Opera Omnia Luigi Einaudi

La scienza italiana e la imposta ottima

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1967

La scienza italiana e la imposta ottima

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 210-235

 

 

 

 

200. Giustizia e sicurezza furono congiunte insieme, ad attuare l’imposta adatta alla città terrena, in Italia nel secolo XVIII. Narrai altrove[1] la storia di quell’invenzione ed i suoi risultati. Volle Maria Teresa, padrona dello stato di Milano, porre termine ai disordini derivanti dai privilegi e dagli arbitrii invalsi durante il dominio spagnuolo (cfr. sopra paragrafi 195-98).

 

 

Fu incaricato nel 1718 il napoletano Don Vincenzo De Miro di presiedere una prima giunta del censimento (catasto) e nel 1739 il toscano Pompeo Neri di sopravegliare alla seconda, e dopo il 1748 di curare l’attuazione del catasto. Questi insigni uomini non indugiarono in ragionamenti sottili di giustizia perfetta, ma commisero «a quattro dei più accreditati ingegneri di proporre un metodo, acciò tale operazione restasse eseguita con tutta la giustizia, e con tutti i riflessi convenienti alla generale uguaglianza, che per lo scopo del censimento si doveva stabilire». Ingegneri stimatori pratici, non dottrinari, ebbero il carico di fissare i criteri con cui I’imposta doveva essere ripartita, ed ingegneri e pratici guardando attorno a sé, applicando criteri di stima usati forse da secoli, videro con occhi chiari il punto di incontro della perequazione verso lo stato, della sicurezza dei contribuenti e della prosperità pubblica.

 

 

Se si volesse riassumere in una definizione il contenuto del concetto di rendita imponibile osservato dagli stimatori milanesi, non si saprebbe trovarne altra migliore di quella del codice: Hoc fructuum nomine continetur quod justis sumptibus deductis superest (VII-51-1). Dal pensiero degli stimatori milanesi è assente qualunque accenno a distinzioni del reddito in varie parti od a derivazioni indipendenti di queste parti del reddito da certe forze produttive del terreno (ad esempio, dal terreno per sé; dai capitali fissi, dal capitale circolante o dal lavoro). Lo stimatore conosce solo i «frutti» del suolo o la «cavata» o la «rendita», che sono tutte parole sinonime, usate ad indicare il prodotto lordo della terra. Dal prodotto lordo devono essere dedotte «tutte» le spese, nessuna esclusa. Come il prodotto deve essere calcolato nella sua interezza, così le spese devono essere valutate in modo da rendere la cavata netta «del tutto pura». Le spese possono essere di lavorazione, di semente, di riparazione agli edifici, di perdite per infortunii.

 

 

La cavata netta, o rendita imponibile o parte dominicale si identifica con quella porzione di frutto che di netto va al padrone, dedotte cioè dalla cavata lorda «la parte colonica» e le altre spese che sopra furono indicate. Lo stimatore concepisce cioè il frutto lordo del fondo diviso in due parti, di cui una sono le spese, principale fra esse la quota colonica, ed il resto quod superest è la parte dominicale che va al padrone ed è oggetto della imposta fondiaria. Ancor oggi l’articolo 2 della legge 1 marzo 1886 dichiara che «rendita imponibile è quella parte del prodotto totale del fondo che rimane al proprietario netta dalle spese e perdite eventuali».

 

 

Tutti i calcoli sulla cavata o rendita lorda, sulle spese e sull’«ordine» del lavorerio, ossia sui metodi di conduzione, se a mezzadria (colonato) o ad affitto o ad economia, sui prezzi da usarsi per le varie specie di terreni e di frutti, devono essere condotti secondo «ciò che venga costumato in ogni sito», osservando «in tutto il costume del paese», seguendo «la pratica comunemente dalli stimatori ricevuta e regolata nel modo più mite e più benigno e più favorevole al paese».

 

 

quali istruzioni furono dappoi sapientemente riassunte nell’art. 2 della nostra legge fondamentale, secondo cui i fondi devono essere «considerati in uno stato di ordinaria e duratura coltivazione, secondo gli usi e le consuetudini locali», né si deve tener conto «di una straordinaria diligenza o trascuranza». Le quali ultime non sarebbero invero conformi a quel «costume del paese» a cui deve lo stimatore riferirsi sempre nei suoi calcoli di prodotti e spese.

 

 

Semplici norme, dettate con parole ingenue. Seguire il costume del paese, le pratiche comunemente ricevute, osservare lo stato di ordinaria e duratura coltivazione, non tener conto di straordinaria diligenza o trascuranza sono precetti che istintivamente, per illuminazione proveniente dalla visione chiara della realtà, abiurarono l’errore massimo della finanza dottrinaria, la quale misura il diritto dello stato secondo il merito altrui. Gli italiani che redassero le norme del catasto milanese videro che lo stato doveva in ogni modo ricevere la sua quota del prodotto comune; riceverla negli anni buoni e negli anni cattivi, perché la macchina statale non può mai interrompere il suo operare continuo; epperciò l’imposta non deve essere basata nel reddito effettivo variabile di ogni anno ma sul medio reddito di un bastevole lasso di anni. Videro che lo stato non poteva abbandonare le sue sorti alla mercé dei risultati ottenuti dai singoli contribuenti, abili o nulli, laboriosi o poltroni; videro che esso non doveva premiare i ritardatari e multare gli intraprendenti e giunsero naturalmente ovviamente alla grande idea dell’ordinarietà, del reddito medio, conforme agli usi del paese.

 

 

201. Traggo dalla memoria già ricordata su La terra e l’imposta alcune pagine nelle quali riassumevo i frutti ottenuti dalla attuazione dell’idea che gli economisti chiamati dai reggitori dello Stato di Milano a riordinare le imposte avevano rinvenuta nella pratica estimativa secolare ed avevano fatta propria. Dopo aver descritto la miseria del contado di Lodi dove «crudeli appaltatori erano arbitri della roba e delle persone: un povero bracciante pagava fino a 20 scudi di annua taglia; i piccoli proprietari, non bastando loro i frutti a pagare la metà delle gravezze, abbandonavano i poderi o li vitaliziavano a potenti privilegiati, che non pagavano tasse e non temevano tribunali», Carlo Cattaneo scolpisce il rivolgimento operatosi in brevi anni colle seguenti parole lapidarie:[2]

 

 

Il nuovo governo chiama successivamente a cooperare alla grande rinnovazione della Lombardia le belle e generose intelligenze di Pompeo Neri, di Gianrinaldo Carli, di Cesare Beccaria, di Pietro Verri.

 

 

Si stabilì un nuovo censimento, che mirava a collocare l’imposta sul valore fondamentale del terreno, anziché sul variabile annuo reddito, e sulla personale condizione dei possessori. Il nuovo catasto, decretato nel 1718, ritardato con infiniti artifizii da molte magistrature e da molte classi privilegiate, ottenne il sacro vigore di editto perpetuo all’1 gennaio 1760. Il suo principale effetto fu di pesare sull’inerzia ed alleviare l’industria; poiché, ferma stante la proporzione della tassa all’estimo una volta pronunciato, le migliorie successive rimangono esenti; e il fondo, quanto meglio è coltivato, viene a pagare una tanto minor quota del frutto. Non passarono dieci anni, che vasti tratti sterili si videro coperti di ubertose messi. Alla fine del secolo il valor venale fondiario dell’agro lodigiano era già raddoppiato!

 

 

Prima che da Carlo Cattaneo, i mirabili effetti del censimento milanese erano stati messi in luce da Gianrinaldo Carli, il quale, giunto alla chiusa del classico rendiconto dell’opera compiuta da lui e dai suoi antecessori, sotto il titolo di Conseguenze felici così scrive:[3]

 

 

Ma si ottenne ancora di più, cioè un incoraggiamento grandissimo per l’agricoltura, il che ordinariamente sfugge dall’occhio degli osservatori comuni. Questo incoraggiamento consiste non solo nella sicurezza della giustizia, nel pagamento della vera e reale quotizzazione del tributo, ma altresì nella provvida agevolezza per cui i miglioramenti delle terre, sia per nuova coltura delle incolte, sia per nuove piantagioni di gelsi ed altre utili piante, sono esenti da ogni aumento di censo, cosicché quel terreno, che è stato posto in estimo come incolto e però aggravato da minima tenue porzione di carico, divenendo colto e fruttifero seguita a pagare senza aumento alcuno il medesimo carico di prima. All’incontro que’ terreni i quali al tempo della stima si sono ritrovati colti, se mai per incuria o per negligenza divengono di peggiore condizione, rimangono senza diminuzione alcuna sotto il medesimo tributo. Così con una operazione sola si punisce l’inerzia e si premia l’industria; il che è stato sempre presso i politici un problema di difficile soluzione. Quanto abbia prodotto di bene questo sistema è incredibile. Nel solo Lodigiano a’ tempi della generale stima si son trovate incolte pertiche circa 23.000, ed ora non ve ne saranno cento. Infatti nel 1733 si numerarono, secondo la relazione del notaio Masera, caselli, ossiano bergamine ove il formaggio si fabbrica, num. 197; nel 1767 se ne sono contate num. 236, ognuna delle quali comprende vacche circa 120, fabbrica forme grandi formaggio 290 circa. Sicché di quel tempo in qua sono aumentati caselli num. 39 nel Lodigiano, ossiano vacche num. 4680, e formaggi num. 11.310, i quali nella provincia formano un ingresso intorno a Lire 848.250. Così in tutte le città le case sono raddoppiate, perché anche in questa classe l’alzamento ed ingrandimento non porta aumento di tassa.

 

 

Poiché la ripetizione giova, quando il medesimo concetto sia nuovamente esposto da penne sovrane, riprodurrò ancora due brani che si leggono in opere giustamente celeberrime di Carlo Cattaneo. Nell’introduzione al saggio famoso presentato agli scienziati italiani convenuti a congresso a Milano nel 1844, il Cattaneo noverò il nuovo catasto tra i fattori precipui del rifiorimento economico lombardo:[4]

 

 

S’intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d’ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando, non dovevano più considerarsi nell’imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudato. Ora, la famiglia che duplica il frutto de’ suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce d’una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà d’un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si rese capace d’alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso culte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!

 

 

Più ampiamente, lo stesso Cattaneo, nelle lettere in cui trasse argomento dall’esperienza lombarda per proporre riforme utili a sollievo dell’Irlanda, così additava allo studio degli stranieri il memorando canone di tassazione scoperto dai censitori milanesi:[5]

 

 

Il censo è quella descrizione generale del paese, nella quale ogni campo è designato nelle sue dimensioni e nella sua forma, e classificato giusta la condizione nella quale era al tempo in cui fu censito e il valore che allora aveva. E un’istituzione che influì oltremodo nel miglioramento perenne delle terre, perché provocò un indefinito investimento di capitali. In altri paesi la tassa fondiaria e le altre imposte su le proprietà (Land-tax) per lo più sono assestate sul reddito presente effettivo del podere, e crescono o diminuiscono col reddito. Questa proporzione degli aggravi alla ricchezza, ossia alla forza di sopportarli, sembra un atto di giustizia; ed è un errore d’economia.

 

 

Infatti: se il lavoro delle terre altamente coltivate corrisponde alla quantità del capitale investito; se il capitale in tal modo investito produce ben tenue interesse, cioè un tenue aumento di reddito; se all’aumento di reddito corre dietro un’imposta proporzionale: è assai facile che l’interesse tenue diventi tenuissimo, diventi nullo. Mancherà dunque nel proprietario ogni spinta ad aggiungere altri capitali, e la tassa proporzionale nell’improvvida e ignara sua giustizia arresterà il miglioramento. Questa profonda verità fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti, che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese. Essi vollero adunque che nel censo fosse numerato e contrassegnato ogni campo, secondo il suo valore, ossia col numero degli scudi che esso valeva. La tassa fondiaria si riparte ancora oggidì sopra l’estimo allora stabilito. Quindi la provincia di Milano essendo estimata circa 24 milioni di scudi e quella di Cremona 14, le tasse si distribuiscono fra queste due province nella proporzione di 24 a 14. In ciascuna provincia poi e in ciascun comune ogni campo vi contribuisce in ragione del numero degli scudi a cui fu estimato. Ciò vale anche per le sovrimposte comunali (parish rates), che servono a sostenere in parte le spese delle strade, delle scuole, del medico, ecc. In un comune che ha per esempio l’estimo di venti mila scudi, se si mettesse una sovrimposta di due mila lire, risulterebbe nella proporzione di un centesimo per ogni scudo; e un campo estimato 70 scudi pagherebbe 70 centesimi, e così discorrendo. Due campi d’eguale superficie, ch’erano d’egual valore al tempo in cui furono censiti, cioè un secolo fa, sostengono una parte d’imposta fra loro eguale, benché l’uno d’essi siasi nel frattempo migliorato e dia reddito maggiore. Così l’aumento industriale del reddito rimane franco d’imposta. Quindi ognuno è spinto ad aumentare il reddito anche col più tenue impiego del capitale.

 

 

Aggiunger parole a queste pagine memorande di uomini davvero grandi sarebbe irriverente. Al pari di coloro che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti della Lombardia, i reggitori degli stati moderni debbono ricordare ognora che l’imposta sui sovraredditi (rendite positive e negative) non solo è una impossibilità tecnica, ma sarebbe una sciagura economica.

 

 

Debbono anche ricordare che la ordinarietà del reddito da assoggettarsi all’imposta non vuol dire catasto «perpetuo». Su ciò i moderni legislatori si discostano dalle affermazioni dei creatori del catasto milanese; bastando, a conseguire i benefici effetti della ordinarietà «un intervallo più o meno lungo di tempo e che giova sia determinato da principio». Così il Messedaglia, il quale poi seguita:[6]

 

 

Si tratta di un reddito di lenta e travagliata formazione; i capitali impiegati in imprese agricole non rendono generalmente che a lontane scadenze, e importa in sommo grado di poter misurare fin da principio i carichi da cui possono andarne gravati; importa ad ogni modo che gli aumenti eventuali di carico non vengan che tardi, e quando il maggior reddito sia per essere definitivamente conseguito e consolidato.

 

 

Vi è un interesse maggiore di economia nazionale di corrispondere a cosifatta esigenza, di lasciar respirare l’agricoltura, di non turbarla o versarla con estimi ripetuti a troppo brevi intervalli, di promuoverne i miglioramenti col premio di una temporanea immunità. I possibili deterioramenti si verificano, alla loro volta, in via ordinaria, alquanto a rilento, e possono perciò consentire, senza eccessiva sofferenza, una revisione a qualche distanza di tempo, purché questa non sia eccessiva.

 

 

Per altra parte, ogni operazione, anche di semplice revisione o rettifica generale di un catasto, è affare lungo, dispendioso, difficile, che s’incontra in ostacoli di ogni guisa, e ingenera perturbazioni che interessa di provocare il meno frequentemente che sia possibile: e ne abbiamo noi stessi la dimostrazione questo momento.

 

 

Il modo medesimo e la norma secondo cui si procede in un catasto alla determinazione della materia imponibile, non si accordan bene che col concetto di una ragionevole stabilità, e ne sono la naturale conseguenza. Si cerca un reddito relativamente costante, calcolato bensì sullo stato attuale, ma per un adeguato, che comprenda in termini di alquanta larghezza tutte le ordinarie vicende della coltivazione. I due concetti vanno perciò necessariamente connessi, e l’uno è il naturale correlativo dell’altro.

 

 

Bensì è stata già fatta l’osservazione che oggi si è assai meno inchinevoli ad una troppo lunga durata degli estimi, e propensi invece ad abbreviare i termini prestabiliti per la loro revisione periodica. Vi si ravvisa il vantaggio di proporzionar meglio l’imposta, in un’epoca sopratutto come la nostra, dove le mutazioni sono comparativamente forti anche a non lungo intervallo di tempo, e di moderare le resistenze che possono altrimenti conseguire da troppo inveterati interessi o rapporti. Anche ad altre epoche noi non abbiamo presente alcun caso in cui la stabilità del catasto sia stata espressamente garentita per la perpetuità.Si faceva calcolo di un termine assai lungo e non prestabilito, che poteva anche protrarre indefinitamente l’eventualità di una revisione; ma non si andava più in là.

 

 

Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, ché a tanto si riduce la «perpetuità» degli estimi agrari, è cagione di un altro benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dall’esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce la produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e son diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto «ordinario» al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto più in su nella scala della produttività; ed il prodotto «ordinario» è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario.

 

 

202. La scoperta degli economisti italiani del ’700 si riassume in due idee semplici: oggetto dell’imposta sono i frutti che ogni anno nascono crescono e maturano nel fluire perenne del fiume della produzione; non i frutti effettivi che ogni uomo ottiene in ragione delle sue singolari attitudini e fatiche, bensì quelli che egli può ragionevolmente ottenere, nel luogo in cui egli vive e col sussidio delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali le quali rendono possibile la sua vita economica, quando egli applichi una media intelligenza ed una ordinaria volontà di lavoro agli strumenti produttivi da lui posseduti. Non le astrazioni contabili, non i risultati di misteriose bilance intese a pesare numeri inconfrontabili perché separati dal trascorrere del tempo, forniscono la base all’imposta; bensì la realtà della vita che ad ogni istante fa perennemente giungere dinanzi agli occhi dello spettatore, il quale si collochi nel punto che divide simbolicamente la produzione dal consumo, nuovi beni e nuovi servizi. Ma lo stato non assume questi beni e questi servizi per quel che sono caso per caso per ogni individuo contribuente. Indagare quel che l’individuo di fatto produce di anno in anno è opera invidiosa e pericolosa. Invidiosa perché spinge l’individuo a guardare il vicino ed a spiare ed emulare la attitudine di costui a frodare; pericolosa perché spegne ed attenua la fiamma che induce l’uomo ad affaticarsi ed a progredire. Perché lo stato dovrebbe curarsi di sapere quel che l’uomo in effetto produce, giovandosi dei servizi che lo stato gli ha reso, dell’ambiente di giustizia, di libertà, di cultura e di elevazione spirituale che lo stato ha creato? Lo stato ha creato per tutti ugualmente; e chiede a tutti, in ragione di quel che esso ha dato.

 

 

203. Il problema posto dagli scienziati italiani della seconda metà del ’700 non toccava la ripartizione dell’imposta. Quegli uomini avevano certamente convinzioni precise in argomento. Lottavano contro l’arbitrio dei grandi e dei privilegiati, i quali tentavano ogni via per rigettare l’onere dell’imposta sui deboli e sui plebei; epperciò chiedevano l’uguaglianza oggettiva del tributo. Paghino le cose per quel che valgono, per quel che fruttano, senza riguardo alla persona che le possiede: nobili e plebei, ecclesiastici e secolari, tutti siano chiamati a pagare imposta in ragione delle cose possedute. Fu la grande conquista del secolo dei lumi; e se ne diede poi il merito agli uomini della rivoluzione francese, i quali la estesero all’Europa. Ma gli uomini di governo di Vittorio Amedeo II e quelli di Maria Teresa avevano già attuata l’idea in Piemonte ed in Lombardia.

 

 

La battaglia contro i privilegi era tuttavia cosa diversa da quella contro l’incertezza; e l’una va tenuta nettamente distinta dall’altra. Nel secolo XIX i privilegi assunsero altri nomi e la distribuzione dell’imposta ebbe tendenza a diventar nuovamente personale. Nel presente capitolo non si discorre di distribuzione dell’imposta bensì di accertamento e valutazione della materia imponibile. La scoperta italiana del «reddito normale» riguarda esclusivamente il problema di accertamento e valutazione della materia imponibile. Si può aver risoluto il problema di valutazione nel senso voluto da Vincenzo De Miro, da Pompeo Neri, da Gianrinaldo Carli e da Carlo Cattaneo, si può cioè abbracciare il partito di accertare e valutare i redditi «normali» invece di quelli «effettivi»; e si può nel tempo stesso distribuire, su questa base, l’imposta con criteri di personalità e non di realità, sul patrimonio e non sul reddito, con aliquote a base variabile crescente e non a base costante.

 

 

204. Il sacerdote della giustizia tributaria afferma che la proposizione: «l’imposta produce effetti definibili come buoni quando essa è ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente» è strumento inventato dai ricchi e dai loro giannizzeri per combattere la progressività dell’imposta.

 

 

A proposito d’altro, ho già protestato (par. 192) contro le illazioni le quali si volessero dalle tesi sostenute in questo saggio ricavare contro la progressività o la personalità dell’imposta. Poiché in quel punto ero occupato a dimostrare la vacuità di certe proposizioni le quali paiono vive e sono ombre sperdute nel limbo, non occorreva dir altro. Qui la posta è più grossa. Odio il mestiere del progettista; e perciò mi sono limitato, dopo tanto scrollare di falsi idoli, a porre una piccola modestissima tesi, teoretica e normativa nel tempo stesso: teoretica perché dice che l’imposta repartita in un certo modo, in funzione del reddito medio o normale o ordinario del gruppo o categoria di contribuenti produce effetti convenzionalmente definibili come desiderabili (incremento di reddito per i contribuenti e di materia imponibile per lo stato), laddove l’imposta repartita in un certo altro modo, in funzione del reddito effettivo variabile dell’individuo produce effetti convenzionalmente definibili come non desiderabili (vessazioni per i contribuenti, scoraggiamento di questi, remora all’incremento sostanziale o forse anche riduzione della materia imponibile); ma nel tempo stesso normativa perché l’uomo di stato può trarre da essa una norma di azione, diversa a seconda che egli voglia ottenere gli effetti detti desiderabili ovvero quelli definiti non desiderabili.

 

 

Bisogna riconoscere però che se la proposizione in discorso, oltre a raggiungere gli effetti desiderabili segnalati dal ragionamento e dall’esperienza, avesse altresì l’effetto di servire ai ricchi e disservire i poveri ed i mediocri, scemerebbe assai il suo valore normativo. L’uomo di stato potrebbe riconoscere che il concetto del reddito normale di categoria è preferibile a quello del reddito effettivo individuale se si desidera incoraggiare l’incremento dei redditi individuali, piccoli e grossi; ma potrebbe rimanere dubbioso intorno alla convenienza di accoglierlo quando egli voglia far servire l’imposta allo scopo di scemare le disuguaglianze esistenti fra ricchi e poveri o anche sia semplicemente persuaso, per qualsiasi ragione, della giustizia e convenienza di tassare più i ricchi che i poveri.

 

 

205. Il dubbio non avrebbe ragion d’essere. L’uomo di stato il quale si sia persuaso della preferibilità del concetto del reddito medio di categoria su quello del reddito effettivo individuale, non deve lasciarsi sopraffare dallo scrupolo di far cosa dannosa ai poveri ed ai mediocri. I problemi sono diversi. Ripeto che qui discuto esclusivamente il problema dell’accertamento della materia imponibile non l’altro, ben diverso, della ripartizione dell’imposta sulla medesima materia imponibile. Siano i soliti Tizio, Caio e Sempronio, forniti dei seguenti redditi e tassabili secondo i seguenti due criteri:

 

 

      Tizio Caio Sempronio Totale

 

Secondo il criterio del reddito effettivo individuale

 

 

Redditi

da

terreni

40

60

350

450

»

»

fabbricati

25

40

210

275

»

»

industrie e commerci

55

100

155

»

»

professioni

120

200

520

1080

520

1400

Secondo il criterio del reddito medio di categoria

Redditi

da

terreni

30

90

300

420

»

»

fabbricati

20

60

200

280

»

»

industrie e commerci

50

150

200

»

»

professioni

100

300

500

1000

500

1400

 

 

Ho costruito i due schemi in modo da mettere innanzi tutto in chiaro che il diverso metro di valutazione non influisce sul gettito dell’imposta a pro dell’erario. La base imponibile è, in ambi i casi, uguale a 1400 unità. Non v’ha ragione plausibile perché, qualunque sia la scala delle aliquote adottata, il rendimento dell’imposta varii apprezzabilmente a seconda del sistema di valutazione scelto.

 

 

Il criterio del reddito medio di categoria ha bensì, vuolsi notare subito per eliminare una critica irrilevante, la tendenza ad attardarsi nel tempo. Può darsi cioè che, se si accertano valori medi si corra un po’ meno nelle valutazioni di quanto si farebbe accertando immediatamente i valori effettivi. Dico che il vizio del ritardo è momentaneo; ché, se il sistema produce l’effetto suo logico e necessario di spingere all’aumento i redditi, l’erario si rivarrà del ritardo al momento della prima revisione.

 

 

Suppongasi tuttavia il peggio; e che per inettitudine della finanza a seguire le variazioni dei valori medi – ma perché supporre inettitudine solo rispetto ai valori medi e non anche a quelli effettivi? – questi si indugino costantemente al disotto dei valori effettivi. E che perciò? Il sistema è fondato sulla normalità delle valutazioni rispetto agli individui contribuenti e sulla loro temporanea costanza nel tempo, non sulla invariabilità delle aliquote. Se il criterio del reddito medio fornisse – facciasi un’ipotesi esagerata – una base imponibile di sole 700 unità invece delle 1400 unità fornite dal criterio del reddito effettivo, basterebbe applicare nel primo caso aliquota doppia di quella che si applicherebbe nel secondo. I proprietari di terreni in Italia sono tassati, ove si tenga conto dei centesimi addizionali comunali e provinciali, con aliquote le quali per lo più giungono al 100% della rendita imponibile e spesso la superano. Né essi hanno, per ciò, ragione di lagnarsi né si lagnano, salvoché per ignoranza. Le valutazioni della base imponibile non hanno lo scopo di scoprire la verità assoluta rispetto ai redditi. Questa è ricerca, oltreché vuota di contenuto, di mera curiosità estetica. Esse hanno invece per iscopo di accertare indici comparativi utili alla ripartizione del tributo. Che agli indici si diano per Tizio, Caio e Sempronio valori 100, 300 e 1000 come nello schema, ovvero i valori 10, 30 e 100, ovvero ancora 1000, 3000, e 10000 è perfettamente indifferente alla costruzione di un buon sistema tributario. Importa, se tale è il fabbisogno dello stato, ripartire equamente 400 lire d’imposta; non importa affatto ripartirle su una base imponibile totale di 1400 o 140 o 14000 unità.

 

 

Teoricamente si potrebbe persino rinunciare all’uso dell’unità monetaria lira o franco o sterlina ed usare numeri astratti, come ottimamente si faceva nei vecchi catasti. L’uso di numeri astratti aventi valore puramente comparativo avrebbe l’inestimabile vantaggio di evitare il ricorso ad unità monetarie soggette, nei tempi odierni e chissà per quanto tempo ancora, a variazioni imprevedibili.

 

 

Oggi, ripartendo il tributo su lire effettive si ottengono gettiti in eccesso o in difetto ogni qualvolta l’unità monetaria muti. Il legislatore aveva stabilito in 6000 lire o franchi un certo minimo di esenzione quando ogni lira equivaleva a 0,3 grammi di oro fino? Se il peso della lira è ridotto a 0,1 od a 0,05 grammi, ecco l’esenzione scemare di importanza reale e, pur restando sempre fissata in 6000 lire o franchi nominali, ridursi in realtà ad una cifra corrispondente a 2000 od a 1000 delle lire o dei franchi che in origine il legislatore aveva avuto in mente. Col metodo dei numeri astratti, concepibile però solo quando si apprezzino valori medi, le incongruenze oggidì frequenti sono eliminate.

 

 

206. Se dagli effetti per l’erario passiamo a quelli riguardanti i contributi, il sistema della tassazione in ragione del reddito medio di categoria che cosa dice? Caio possiede mezzi produttivi i quali in complesso sono tre volte più fecondi, in mani ordinarie, di quelli di Tizio; epperciò il suo reddito è assunto come triplo. Sempronio ha mezzi, di capitale e lavoro, decupli di quelli di Tizio ed il suo reddito è assunto come decuplo. Queste tre: 100, 300 e 1000 sono la base imponibile più conveniente, dal punto di vista del vantaggio privato e pubblico, per la ripartizione dell’imposta. Accade poi che Tizio e Sempronio, in proporzioni diverse, cavino dai mezzi posseduti più di quanto ne trarrebbe il contribuente normale, laddove Caio, poltrone od incapace, sta al disotto del normale. E v’ha chi sostiene che oggetto imponibile debbano essere le quantità 120, 200 e 1080. Chi ciò sostiene, invoca non il vantaggio dei singoli e del tutto, ma una misteriosa dea detta giustizia tributaria. Sul punto ho oramai disputato abbastanza per non dovervi tornar sopra.

 

 

Sia chiaro però che, fatta la scelta tra le due soluzioni, resta impregiudicata la questione della ripartizione dell’imposta.

 

 

V’ha chi preferisce il riparto con aliquota costante? Costui tasserà col 10%, ad esempio, medesimamente 120, 200 e 1080 (redditi effettivi) ovvero 100, 300 e 1000 (redditi medi), nell’insieme o nelle parti singole o un po’ nell’insieme ed un po’ nelle parti singole.

 

 

V’ha chi vuole il riparto con aliquota moderatamente progressiva? Ed egli tasserà, ad esempio, col 5% il 120 (effettivo) o il 100 (medio) di Tizio, col 7% il 200 od il 300 di Caio, col 9% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Se altri preferisca la progressione rapida, può gravare col 5% il 120 od il 100 di Tizio, col 10% il 200 od il 300 di Caio e col 20% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Ognuno, studioso o progettista o uomo di governo, può sbizzarrirsi a piacimento colla scala delle aliquote, con la tassazione separata o riunita, qualunque sia il metodo scelto per la valutazione della base imponibile. Trattasi di due scopi diversi da raggiungere: una buona scelta della base imponibile ha per iscopo e per effetto di spingere all’insù quei redditi che poi il tassatore colpirà a seconda dei suoi gusti in materia di riparto. Qualunque siano codesti gusti, sembra in ogni caso preferibile spingere innanzitutto la massa dei redditi all’insù, creare forze le quali elevino il contribuente medio e preparino la elevazione, in un momento successivo, della base imponibile.

 

 

V’ha chi vuol far servire lo strumento dell’imposta a combattere la grande proprietà e la grande impresa commerciale? Nessuno vieta a lui di essere un uomo di cattivo gusto e di far ragionamenti economici da bottegaio; ed, essendo bottegaio di cattivo gusto, di usare l’arma della progressività dell’imposta rispetto ai soli redditi i quali, malauguratamente per essi, hanno attirato la sua attenzione. Costui, ad esempio, si attaccherà ai terreni e colpirà i Tizii col 5, i Caii col 10 ed i Sempronii col 20%. Sarebbe strano che, in sede di discussione scientifica, si pretendesse di vietare agli invasati di attuare, quando afferrino il potere, le loro idee più o meno bislacche. Qui mi limito ad augurare che, nel regno degli ugualitari, i legislatori preferiscano tassare i terreni, con le aliquote che verranno loro in mente, piuttosto su 30, 90 e 300 che su 40, 60 e 350. Abbandono, non potendo farne a meno, in loro mano l’arma onnipotente dell’aliquota. La gente frenetica della giustizia ha, con essa, mezzo per battere sulla testa preferita di turco dei piccoli, dei medi o dei grandi, senza uopo di impacciarsi anche a mettere a sacco ed a fuoco la tecnica delle valutazioni e degli accertamenti.

 

 

Ho detto sopra (capo settimo) le ragioni dell’abbandono. Finora non esiste una teoria seria della proporzionalità o della progressività; non esistono regole scientifiche ossia logiche per dimostrare che una qualunque scala di aliquote sia più bella o più brutta di una qualunque altra. Vale, in siffatta materia, più un’oncia di prudenza e di buon senso che tonnellate di carta stampata. Gli uomini riuniti nei consigli chiamati a decidere le scale delle imposte siano saggi e prudenti, guardino all’insieme dei tributi e non ad uno solo, conoscano la ripartizione dei redditi nel luogo e nel tempo considerati, valutino adeguatamente le ripercussioni dei trasporti forzati di ricchezza dall’uno all’altro gruppo sociale, tendano all’elevazione dei più evitando il danno dei meno e del tutto!, ecco il pochissimo che si può dire a nome della scienza delle imposte. È certamente poco; ma qual colpa ha essa se la psicologia non sa fornirle i ponti di passaggio tra l’uno e l’altro essere senziente, e se la scienza politica è tuttora nell’infanzia?

 

 

207. Supponiamo dimostrata la proposizione teoretica che l’imposta produca effetti definibili come buoni quando sia ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente. Sia perciò accettata la norma la quale comanda a colui il quale possiede copia maggiore di strumenti produttivi, terre più ampie e bene situate, case più ambite, macchine e stabilimenti meglio costrutti o più potenti, di pagare di più di colui che è meno dotato; ma se due uomini posseggono strumenti produttivi uguali comanda altresì che essi debbano solvere uguale imposta, anche se l’uno ne cavò un frutto di 10 e l’altro di 20. Qual colpa ha lo stato dello scarso successo del primo e qual merito di quello notabile del secondo? Lo stato diede a tutti, per quanto toccava ai suoi compiti, uguali agevolezze; ed amendue debbono pagare ugualmente su quindici, se tale è il frutto che il contribuente ordinario può prudentemente essere reputato capace di cavare dai mezzi da lui posseduti.

 

 

208. La fecondità di quest’idea semplice, epperciò respinta dai moderni legislatori oltremontani che Carlo Cattaneo chiamava barbari, non è limitata al reddito del proprietario della terra. Nel ricordato saggio su La terra e l’imposta ho dimostrato che l’idea giovava a risolvere il groviglio della tassazione delle varie specie di redditi derivanti dalla terra: dominicale del proprietario, industriale dell’affittuario, del colono, del proprietario conduttore o coltivatore delle terre proprie, manuale del bracciante obbligato od avventizio. Se 100 è il frutto che ogni anno esce dalla terra, 100 e non più e non meno è il valore della somma dei redditi dei diversi partecipanti alla produzione, purché ogni reddito sia valutato contemporaneamente ad ogni altro reddito e col medesimo criterio. Altrimenti il totale sarà 50 ovvero 200, con offesa al buon senso ed alla logica. La distinzione fra prodotto lordo e redditi netti è un altro dei vani fantasmi i quali hanno turbato la mente del legislatore tributario, e l’hanno condotto ad errori funesti di somma e di sottrazione. Tutto il prodotto è composto di redditi netti di qualcuno. Quel che è reddito per Tizio è spesa per Caio; e il reddito di Caio è spesa per Tizio. Non di rado i legislatori hanno, oggi, inventato metodi differenti per valutare i diversi redditi netti nascenti dallo stesso ceppo di prodotto lordo; e di qui sono nati la confusione delle lingue e l’accavallamento dei tributi terrieri l’uno all’altro sovrapposti. Fa d’uopo ritornare alla fresca fonte del luminoso settecento, del gran secolo della ragione e delle idee chiare; e riaffermare che tutto e solo quel che nasce dalla terra è tassabile, che tutto deve essere valutato con ugual criterio e che il buon senso comanda di dare allo stato una parte del frutto che la terra dà in ugual misura a tutti coloro che la coltivano con diligenza ordinaria secondo i metodi consigliati dall’uso del tempo.

 

 

209. La fecondità dell’idea non è limitata alla terra. Altrove[7] ho anche discusso il problema dell’applicazione del concetto dell’ordinarietà alla tassazione dei redditi industriali commerciali e professionali.

 

 

Prima che dai dottrinari e dai legislatori, il problema è stato in questo campo affrontato e spesso risoluto dai pratici, contribuenti e procuratori alle imposte. Costoro si sono trovati di fronte al comando del legislatore, il quale ordinava di accertare per ogni contribuente, singolarmente considerato, l’uno indipendentemente dall’altro, ad ogni volgere di anno o di biennio o di quadriennio, il reddito vero effettivamente ottenuto. Si deve accertare il vero effettivo individuale di Tizio, sia 100 o 150 o 200, senza preoccuparsi del quantum di tassazione per Caio. Lo stesso sistema adoperandosi per Caio e per Sempronio e Mevio, e tassandosi tutti sul vero, giustizia è resa a tutti.

 

 

Il principio del vero effettivo individuale conduce logicamente a guardare piuttosto le differenze che le somiglianze, il particolare piuttostoché il generale. Il problema non è: quanto possono guadagnare in media i negozianti che hanno bottega nella tal via ed hanno tale giro di affari? Ma invece: quanto guadagna o quanto perde di fatto il negoziante A o il negoziante B o quello C? L’indagine deve quindi insistere non tanto sulle cause per cui da un dato giro d’affari deve risultare un dato reddito, quanto sulle cause per cui da quel dato giro d’affari, da quella data situazione, da quei coefficienti di produzione – tutte cose per fermo preliminarmente utilissime ad appurarsi – Tizio con intelligenza ed abilità è riuscito a ricavare un reddito netto di 100, Caio con intelligenza ed abilità minori un reddito di 50 e Sempronio, avventato od inesperto, ne trasse una perdita di 30.

 

 

210. Contro l’ideale del reddito vero effettivo individuale, scritto nella legge e accettato dalla dottrina, quella che si chiama comunemente «pratica» e che è l’insieme delle consuetudini di fatto osservate, delle norme seguite negli uffici finanziari ha condotto a poco a poco, non so se in molti o pochi casi, ad un risultato opposto, non scritto, non legalizzato, lamentato spesso, subito per lo più con rassegnazione per la difficoltà di fare meglio: ed è il metodo del vero presuntivo medio.

 

 

I funzionari delle imposte, trovatisi innanzi alle difficoltà concrete degli accertamenti, si sono persuasi presto che la ricerca del vero effettivo individuale poneva un ideale assai alto, tanto alto da non poterlo per lo più attuare. Nessuna nozione è così elastica, così difficile ad essere precisata come quella del reddito netto effettivo. Se il concetto del reddito è controverso nella dottrina, sì da aver dato luogo ad una letteratura amplissima ognora crescente, tanto più è controverso l’appuramento concreto del reddito effettivo delle imprese od economie individuali. L’impiegato che riceve in una data unità di tempo 100 lire di stipendio, il capitalista che riceve 5 lire di interesse sul capitale dato a mutuo possono credere che in tutti gli altri casi l’appuramento del reddito sia ugualmente agevole; ed a prescindere che anche per essi esistono problemi di epurazione, certo è che per i commercianti, gli industriali, i professionisti la bisogna è di una complicazione assai maggiore: quale valore daremo ai rischi, alle quote di deperimento e di ammortamento, alle esistenze di inventario, ecc. ecc.? Quale valore alle registrazioni dei libri di commercio e, dove questi non esistono, alle allegazioni degli interessati? C’è in fondo al concetto del reddito vero effettivo individuale, un pericolo, di cui i funzionari delle imposte avvertono immediatamente la portata gravissima per la finanza: il pericolo degli accertamenti di perdite. Se si vogliono appurare i redditi positivi individuali, giocoforza è ammettere che in certi casi e sovratutto in certi anni o periodi, i redditi siano stati negativi, ossia si siano verificate perdite. Quante volte, i funzionari non si saranno sentiti dai contribuenti muovere questa obiezione: noi saremmo ben disposti a pagare a fin d’anno sul reddito che nell’anno abbiamo di fatto ottenuto, purché l’accertamento di quell’anno non faccia testo per l’anno seguente e se il nuovo esercizio si chiuderà in perdita, questa sia riconosciuta? Il funzionario vede subito l’abisso dietro a queste parole, pur ragionevoli, anzi sacrosante, per chi parta dall’ideale di tassare tutto e solo il reddito effettivo. Vede l’abisso della moltiplicazione dei casi di perdita, non appena si apra uno spiraglio alla loro ammissione. Raccontano le storie che, in non so qual contrada, una legge fiscale ammise un giorno come motivo di esenzione da una imposta la stupidità o cretinismo. Improvvisamente, fioccarono sul tavolo dei funzionari esterrefatti, a migliaia, i certificati medici di cretinismo e le anticamere non bastarono a contenere la folla delle facce stupide che venivano a reclamare l’esenzione dall’imposta! Così, se sul serio si vuol cercare il vero effettivo individuale, il funzionario teme che la massa dei contribuenti, composta di gente media, faccia il tentativo di confondersi nella minoranza dei veri inetti o disgraziati. Perciò i funzionari riparano nella trincea del «medio», nella difesa inespugnabile del non poter ammettere che un professionista, il quale ha studio aperto, che un negoziante il quale ha bottega su via non guadagni almeno quel tanto che ogni persona media deve essere in grado di guadagnare in quella professione o in quel commercio. Se un contribuente non è capace di lucrare almeno il 5 o il 10% sul suo giro d’affari, se non è in grado di far rendere almeno 10.000 lire nette una bottega per cui paga un fitto di 5.000 lire, se non è in grado di cavare dal suo lavoro o dal suo capitale o da amendue almeno quel tanto che basti a far vivere la famiglia secondo la sua posizione sociale, perché continua egli a fare quel mestiere? Perché non chiude bottega e non mette un punto fermo alle perdite, acconciandosi a fare l’impiegato al soldo altrui, come fa lui, funzionario delle imposte?[8]

 

 

211. Logiche riflessioni, inspirate a buon senso ed al giusto desiderio di salvaguardare le ragioni del tesoro, che troppo pericolo correrebbe se dovesse subire l’alea delle disgrazie, vere o configurate, dei contribuenti. Di qui, il ripiegamento di fatto di ambe le parti, amministrazione e contribuenti, sulla posizione del reddito presuntivo medio. Quasi senza avvedersene, nella generalità dei casi, tra finanza e contribuenti, la discussione viene portata non su ciò che è, ma su ciò che deve essere. Il reddito effettivo individuale viene tacitamente lasciato in disparte come un mero concetto scritto da non occuparsene troppo; e si discute sul giro degli affari e sulla percentuale media di utile netto sul giro degli affari in questo o quel commercio. Si fanno concordati o si viene ad intese, fra ispettori superiori e rappresentanze dei contribuenti sul reddito medio per bacinella, per fuso, per telaio, per tale o tale altra unità di coefficiente di produzione usata in questa o quella industria. Il contribuente si adatta a pagare anche quando perde, perché, quando guadagna, non è tassato sulle punte individuali, di un anno o della sua ditta, ma sul medio reddito che le imprese della sua categoria sono reputate fornire. Anche i proprietari di fabbricati non sono sempre tassati sul reddito minore o maggiore ottenuto nei rapporti coi singoli inquilini, ma piuttosto in rapporto al reddito normale che fabbricati così e così, vecchi o nuovi, posti a mezzogiorno o a mezzanotte su questa o quella via, dotati di tali altri comodi, ecc. ecc., devono dare. Le discussioni sono ridotte al minimo; nasce una norma generalmente seguita, che risparmia attriti ed esagerazioni in un senso o in un altro. La finanza fa affidamento su un provento meno oscillante e gradatamente crescente; il contribuente si sente più tranquillo nel dare incremento alla sua impresa per il tempo per cui l’accertamento, fondato su criteri medi, è destinato a durare.

 

 

212. Qui si tocca una delle differenze fondamentali tra i due sistemi. Facciamo per il momento astrazione dalle applicazioni concrete; e supponiamoli amendue applicati in pieno, senza reciproche contaminazioni. Il metodo che tassa il reddito effettivo individuale non può, se vuole tassare il vero, dar remora al contribuente. Quando il reddito è 100 deve tassare 100; e se, essendoci una perdita di 50, deve astenersi dal tassare ed anzi dovrebbe concedere una detrazione corrispondente nell’anno successivo, deve però tassare 150 o 200, quando il reddito balza a 150 od a 200. Perciò il contribuente vive in continua inquietudine ed è trattenuto dal mettere in evidenza e talvolta impiegare capitali se teme che da ciò gli possa derivare un aumento di imposta. Sa che l’aumento è certo; mentre dubita sul condono immediato della imposta in caso di perdita.

 

 

Il metodo del reddito presuntivo normale rimedia alla difficoltà. In esso è implicita la deduzione delle perdite, perché non si tassano le punte eccezionali ed individuali dei redditi. Con esso la finanza non ha urgenza di revisioni annue, perché, se possono di anno in anno mutare le condizioni particolari dei singoli contribuenti, non muta altrettanto rapidamente il rendimento medio di una branca di industria o di commercio. Con esso, la finanza non è danneggiata, ma anzi trae grande vantaggio dall’attendere a tassare alla fine di un più lungo periodo l’aumento di reddito verificatosi dopo una revisione. Il farsi piccolo prima del concordato e, subito dopo, impiegare nuovi capitali e nuove iniziative nella propria impresa, così da godere per quattro anni (adotto, a scopo di esemplificazione, l’intervallo tra due revisioni un tempo usato in Italia) indisturbato l’aumento di reddito, è la conseguenza necessaria del metodo del reddito presuntivo medio. Necessaria e, nel tutt’insieme, assai più vantaggiosa alla finanza che ai contribuenti. Rari sono infatti i casi di imprese temporanee le quali durino solo per i quattro anni per cui la finanza non può variare l’imponibile e poi si squaglino.

 

 

Normalmente l’impresa dura anche oltre, sicché la finanza, alla fine del quadriennio, può elevare l’imponibile, ed elevarlo tanto più sicuramente in quanto è già trascorso il periodo iniziale di prova e di lanciamento dei nuovi capitali investiti.

 

 

213. Che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, siano per tentativi giunti alle medesime conclusioni alle quali erano arrivati i grandi economisti italiani del ’700 fa onore non piccolo alla agilità mentale con la quale essi hanno saputo interpretare il comandamento letterale della legge tributaria. Essi hanno, attenendosi alle presunzioni ed ai criteri del reddito medio o normale di gruppo o categoria, scelto la via buona; ma poiché la lettera della legge assume a base della tassazione il concetto del reddito effettivo individuale, dal dissidio fra il comando letterale del legislatore e la applicazione pratica di esso sono purtroppo sorti compromessi eccezioni derivazioni contingenti e discordi. È cosa sostanzialmente saggia derivare, come si fa, il reddito imponibile dal numero dei fusi, delle bacinelle e dei telai, dal valore locativo, dal giro degli affari; ma poiché ciò si fa per applicazioni particolari, con criteri contingenti e variabili da industria ad industria e da luogo a luogo, le sperequazioni sono inevitabili; né possono essere rimediate dalle conferenze periodiche degli ispettori superiori alle imposte. In quel dato caso singolo, anche se la norma direbbe di accertare 100, ma soccorrono dati certi sul reddito effettivo, si accerta 120; in quell’altro, visti gli stessi dati certi, si accerta 70. Di qui sperequazione, poiché ognuno dei due sistemi, del reddito individuale effettivo e del reddito normale di categoria, può funzionare, a condizione che sia sempre in tutti i casi applicato lo stesso criterio; non a volta a volta quello del reddito medio o quello del reddito effettivo a seconda che l’uno o l’altro meglio giovi alla finanza o sia difeso con abilità dallo scaltrito contribuente.

 

 

214. Dal contrasto fra la lettera della legge e la pratica amministrativa non si esce se non trasformando gradatamente e prudentemente in legge quella che è opera dell’amministratore. Importa all’uopo che teorici legislatori e pratici, costretti a scegliere fra i diversi criteri di distribuzione delle imposte, si liberino del ridicolo senso, da cui si sentono oppressi, di rispetto umano di fronte alla boria dei dottrinari. Avrei scritto invano il presente saggio, se esso non fosse riuscito a dimostrare che dietro a quella boria c’è il vuoto. Il ministro alle finanze, il procuratore alle imposte, il contribuente debbono guarire dalla malattia del «complesso di inferiorità» da cui essi invincibilmente sono afflitti in cospetto dei sacri principii della scienza delle imposte. Non esistono sacri principii in materia di imposte. Non esiste il «vero» reddito; non esiste la «vera» giustizia; non esiste il «vero» principio di tassazione. Chi afferma l’esistenza di questi sublimi «veri» in una materia così concreta, così grossamente contingente è un contastorie. Esistono solo la logica, il buon senso, la analisi dei risultati che derivano dalla applicazione dell’uno e dell’altro dei tanti veri che si fanno concorrenza per attirare su di sé l’attenzione dei legislatori.

 

 

215. Non ho voluto offrire al legislatore la ricetta di nessun principio di giustizia per se stesso più vero di altri principii. Affermo soltanto che il «vero» detto reddito ordinario, è fecondo di risultati migliori dell’altro «vero» detto reddito «individuale effettivo». Dico che esso soddisfa meglio alla condizione di dare allo stato quel che spetta allo stato, laddove il «vero» detto reddito «individuale effettivo» dà allo stato quel che è proprio del contribuente o viceversa. Soddisfar «meglio» non vuol dire soddisfare «in tutto». Poiché non conosciamo il criterio perfetto per dare allo stato quel che è dello stato è giuocoforza contentarci di quel criterio il quale meno, di gran lunga meno dei suoi concorrenti, offende il buon senso. Dico che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, dopo aver fatto i dovuti salamelecchi al «vero» dottrinario del reddito individuale effettivo, si attaccano al «vero», segnalato dalle necessità e dal buon senso, del reddito medio ordinario. Dico che essi non debbono vergognarsi affatto di avere infilato la buona via e, smettendola coi salamelecchi, debbono sentirsi orgogliosi di averla trovata. Aggiungo che essi non dovrebbero essere lasciati soli lungo l’arduo cammino. Teorici e legislatori debbono sforzarsi di andare a fondo delle ragioni per le quali la strada seguita in concreto è diversa da quella insegnata dalla cosidetta dottrina e dalla lettera della legge. Io sono convinto che la strada seguita in pratica conduce alla verità ragionevole, che in queste cose è quella che concilia, meglio che si possa, il vantaggio dell’erario e quello dell’economia pubblica. Sono convinto che su quella strada è possibile giungere, ad esempio, alla unificazione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile degli industriali e dei commercianti e di quei suoi figli spuri che si chiamano, a seconda dei paesi, imposte sul giro degli affari o sugli scambi e sono contraffazioni mal riuscite delle imposte sui redditi industriali e commerciali, doppioni purtroppo oggi resi necessari dalla insufficienza dell’imposta madre. Poiché l’imposta di ricchezza mobile tende a colpire il giro degli affari e poiché la tassa scambi è anche un’imposta sul giro degli affari, perché non guardar in faccia alla realtà e, buttando dalla finestra le vane stupide parole di redditi netti, di redditi veri, analizzare il contenuto effettivo delle imposte quali sono state foggiate oramai da una lunga fruttuosa esperienza? Le imposte quali sono state costrutte dai contribuenti, dai funzionari e dai magistrati perfezionano i principii che settanta anni fa furono posti da legislatori sapienti e prudenti, ed ancora oggi riassunti, senza tener conto del concreto accrescimento avvenuto, nei trattati dei dottrinari. Una legge d’imposta è dapprincipio uno strumento affidato ai contribuenti affinché essi possano lottare invidiosamente l’uno contro l’altro. Tocca all’esecutore della legge strappare a poco a poco all’imposta il virus dell’invidia, adeguando tutti dinnanzi alla necessità della cosa pubblica.

 

 

216. Perché non strappare fin dall’inizio delle leggi tributarie il maledetto vizio originario dell’invidia reciproca tra contribuente e contribuente, vizio espresso nella assurda ricerca della «verità» tributaria assoluta immacolata immanente e sostituirvi l’ossequio alla «verità» pratica la quale tenta di far pagare ad ognuno quel che egli deve allo stato in ragione dell’opera compiuta dallo stato per creare l’ambiente giuridico e collettivo, entro al quale ognuno è chiamato a lavorare? Invece di guardarsi intorno per confrontare il maggior carico comparativo proprio con quello, asserito minore, altrui, ognuno guardi a sé ed allo stato; ognuno vegga se, dati gli strumenti di lavoro e di capitale da lui posseduti, egli abbia contribuito la quota, stabilita con uguaglianza universale, del prodotto che egli normalmente fu messo in grado di ricavare dalle cose sue sotto l’egida dello stato.

 

 

217. Questo dissero in sostanza Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gianrinaldo Carli e Carlo Cattaneo: voi, o contribuenti, non dovete pagare l’imposta per quel che valete. A questa stregua, nessuno di voi dichiarerà il proprio valore e tutti affermeranno che il valore altrui è maggiore del proprio. Voi, invece, dovete pagare in ragione del valore degli strumenti di capitale e di lavoro che son vostri. Capitale e lavoro a nulla varrebbero senza il conforto dell’opera di protezione e di elevazione compiuta dallo stato. Perciò lo stato ha diritto di pretendere una quota del prodotto che dalle cose vostre si può normalmente, nelle condizioni esistenti di luogo e di tempo, ottenere. La quota prelevata dallo stato non è tolta a voi, perché senza di lui voi non avreste nulla. Ma quel di più che col vostro ingegno, colla vostra fatica, colle vostre rinunce voi otterrete in confronto al presunto prodotto ordinario, sarà tutto vostro. Vostro fino al giorno in cui, grazie al perfezionamento, vostro e dello stato insieme, il prodotto ordinario ed il fabbisogno dello stato non siano medesimamente cresciuti e da un gradino più alto si possano prendere le mosse verso una meta più luminosa.

 

 

218. Noi chierici della scienza, mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dall’additare al disprezzo degli uomini pensanti il virus dell’invidia tributaria ed alla loro osservanza il principio del dovere verso lo stato, il quale servendoci ci innalza.

 

 

Mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dal guardar dentro alle vanità le quali si sono travestite da teoremi scientifici. La lunga analisi dei fantasmi, dei miti, dei paradossi e della superbia dottrinaria in materia d’imposte richiede un atto di umiltà. Rendiamo omaggio alla scienza astenendoci dal pronunciarne il nome invano.

 

 

Riconosciamo di non possedere il metro invariabile della giustizia tributaria, al quale l’umanità debba inchinarsi. Lo cerchiamo da secoli; ma non l’abbiamo ancora trovato. Dinnanzi alla maestà dello stato non invochiamo a gran voce giustizia per trarne pretesto a confronti invidiosi. Nessuno voglia essere da meno e di più del vicino e dell’amico posto nelle stesse condizioni. Rendiamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo allo stato quel che ad esso è dovuto in ragione di ciò che ha creato a nostro favore. L’invidia non ci spinga a dire: non posso perché, pur possedendo gli stessi mezzi, non riuscii come il vicino come l’amico. Lo stato mi aiutò ad alzarmi in piedi ed a camminare; epperciò, non perché io abbia saputo camminare molto o poco, gli debbo tributo.

 

 



[1] In La terra e l’imposta, nel primo quaderno degli «Annali di economia» dell’Università commerciale Bocconi di Milano 1924. Ivi è ricordata la bibliografia essenziale. Si aggiunga qui che la relazione Messedaglia, allora praticamente irreperibile, è stata oggi rimessa a disposizione degli studiosi a cura del nipote Luigi Messedaglia col titolo Angelo Messedaglia, Il catasto e la perequazione, Cappelli, Bologna 1936. Lo scritto La terra e l’imposta fu ristampato, coll’aggiunta di una Appendice (pp. 201-306), nel vol. II della serie prima di una prima raccolta, in tre volumi delle «Opere», Einaudi, Torino 1942, raccolta oggi sostituita dalla presente.

[2] In Notizia economica sulla provincia di Lodi e Crema, estratta in gran parte dalle memorie postume del colonnello Brunetti, in «Il Politecnico», vol. 1, 1839, pp. 153-55. La notizia oggi è ripubblicata in Saggi di economia rurale di Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1939, pp. 85-114.

[3] In Relazione del censimento dello Stato di Milano, nella raccolta di Scrittori classici italiani di economia politica del barone Custodi, parte moderna, vol. XIV, 1804, pp. 315 sgg.

[4] In Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, Introduzione, p. XCV; ristampata nel vol. IV delle Opere edite ed inedite di C. C. raccolte da Agostino Bertani, p. 267. Il brano è riprodotto nei citati Saggi di economia rurale, p. 34.

[5] Di alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, lettere a Roberto Campbell regio vice console in Milano. Lettera quarta dell’1 marzo 1847, in Opere citate, vol. IV, pp. 334 sgg. Le lettere sono ripubblicate per intero nei Saggi di economia rurale cit., pp. 133-204. Il brano riprodotto nel testo si legge a pp. 183-84.

[6] Relazione della commissione… sul disegno di legge «Riordinamento della imposta fondiaria». Atti parlamentari, leg. XV, prima sessione, doc. n. 54-A, p. 173.

[7] In Ancora la sperequazione e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile, in «La Riforma Sociale» del gennaio-febbraio 1929, e di nuovo in Saggi, pp. 168 sgg.

[8] In un articolo riprodotto da l’«Informazione industriale» ne «Il giornale dei ragionieri» del 31 gennaio 1928 l’avv. Luigi Sertorio riporta «Il ricordo di un caso specifico» in cui il funzionario avrebbe allegato al contribuente «che se anche l’azienda è in perdita, non è questo motivo convincente per escludere che l’imposta di ricchezza mobile debba pagarsi, perché non è giusto creare ad un dato contribuente una condizione industriale più favorevole di quella dei suoi concorrenti che pagano l’imposta di ricchezza mobile». Il Sertorio riferisce il ricordo a guisa di critica. Si vedrà subito, per le cose dette nel testo, che l’allegazione del funzionario ha un fondamento dottrinale di grande peso.

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