 

Ma se, Dio guardi! coloro i quali esprimono un’opinione ragionevole sono pochi e grossi industriali e commercianti, allora bisogna fare tutto il contrario, ossia commettere spropositi solo per non essere sospettati di fare gli interessi dei pochi.

 

 

Nell’agosto 1914, il signor Lloyd George non poteva andare a chiedere l’avviso delle moltitudini per sapere come frenare la imminente crisi di borsa e la rovina finanziaria di Londra. Doveva chiederlo a pochi, anzi a pochissimi, ed agli interessati, perché soltanto costoro potevano esprimere un parere degno di essere meditato e seguito. Lo stesso dicasi oggi in Italia delle munizioni. Pochissime persone sono in grado di dire qualcosa di serio intorno al carbone ed all’acciaio; ed è giuocoforza ed è ragionevole sentire solo l’avviso di costoro, nulla curando le vociferazioni degli incompetenti.

 

 

L’uomo di governo ha il solo dovere di persuadersi che la via consigliata è la buona. Ma se egli di ciò è persuaso, non gli deve venir meno il coraggio di seguire il parere migliore solo per la paura di essere sospettato di connivenza con interessi privati. Operando altrimenti, egli farebbe il danno del paese.

 

 


[1] Con il titolo Requisire i competenti. [ndr]

[2] Con il titolo La ridda dei comitati e delle commissioni e la fobia dei competenti. [ndr]

Torna su