Opera Omnia Luigi Einaudi

La soppressione del ministero delle poste

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/01/1922

La soppressione del ministero delle poste

«Corriere della Sera», 29 gennaio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 532-534

 

 

 

Le notizie pubblicate sui giornali intorno ai propositi dell’on. Giuffrida di riorganizzare il ministero delle peste e telegrafi meritano un breve commento. Prima fu detto che si voleva far passare i servizi delle poste, dei telegrafi e dei telefoni all’industria privata. Poi si negò che questo fosse precisamente il proposito del ministro, il quale accarezzerebbe invece l’idea di costituire tre aziende auto nome, con amministrazione tecnica e con bilancio separato. Le tre aziende non sarebbero più riunite in un ministero apposito; ma sarebbero poste alle dipendenze di un altro ministero, per esempio, quello dei lavori pubblici.

 

 

In verità, un ministro delle poste non è assolutamente necessario, sebbene si possa ricordare che questa figura, tra amministrativa e politica, sia una delle prime differenziatesi nella storia dei governi moderni. Hanno, per numero di dipendenti e per complicazione di affari trattati, assai meno titoli a sopravvivere i ministeri separati dell’agricoltura, dell’industria e del lavoro. Il punto vero della questione non è lì. Se si vuole sul serio risparmiare, ed eliminare, inoltre, gran somma di fastidi ai ministri, agli impiegati ed al pubblico, bisognerebbe cominciare ad abolire tutti i sottosegretariati, coi relativi gabinetti: una delle maggiori pesti della vita politica ed amministrativa del nostro paese. Se si osasse dire sinceramente là verità ed operare in conseguenza, converrebbe pagare il doppio i sottosegretari, aumentandone persino, se così desiderassero i partiti politici, il numero, pur di non dar loro alcuna funzione relativa a speciali ministeri. Il sottosegretario di un ministero non fa nulla, non gli si lascia dal ministro a giusta ragione far nulla, ed ha per unico compito quello di disturbare gli impiegati con i suoi gabinettisti, le sue raccomandazioni, le sue lettere ed i cavalieri da nominare nel suo collegio. Il tesoro si avvantaggerebbe assai se raddoppiasse ad essi l’assegno, purché fossero senza sottoportafoglio. Stiano alla camera in permanenza, a far propaganda per il gabinetto; che è la loro antica e tradizionale funzione, probabilmente necessaria in un governo parlamentare.

 

 

Se, in aggiunta, convenga anche abolire qualche ministro, per esempio, quello delle poste e telegrafi, come vuole l’on. Giuffrida – e gli va data lode per la originalità della proposta di autosoppressione – non è cosa che si possa giudicare alla spiccia. Basta trasformare i tre servizi amministrativi, poste, telegrafi e telefoni, oggi dipendenti da un ministro particolare, per legittimare l’abolizione del ministero? Che diversità sostanziale esiste tra il modo con cui quei tre servizi sono oggi organizzati ed il modo con cui sarebbero organizzati in avvenire, secondo il tipo delle aziende autonome?

 

 

Una sola diversità è chiara: le tre aziende avrebbero ciascuna un bilancio separato, con entrata ed uscita proprie. Si saprebbe o si dovrebbe sapere con precisione quanto ognuna di esse costa o frutta. Se ottenuto sul serio, tale vantaggio sarebbe per sé solo sufficiente a legittimare la riforma. Potrebbe darsi, invero, che la conoscenza dei risultati finanziari di ogni servizio spingesse i dirigenti ad una gestione, nel tempo stesso audace per iniziative di nuovi impianti e di migliorie tecniche, e parsimoniosa nell’esercizio.

 

 

A bella posta tuttavia si adoperò sopra il modo condizionale: «saprebbe»,«dovrebbe sapere«, «potrebbe darsi». Nulla è meno sicuro che la autonomia delle aziende abbia virtù di produrre tali risultati benefici. Le ferrovie dello stato sono autonome e non c’è il più lontano indizio che esse siano, come si sperava, rette con criteri industriali e non politici. Il personale vi è esuberante, forse più che nelle amministrazioni ordinarie dello stato; vi è in esse spreco di stipendi, di treni elettorali, di prezzi politici pagati per il materiale, precisamente come se fossero rette da un ministero qualunque. Il consiglio di amministrazione è una lustra; ed il direttore generale deve ubbidire agli ordini del ministro e perdere il proprio tempo col sottosegretario di stato precisamente come fa un qualunque altro direttore generale. I deputati ficcano il naso nelle cose ferroviarie e fanno raccomandazioni, come in ogni altro ministero; traslochi e punizioni sono soggetti altresì ad influenze politiche.

 

 

Né si dica che così si fa, ma così non si dovrebbe fare. In politica «quel che si dovrebbe fare» è tutt’al più un tema per gli elettori, che gli oratori medesimi si mettono sotto i piedi appena ricevono una lettera da un grande elettore. È pura vanità vanitas vanitatum cianciare di servizi pubblici i quali «dovrebbero» essere geriti con criteri industriali. Se sul serio si vuole che un servizio sia industrializzato, diamolo agli industriali. Altrimenti è meglio rassegnarsi a che un qualunque servizio, con qualunque nome gerito dallo stato, sia condotto con criteri politici. Non esiste linea di mezzo.

 

 

Se si vuole che ferrovie, poste, telegrafi e telefoni siano geriti con criteri industriali, bisogna che il rischio della gestione, lucri e perdite, spetti ad industriali. Se a questa esigenza non si vuole ubbidire, è meglio non lasciarsi illudere da frasi come «autonomia», «servizio industriale», «abolizione dei ministeri». L’abolizione dei ministri potrebbe essere persino più dannosa che utile. Essendo fatale che i direttori dei servizi cosidetti autonomi ubbidiscano a criteri politici, accadrà che essi debbano ad ogni passo essere disturbati da un ministro dei lavori pubblici invece che da quello delle poste. Siccome il primo avrà, con questa aggiunta, moltissimo da fare – e già il dicastero dei lavori pubblici è uno dei più soggetti a pressioni politiche ed è per conseguenza laboriosissimo – forse l’unico effetto della soppressione sarà un arenamento maggiore dei servizi, un trascinarsi delle pratiche ed un peggiorare del disservizio.

 

 

Le osservazioni scritte sopra non vogliono dire affatto che sia impossibile industrializzare le poste, i telegrafi ed i telefoni e nel tempo stesso tutelare i diritti della collettività. La teoria e la pratica delle concessioni di servizi pubblici a privati esercenti hanno fatto in Italia ed all’estero tali progressi, che soluzioni pratiche tollerabilmente buone non è impossibile escogitare. I politici amano parlare di industrializzazione dei servizi pubblici; ma si guardano bene dal far ciò che ad industrializzare sul serio sarebbe necessario.

 

 

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