Opera Omnia Luigi Einaudi

La storia di una rivoluzione agraria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1927

La storia di una rivoluzione agraria

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1927, pp. 147-160

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 21-36

 

 

 

S. Pugliese: Produzione, salari e redditi in una regione risicola italiana. (Un vol. di pag. VIII-276, estratto degli «Annali di Economia» dell’Università Bocconi, Milano, 1926. Prezzo L. 35).

 

 

1. Or è quasi un ventennio, Salvatore Pugliese pubblicava[1], su le vicende agricole della regione vercellese dall’inizio del secolo XVIII ai primordi del secolo nostro, uno studio che l’A., nella prefazione al suo nuovo volume, ricorda avere incontrato «favorevole accoglienza fra i cultori della storia economica italiana, specialmente per la ragione che assai scarse, se pur non mancanti assolutamente, sono fra noi le ricerche su le variazioni nella produzione, il reddito ed il prezzo dei terreni, su le paghe agricole, i prezzi dei prodotti dei campi e delle merci in genere nei tempi andati». In verità questa prima ragione del plauso incontrato dal volume del Pugliese ha un gran peso; poiché, sospinto dall’esempio di celeberrime monumentali opere inglesi e francesi, egli erasi inoltrato, pioniere di un esercito di ricercatori, che poi non si vide arrivare, in un territorio quasi sconosciuto in Italia. Chi desideri consultare, senza lunghe dirette ricerche d’archivio, dati su prezzi, salari, profitti nei tempi andati, giuocoforza è che abbandoni per quasi tutte le regioni d’Italia per disperato la partita; ché, tra molti frammenti slegati, l’unica serie imponente la quale gli faccia travalicare i secoli è appunto questa apprestatagli dal Pugliese. Al quale però io voglio dire che egli sente troppo scarsamente di sé quando immagina che l’alta opinione in cui egli è tenuto dagli amatori di storie economiche, siano pure tanto pochi in Italia da contarsi sulle dita di una mano, debba attribuirsi soltanto alle sue qualità di pioniere. In verità, quando si apre un nuovo libro del Pugliese si è sicuri di leggervi una storia di vicende quali realmente furono, disposta secondo gli schemi che gli uomini del tempo realmente vissero nel loro tempo e non secondo quelli che i ricercatori d’oggi immaginano doversi usare. Pugliese vede bensì i fatti economici coll’occhio dell’economista ed, aggiungasi pure, dell’economista persuaso – i due concetti non sono necessariamente inseparabili – che l’istituto della proprietà privata, l’ordine giuridico moderno e lo spirito di libera iniziativa hanno fatto la grandezza economica della sua terra. Ma la qualità di economista non lo consiglia a fare la storia della rendita ricardiana in un paese dove questa è sempre stata unita alla quasi rendita dei capitali stabilmente investiti nei terreni; bensì a studiare i «fitti» dei terreni, che comprendono amendue gli elementi e talvolta qualche cosa d’altro ancora. Egli non pensa neppure per un istante a risolvere la questione della incidenza delle imposte, sia quelle cadenti sulla terra, come le altre gravanti sull’industria agricola; ma, riflettendo che in ogni caso le imposte sono qualcosa che non rimane in tasca agli altri partecipanti, perché sono pagate allo Stato, le deduce dai redditi dominicali, di conduzione e della mano d’opera e ci da questi netti da tutte le spese, comprese le imposte. Il che vuoi dire che egli non si lascia sopraffare dalle esigenze tradizionali, a cui cedono abbastanza spesso gli economisti professionali e, per cercar la verità, non si fa schiavo degli strumenti di lavoro, i quali sono utilissimi nella ricerca, a patto di abbandonarli senz’altro quando disturbano lo studioso coll’indirizzarlo a cercar notizie inesistenti ed impossibili a fabbricarsi. Non essendo professore, né aspirando a diventarlo, ma appartenendo alla specie, rarissima tra noi, degli studiosi privati, i quali degnamente occupano i loro ozi in ricerche faticose mosse soltanto dal desiderio di sapere e coronate dal piacere del ritrovamento, il Pugliese non ci annoia con premesse metodologiche, con comparazioni internazionali, con prediche solenni sull’importanza teorica dei risultati a cui egli giunge nelle sue indagini. Il suo libro risulta, perciò appunto che non è stato scritto per diventarlo, un modello di metodo, ed un sostanzioso contributo a feconde deduzioni generali.

 

 

2. – Il territorio da lui studiato è il vercellese, nei suoi confini ben noti, con le sue caratteristiche proprie, inconfondibili con quelle di qualunque altra regione italiana. Nel paese, che egli conosce a palmo a palmo, nel presente volume egli continua, per i primi venticinque anni del secolo XX, lo studio condotto per i secoli XVII e XIX nel volume precedente. Racconta, perciò, fatti che ciascuno di noi, avendoli vissuti nel campo della nostra personale esperienza, suppone di conoscere, finché, volendoli mettere in carta, ci si accorge di incontrare difficoltà quasi incredibili solo ad appurarli. Talvolta, a ripensarci, mi viene il dubbio che questo nostro tempo della carta stampata, degli uffici di statistica, delle inchieste quotidiane finisca, per tanti aspetti della vita economica e sociale, a dover essere, come accadeva per le vecchie carte geografiche del centro dell’Africa, contraddistinto con la leggenda: hic sunt leones. Se in ogni regione agricola italiana non sorgeranno presto altri Pugliese a raccogliere dati, prima che siano distrutti, quasi fossero carte inutili, i documenti che li contengono, ad interrogare gli uomini periti nelle faccende agricole ed industriali, prima che siano morti, v’e gran pericolo che un’epoca di straordinari rivolgimenti economici e sociali come la nostra, sia travolta nell’oblio senza lasciare quasi alcuna o troppo scarsa notizia di sé.

 

 

3. – Che la nostra sia stata un’epoca memorabile per mutazioni sociali ed economiche profonde, il lettore dell’odierno saggio del Pugliese agevolmente impara senza uopo di riandare il vecchio volume; perché A. ha, in ogni capitolo, riassunto, a guisa di introduzione, storica, le vicende accadute dal 1700 al 1900; sicché più viva è la impressione del lento procedere dei mutamenti nei tempi andati e del rapido andare delle cose contemporanee.

 

 

4. – Due secoli, dal 1700 al 1900, non erano in verità passati senza avvantaggiare alquanto il contadino vercellese; ma come poco mutata era la vita che egli conduceva al principio del nostro secolo da quella che gli sarebbe toccata in sorte all’aprirsi del 1700! Il Pugliese ha calcolato quanto dovesse spendere per una vita frugalissima il lavoratore avventizio del vercellese nel primo quinquennio del secolo presente: una camera, 25 litri di petrolio all’anno per illuminazione, 30 lire di legna, 10 lire per rinnovamento mobilio e suppellettili, 92 chilogrammi di granoturco per farsi il pane in casa durante otto mesi e mezzo chilo al giorno di pane di frumento per i quattro mesi di lavoro più faticoso, 60 grammi di pasta e 100 grammi di riso al giorno, 30 grammi di fagioli, 100 grammi di farina di granoturco per la polenta giornaliera, 150 grammi di verdure diverse, 40 grammi di lardo, 10 grammi di merluzzo e 20 di salame crudo al giorno, 10 chilogrammi di sale all’anno, mezzo chilo di carne di manzo per settimana e mezzo litro di vino, pure per settimana, un quinto di litro di latte al giorno, alcune dozzine di uova e alquanti chilogrammi di rane, un abito completo di tela del valore di 14 lire, una giubba di tela da 4 lire, un vestito di panno da 35 lire, da far durare tre anni, biancheria, scarpe, zoccoli e cappelli per lire 20,50 all’anno, ferri del mestiere per 18 lire. La spesa necessaria alla vita risultava così di lire 366,69, le quali, messe a confronto con il guadagno annuo di lire 471,45, lasciavano un margine di appena lire 104,75 per tutti gli altri molteplici bisogni della vita, quali il mantenimento dei bambini incapaci di qualsiasi lavoro, le malattie, i funerali, i matrimoni, i battesimi, l’acquisto di nuove suppellettili di casa, ecc., ecc.

 

 

A ripensarci, non pare neppure immaginabile oggi che un uomo potesse vivere con quelle 471 lire e provvedere anche alla sua media quota di carico per persone di famiglia incapaci a lavorare; sicché appare ovvia la conclusione del Pugliese: «L’esistenza talmente ristretta, che il rurale era per tal ragione obbligato a condurre, agiva sinistramente su le sue facoltà  fisiche ed anche intellettuali, costringendo le famiglie a ritirare i fanciulli dalle scuole obbligatorie, appena fosse possibile, onde adibirli a lavori proficui, e distogliendo gli adulti dall’acquisto di qualsiasi libro o giornale, salvo forse quelli di propaganda socialista. Onde le loro menti ottuse e tarde non si aprivano che ad idee sempliciste di appropriazione violenta del suolo e simili; né mancava questa miseria cronica di agire anche sul morale, ottenebrando gli affetti famigliari, di maniera che un malato cronico ed un vecchio incapace di guadagno erano spesso considerati come un inutile peso».

 

 

5. – Eppure le condizioni del contadino erano state, a tratti, anche peggiori che non fossero in quel primo quinquennio del nuovo secolo. Il Pugliese ha calcolato quali fossero per il lavoratore avventizio, di periodo in periodo dal 1700 in poi, i guadagni annui in lire nominali, quale la spesa necessaria, ai prezzi di volta in volta correnti, fatta l’ipotesi che il contadino facesse gli stessi consumi sopra supposti per il 1901-1905 e quale margine disponibile rimanesse per le altre spese ed i risultati dei suoi calcoli sono qui di seguito riassunti:

 

 

Periodo

Guadagno annuo di un avventizio

Spesa annua necessaria

Margine disponibile per le altre spese

Proporzione del margine disponibile alla spesa necessaria

 

Lire

Lire

Lire

%

1701-1705

258,74

208,74

+ 50 –

+ 24

1706-1710

284,85

236,42

+ 48,43

+ 20

1711-1720

237,38

197,89

+39,49

+ 20

1721-1730

213,65

182,89

+ 30,76

+ 17

1731-1740

235,01

196,44

+ 38,57

+ 20

1741-1750

221,10

1751-1760

218,46

1761-1770

225,51

217,78

+ 7,73

+ 4

1771-1780

244,50

241,77

+ 2,73

+ 1

1781-1793

246,88

253,92

– 7,04

– 3

1794-1802

410,67

448,09

– 37,42

– 8

1803-1810

299,10

283,20

+ 15,90

+ 6

1811-1820

309,76

311,43

– 1,67

– 1

1821-1830

275,36

271,16

+ 4,20

+ 2

1831-1840

346,57

290 –

+ 56,57

+19

1861-1870

462,89

350,96

111,93

+ 32

1871-1880

524,61

399,79

+ 124,82

+ 31

1881-1890

442,71

354,60

+ 88,11

+ 25

1891-1900

452,20

335,60

+ 116,60

+ 35

1901-1905

471,75

366,69

+ 104,75

+ 29

 

 

Poiché le prime colonne contengono cifre espresse in moneta nominale di variabile potenza d’acquisto la colonna più significativa è l’ultima, la quale ci dice quale fosse la proporzione del margine disponibile alla somma necessaria per far fronte alla spesa di una vita vegetativa frugalissima.

 

 

La seconda metà del secolo 18esimo ed il primo tempo del secolo 19esimo appaiono essere state le epoche nelle quali fu peggiore la sorte del contadino. Il crescere della popolazione (da 63.000 nel 1752 gli abitanti della regione passano a 78.000 vent’anni più tardi ed a 91.000 nel 1802) non compensato da miglioramenti agricoli e da sviluppo industriale, le guerre del tempo rivoluzionario e napoleonico, lo svilimento della carta moneta ed il rialzo dei prezzi spiegano le condizioni di atroce miseria delle classi lavoratrici fino al 1802. Nell’epoca napoleonica (1803-1810) si risvegliano le industria e, sotto lo stimolo degli alti prezzi determinati dal blocco continentale, anche l’agricoltura migliora; e ai contadini è dato riavere un margine disponibile. Colla restaurazione (1811-1830) il tracollo dei prezzi ed il ristagno dell’agricoltura riducono nuovamente i salari reali, finché a poco a poco, dopo il 1830, coll’inizio dei lavori di miglioria del suolo e con l’intensificazione delle culture, riprende il progresso nella rimunerazione reale dei lavoratori. L’età dell’oro, durante i due secoli, è il decennio che volse dal 1891 al 1900, quando il margine disponibile sale al 35 % della spesa necessaria.

 

 

Fu allora toccato il massimo dei salari reali in quasi tutti i paesi del mondo, quando, rincarando l’oro e riducendosi verso il 1896 al minimo i prezzi, i salari nominali tuttavia resistevano alla discesa. Col nuovo secolo, l’onda ciclica monetaria risale; l’oro uscito dalle miniere sud africane arriva sui mercati mondiali e, per la sua abbondanza, perdendo pregio, fa risalire i prezzi. Ma i salari non giungono subito a tenere dietro al rialzo dei prezzi; ed il margine disponibile si riduce nel 1901-1905 al 29 % della spesa necessaria, poco più di quanto era già nel momento (1701-1706) da cui l’indagine statistica aveva preso le mosse.

 

 

6. – Se il nuovo secolo si annunziava così sotto auspici monetari non buoni per i lavoratori, il vigoreggiare di nuove forze e di nuovi sentimenti sociali ed i meravigliosi progressi tecnici prima ed il ribollimento sentimentale poscia della guerra, con un vigoroso colpo di timone, raddrizzano ben presto la curva dei salari reali, la quale minacciava di abbassarsi.

 

 

L’ingrossamento vertiginoso delle cifre monetarie non deve, è vero, trarre in inganno; ma le percentuali dell’ultima colonna nella seguente tabella, relativa al primo quarto del secolo 20esimo, dicono chiaramente che già nell’ante – guerra, il margine disponibile aveva superato la metà della spesa necessaria: frutto questo delle agitazioni operaie, del nuovo spirito di organizzazione, della insofferenza all’antica miseria fomentata dalla predicazione socialistica, e delle migliorie tecniche che, sotto la pressione dei salari crescenti, gli agricoltori avevano dovuto introdurre nella lavorazione della terra. Dopo una breve flessione nei primi tempi della guerra, il movimento di ascesa continua ininterrotto, finché nel 1921 il margine disponibile giunge all’85 % e nel 1925 al 113 % della spesa necessaria a serbare un tenor di vita uguale a quello usato al principio del secolo presente. Il tenor di vita, quasi stazionario, attraverso non profonde oscillazioni, per due secoli, è dunque grandemente migliorato nei primi venticinque anni del secolo nuovo.

 

 

Abbandonato il pane di granoturco fatto in casa; accresciuto il consumo della carne, delle uova, delle rane e delle carpe di risaia; il salariato trae dalle ore libere, per l’orario diminuito, qualche agevolezza per una certa indipendenza di vita: affitto dell’orto per la produzione della verdura, allevamento del maiale e delle galline per consumo diretto famigliare. Una famiglia di cinque persone, di cui il padre e il figlio godano della pienezza delle loro forze, e la madre e la figlia abbiano occasione parziale di lavoro, dispone nel 1925 di un bilancio di entrata di 17.646,15 lire. La spesa del vitto, calcolata con una certa larghezza (4268 calorie al giorno e per unità  famigliare)

 

 

Periodo

Guadagno annuo di un avventizio

Spesa annua necessaria

Margine disponibile per le altre spese

Proporzione del margine disponibile alla spesa necessaria

Lire

Lire

Lire

%

1901-1905

401,75

366,69

104,76

29

1906-1910

609,10

392,37

216,73

55

1911-1913

688,92

453,01

235,91

52

1914-1915

694,42

487,87

206,55

40

1916

1166,10

695,65

470,45

68

1917

1399,65

853,07

546,58

65

1918

2207,15

1388,62

818,53

59

1919

2485,75

1389,06

1096,69

79

1920

2926,61

1842,97

1083,64

59

1921

4010,20

2166,96

1843,24

85

1922

4052,85

2202,87

1849,98

84

1923

4172,20

2148,83

2023,37

94

1924

4547,25

2325,64

2221,61

95

1925

5678,45

2665,97

3012,48

113

 

 

e con una dieta sana e variata, assorbe lire 8996,30; quella per l’abitazione, l’illuminazione, il combustibile, i ferri del mestiere lire 2282,90, e la spesa per il vestito 2587 lire. In totale le spese necessarie toccano le 13.866,20 lire, lasciando un margine di lire 3779,95, variamente adoperato a seconda delle inclinazioni famigliari: scarsamente a procacciare una casa ampia, aerata e pulita; talvolta consacrato ad eccessi di vino o di vestiti, non di rado a risparmio. I piccoli depositanti presso la cassa di risparmio di Vercelli crescono da 4686 nel 1900 a 6177 nel 1906, e, dopo riduzioni saltuarie tra il 1907 ed il 1915 (5333 depositanti) nuovamente a 6815 nel 1924. Cresce sovrattutto l’investimento del risparmio contadino nella terra: in 14 villaggi per cui fu possibile risalire indietro coi calcoli, di una superficie complessiva di 28.970 ettari, superiore al quarto del territorio studiato, il numero dei proprietari aumenta da 1 per ogni 8,6 abitanti nel 1860 ad 1 ogni 8,1 nel 1905 e ad 1 ogni 6,8 nel 1925. Se anzi si esclude dal computo la città di Vercelli, e si aumenta il numero dei comuni considerati, giungiamo alla percentuale di 1 proprietario ogni 2,7 abitanti. Nei 14 villaggi il frazionamento della totale superficie censita tra le diverse classi di proprietari procede rapido:

 

 

 

1740-1780

1905

1925

Superficie posseduta da proprietari di:

– 1 giornata (ettari 0,38)

0,4

1,9

1,9

da 1 a 5 giornate (da ettari 0,38 a 1,90)

3,4

9 –

10,8

da 5 a 10 giornate (da ettari 1,90 a 3,81)

3,7

7 –

7,8

da 10 a 30 giornate (da ettari 3,81 a 11,43)

9,2

11,1

12,8

da 30 a 100 giornate (da ettari 11,43 a 38,10)

18,3

20,2

17,2

da 100 a 500 giornate (da ettari 38,10 a 190,52)

38,9

33,4

30,4

+ di 500 giornate (+ di ettari 190,52)

26,1

17,4

19,1

 

100 –

100 –

100 –

 

 

Cresce la percentuale della terra posseduta da piccolissimi e piccoli proprietari fino a 10 giornate piemontesi (3.810 mq. l’una); cresce anche quella dei mediocri, da 10 a 30 giornate; ma diminuisce la percentuale dei medi proprietari, da 30 a 100 giornate, e più ancora quella tenuta dai grandi proprietari, sopra alle 100 giornate. Laddove la popolazione, alle tre date e nei 14 comuni considerati, cresceva da 19.887 a 48.879 e a 56.511 abitanti, il numero dei proprietari aumentava più che proporzionatamente, da 2.681 a 5.634 ed a 8.263.

 

 

7. – Il miglioramento nelle condizioni dei lavoratori è forse dovuto ad una decurtazione dei redditi dei proprietari e dei profitti dei conduttori dei terreni? Arduo problema, che il Pugliese illumina con abbondanza di dati. Una serie continuativa dei profitti dei conduttori di terreni per i due secoli 18esimo e 19esimo non fu potuta costruire; ma l’andamento di essi può ritenersi correlativo al fitti che i conduttori sono disposti a pagare ai proprietari. Facendo uguale a 100 i fitti medi pagati nel 1709-1719, i numeri indici dei canoni di affitto si muovono nel modo seguente:

 

 

1709-1719

100

1841

447

1734-1736

135

1851

544

1745-1756

170

1861

648

1787-1794

270

1871

886

1805-1810

313

1881

1249

1813-1815

416

1891

910

1817-1823

322

1901

914

1825-1831

313

1906

1080

 

 

Dove ai numeri indici 100 e 1.080 ai due estremi possiamo sostituire i valori di lire 11,75 per ettaro per il decennio 1709-1719, di lire 167,57 nel 1901 e di lire 197,78 nel 1906. Tranquillità pubblica, buon governo, saggia finanza, riduzione e perequazione dei carichi, accrescimento di oltre la metà nella popolazione ed aumento nel prezzo dei prodotti agricoli spiegano come il reddito dominicale dei terreni fosse aumentato, alla vigilia delle guerre rivoluzionarie, del 170% in confronto agli anni immediatamente seguenti alla battaglia di Torino (1706). Alla restaurazione segue un periodo di stazionarietà, dovuto sovrattutto al rincaro dell’oro ed al generale ribasso dei prezzi; e solo verso il 1831 ricomincia l’ascesa che continua ininterrotta fino al 1881. In piccola parte dovuto all’aumento generale dei prezzi, l’aumento dei fitti è sovrattutto la conseguenza dell’incremento nella produzione unitaria dei terreni, dell’aumento della produzione, della tranquillità  politica, della mancanza di guerre lunghe e costose. Come in tutti i paesi del mondo, la curva discendente dei prezzi dovuta al rincarare dell’oro fa diminuire i fitti sino verso il 1896 e solo dopo comincia una lenta ripresa, la quale non li aveva ancora nel 1906 riportati al livello del 1881. Infierisce la crisi agricola, i fittabili soffrono gravi perdite, e parecchi di essi debbono abbandonare i fondi, rinunciando alle scorte e ridursi a manovali. Solo gli anni in cui il margine disponibile dei lavoratori avventizi, cresciuto al 32 ed al 31% della spesa necessaria nel 1861-1870 e nel 1871-1880, si riduce al 25 per cento, suppergiù quant’era nel 1701-1705.

 

 

8. – La guerra muta profondamente l’assetto agricolo della regione ed i fitti subiscono interessanti variazioni, che si riassumono nella tabella a pagina seguente.

 

 

La serie di dati non corretti si riferisce ai canoni che si dovevano pagare nei relativi anni, senza alcun riguardo all’epoca in cui la locazione era stata stipulata ed iniziata. Tal metodo, se poteva essere senza errore accolto in tempi statici, male si presta a raffigurare momenti di brusche e forti variazioni di anno in anno, quale fu già il periodo rivoluzionario verso la fine del secolo 18esimo, quello di crisi verso il 1890 e specialmente il decennio 1915-1924 nel quale il mercato delle locazioni dei terreni fu influenzato così potentemente e rapidamente dagli eventi politici e sociali e dalle alterazioni della moneta e perciò da bruschi salti nei prezzi, nelle mercedi, nelle spese di costruzione e nei profitti dei conduttori.

 

 

Il Pugliese, con accorto procedimento, ha cercato di eliminare l’errore ed ha dato, nella serie corretta, cifre dei fitti alle quali si può presumere si affittassero comunemente in ciascun anno i fondi di media estensione nel vercellese. Non ha potuto, non potendo allontanarsi dai dati reali, eliminare taluni bruschi salti, come quelli del 1907, del 1916 e del 1924, dipendenti da singoli contratti dominati da particolari circostanze; ma nel complesso la serie raffigura bene la mobile realtà degli anni ultimi. La verità è che se i fitti in lire-carta sono, tra i punti estremi, cresciuti da 1 a 7, i fitti in lire-oro sono aumentati appena del 50% e quelli in natura (quintali di risone) sono rimasti stazionari ed anzi appaiono scemati gli uni e gli altri quando il paragone si faccia tra il momento presente e gli anni immediatamente precedenti alla guerra.

 

 

Anno

IN LIRE-CARTA

Corretti in lire-oro

Corretti in quintali di risone

  corretti non corretti    

1900

178,94

1901

177,89

181,27

181,27

9,54

1902

1903

199,31

199,31

8,33

1904

209,39

209,39

10,85

1905

210,21

210,21

10,97

1906

200,40

222,54

222,54

10,98

1907

320,13

320,13

15,58

1908

221,09

221,09

9,59

1909

203,33

202,88

8,28

1910

212,73

211,56

8,46

1911

220,67

1912

290,94

287,71

11,80

1913

297,48

292,36

11,66

1914

296,08

292,31

12,13

1915

325,16

272,19

13,63

1916

270,27

376,03

295,57

14,71

1917

296,92

196,42

9,79

1918

288,41

197,62

6,17

1919

396,94

214,41

7,03

1920

509,55

120,13

7,01

1921

367,79

628,69

144,67

6,31

1922

681,97

168,86

6,03

1923

975,92

228,64

8,83

1924

602,69

1248,65

278,37

9,77

Canoni di fitto in risone

1922

1461 –

361,63

13    –

1923

1738 –

407,02

15,72

1924

2681 –

597,70

21   –

1925

3730 –

769,07

23,60

 

 

I risultati apparirebbero migliori, se invece di canoni di affitti in denaro, si fosse tenuto conto delle contrattazioni in base di un dato numero di quintali di risone per ogni ettaro, metodo il quale acquista ogni giorno più maggior simpatia perché sottrae conduttori e proprietari all’alea delle contrattazioni monetarie. Su questa base già nel 1922 non erano infrequenti gli affitti dei buoni poderi a quintali 13 di risone originario, che al valore corrente in quell’anno equivalevano a lire 1.461 per ettaro, in luogo delle 681,97 lire degli affitti in denaro; e nel 1925 si raggiungono i quintali 23,60 per ettaro, canone che se appare, per la sua elevatezza, precario, è buon indice della fiducia con la quale i fittaiuoli guardano all’avvenire dell’industria agraria.

 

 

9. – A risolvere il quesito delle variazioni comparative delle quote spettanti ai proprietari ed ai conduttori in confronto a quella che tocca ai lavoratori, giova tener conto delle variazioni dei prezzi dei terreni. Ecco il prezzo medio di un ettaro di terreno a seminativo nel vercellese:

 

 

1701-1717

342,72

1871-1880

  4.514,45

1751-1760

752,80

1901-1905

  4.600   –

1781-1790

1250,18

1913

  5.000

1807-1810

977,90

1920

11.000   – (2700)

1811-1815

1085,43

1923

13.000   – (2940)

1831-1840

1684,76

1924

20.000   – (4450)

1855-1865

2411,01

1925

30.000   – (6185)

 

 

Le cifre tra parentesi indicano i valori in lire-oro corrispondenti ai valori in lire-carta. Se si riflette che i valori-oro odierni, per il ribasso nella potenza di acquisto dell’oro verificatosi dopo il 1914, non sono paragonabili ai valori-oro ante-bellici, pare potersi dedurre che i prezzi dei terreni, pur essendo cresciuti notevolmente il lire-carta, sono cresciuti meno dei canoni di fitto. I conduttori hanno con la stipulazione dei canoni in natura (risone o grano), trovato modo di sottrarsi al rischio delle oscillazioni della moneta e sono disposti a pagare perciò canoni elevati e corrispondenti alla produttività dei fondi; i compratori temono invece di pagare prezzi in lire-carta talmente forti che, con la rivalutazione della lira, li carichino di troppi forti oneri per interessi passivi e non osano spingersi tanto quanto sarebbe consentito dai canoni di affitto in natura.

 

 

10. – Devesi dunque concludere che il solo avvantaggiato delle mutazioni intervenute dopo la guerra sia il lavoratore, il cui tenor di vita sarebbe notevolmente migliorato, laddove i fitti riscossi dai proprietari e probabilmente i profitti dei fittaioli sarebbero rimasti stazionari ed i prezzi di vendita dei terreni, ove si faccia il paragone tra la moneta della medesima potenza di acquisto, sarebbero persino diminuiti? Forse una risposta si può dare riassumendo, nella tabella della pagina seguente, i risultati per il 1912 e per il 1924-1925 della gestione di un grosso fondo che il Pugliese ha analizzato con dovizia di particolari.

 

 

Tra le «spese generali» vanno noverate tutte le spese pagate a persone le quali non partecipano direttamente alla gestione del fondo: interessi dei capitali circolanti (scorte vive e morte, anticipazioni salari, sementi, concimi, ecc.), manutenzione ed ammortamento delle scorte, assicurazioni e rischi incendi e grandine, manutenzione dei fabbricati, acquisto di acque, mangimi, sementi, concimi, ecc.

 

 

Il confronto tra l’ante guerra (1912) e il dopo guerra (1924-1925) si può fare supponendo che siano rimasti invariati i metodi di conduzioni, ovvero che questi siano stati modificati. La prima ipotesi si avvera per quella parte dei fittaioli, forse la maggior parte, la quale è spinta ad adottare i nuovi metodi culturali dell’esempio altrui, e sovrattutto dal danno patito col rimanere attaccata alle consuetudini antiche.

 

 

 

1912

1924-1925

Valori assoluti

 

Valori percentuali

Con metodi di conduzione

inalterati in confronto del 1912

modificati

Valori assoluti

Valori percetuali

Valori assoluti

Valori percentuali

 

Lire

%

Lire

%

Lire

%

Spese generali del proprietario e del conduttore………………..

72.325

31,1

480.127

28,4

472.267

24,3

Reddito dominicale……

34.109

14,6

451.525

26,7

451.525

23,3

Profitto del fittaiolo…….

48.445

20,8

179.078

10,6

465,934

24,2

Salari dei lavoratori……

63.510

27,3

445.970

26,4

417.575

21,5

Imposte pagate agli enti pubblici………………

14.375

6,2

132.755

7,9

132.756

6,7

Totale

232.764

100 –

1.689.455

100 –

1.940.057

100 –

 

 

Che il pericolo di danno e forse di rovina per il fittaiolo insonnolito sia grave è manifesto dalla diminuzione dal 20,8% al 10,6% della quota spettantegli nella ripartizione del prodotto totale. Cotesti fittaioli, spinti dalla concorrenza di quelli più progrediti, debbono pagare ai proprietari un fitto che assorbe il 26,7% del prodotto; e non possono sottrarsi all’aumento dei salari, il quale, nonostante essi con l’uso di qualche macchinario e di buone pratiche agricole si industrino a diminuire il numero dei lavoratori impiegati, impedisce che essi riducano notabilmente la quota spettante al lavoro (26,4%). Le richieste del fisco si fanno più assillanti (7,9% del prodotto totale) e cadono indifferentemente su tutti gli agricoltori, buoni o cattivi che siano. La possibilità  per l’agricoltore medio di resistere sta nel mantenimento dell’alto livello dei prezzi toccato nel 1925. Se i prezzi del risone scemano – e scemarono di fatto nel 1926 – il profitto può scomparire d’un tratto e convertirsi in perdita. Qualche caso di perdita essendosi oggi verificato, si odono già alte lagnanze di fittaioli contro il caro della terra, ossia contro la propria imprevidenza ad impegnarsi per fitti eccessivi in moneta, e si invocano dal governo provvedimenti i quali consentano di autorità  revisioni dei canoni stipulati in tempi più ottimisti.

 

 

Contro la minaccia di rovina non vi è che un rimedio: modificare i metodi di cultura. In primo luogo si abbandonano del tutto le pattuizioni di canoni in denaro, sostituendoli con canoni in derrate, sì da sottrarsi all’alea di un ribasso di prezzi e, correlativamente, far partecipare il proprietario al vantaggio di un eventuale rialzo dei prezzi. In secondo luogo si estende l’uso del macchinario, per arare il suolo, per le semine, per il taglio e la stagionatura dei fieni, per il trasporto del raccolto, per l’essiccazione del riso. Si costruiscono silos, i quali consentono di fornire per tutto l’anno erba fresca al bestiame lattifero; si utilizza metà della superficie destinata a risaia con la carpicultura, la quale fornisce un cospicuo reddito diretto e un non indifferente vantaggio indiretto, per la più facile distruzione di alghe, di erbe nocive al riso e di larve di zanzara, di cui si nutrono le carpe. Sovrattuto il trapianto del riso promette una feconda rivoluzione agraria, lasciando disponibili per altre produzioni primaverili quasi nove decimi del suolo, che sarà poi occupato dal riso, seminato dapprima in vivaio e di qui trapiantato sulla superficie definitiva solo nel mese di giugno. Nell’intervallo tra l’inverno ed il giugno, l’agricoltore assiduo ottiene raccolti suppletivi di colza, di segale, di frumento primaticcio, ma per lo più di foraggi come il trifoglio o il pagliettone, seminati appena mietuto il riso. Cresce, coi nuovi metodi, il capitale impiegato, ma scema la spesa di mano d’opera e aumenta il prodotto; sicché rimanendo invariate, in cifra assoluta e scemando in percentuale, le quote destinate al proprietario

(reddito dominicale) e al fisco (imposte), il profitto del fittaiolo può aumentare al 24,2% del prodotto totale.

 

 

11. – La quale vicenda può, altrimenti, esporsi così, facendo uguali ad 1 le quote del 1912:

 

 

 

 

1912

1924-1925

Metodi di conduzione

inalterati

modificati

Spese generali…………………………….

1

6,64

6,53

Reddito dominicale……………………….

1

13,23

13,23

Profitto del fittaiolo………………………..

1

3,69

9,61

Salari dei lavoratori……………………….

1

7,02

6,57

Imposte agli enti pubblici……………….

1

9,23

9,23

Prodotto totale

1

7,26

8,33

 

 

In una economia agraria a lenta trasformazione si avvantaggia soprattutto il reddito spettante alla proprietà fondiaria, laddove il fittaiolo tardigrado è punito con un reddito nominale rimasto al disotto della metà del livello a cui avrebbe dovuto giungere per tener dietro all’aumento del prodotto. Solo in una economia progressiva lo squilibrio può essere eliminato; e senza danno delle altre classi sociali, anche l’organizzatore dell’impresa agraria (fittaiolo) ottiene una quota adeguata del cresciuto prodotto totale. Appare scemata la quota spettante ai lavoratori; ma fu già  dimostrato che, grazie al risparmio nell’uso della mano d’opera, i rimasti conducono una vita assai più degna d’un tempo.

 

 

Ma neppure lo schema dell’azienda agraria a metodi modificati di conduzione è vero specchio della realtà. La quale cangia di continuo sicché i tentativi di coglierne l’attimo fuggente quasi si palesano vani. È chiaro che neppure l’equilibrio raggiunto nel sistema «modificato» è stabile, poiché suppone che si possano tuttora vendere i prodotti agrari ai prezzi correnti quando i metodi culturali sono diversi e più imperfetti, e che i lavoratori si stiano contenti alle paghe odierne, solo perché tanto migliori di quelle dei primi anni del secolo. Ambe le supposizioni sono infondate; essendo invece probabile che, crescendo la produzione i prezzi debbano scemare; né essendo frenabile la tendenza dei lavoratori ad elevarsi nella scala sociale ed a voler godere maggior copia dei beni della vita. Il fittavolo dovrà nuovamente, in primo tempo, rassegnarsi a veder decurtati i suoi profitti e, se vorrà  conservare profitti uguali, in ragione della diversità del metro monetario, a quelli antichi, dovrà ogni giorno far nuovi sforzi di abilità  e di intraprendenza sì da strappare alla natura restia un largo compenso, pur dando remunerazioni crescenti agli altri partecipanti al prodotto comune.

 

 

12. – Negli anni di guerra, il profitto del fittaiolo non fu sempre compenso di intelligenza e di intraprendenza. Lo svilimento della moneta – fatto del Principe – diede al fittaiolo, forte di un contratto a scadenza fissa, il mezzo di arricchirsi a danno del proprietario. Il Pugliese narra di un fondo affittato a partire dal 1917 per un canone fisso di lire 18.988, che poté, essendo il contratto anteriore al giugno 1918, godere degli aumenti legali concessi dal legislatore a compenso dello svilimento monetario e fruttare al proprietario un reddito netto da spese ed imposte variabili da un minimo di 10.324 lire nel 1922 ad un massimo di 38.500 nel 1924. Se lo stesso fondo fosse stato affittato poco dopo la data del 30 giugno 1918, il proprietario non avrebbe avuto diritto ad alcun aumento legale, ed il reddito netto, pur calcolando il canone di fitto a 22.000 lire, sarebbe stato, sulle stesse basi di spese e tributi, di 6.674 lire al minimo nel 1922 e di 10.812 lire al massimo nel 1924. Finalmente se l’affitto si fosse concluso nel 1923 per il novennio 1924-1933 in base a 19 quintali di risone per ettaro, come allora si usava, il reddito netto sarebbe stato di colpo a 160.209 lire all’anno. All’impoverimento, maggiore o minore, del proprietario in conseguenza del rinvio imprevisto della moneta corrisponde dunque un arricchimento del fittaiolo, il quale, senza alcun merito, lucrò per tant’anni una quota del reddito che sarebbe spettato, quando i contratti, in tempi di moneta stabile, secondavano il libero gioco delle forze economiche, al proprietario.

 

 

Il volume del Pugliese offre un vivace quadro, a chi sappia leggere entro le tabelle da lui con storica rigorosità costrutte, della tragedia agraria dell’ultimo decennio. Il contratto di fitto a lunga scadenza, il quale aveva per un secolo, dopo la rivoluzione, regolato i rapporti lentamente mutabili e divenuti quasi consuetudinari tra proprietari e fittaioli, è lo strumento involontario di questa tragedia. Antiche famiglie, proprietari secolari si veggono dal contratto privati senza pietà  del loro reddito a beneficio dei fittaioli. Se essi non sanno resistere alla tormenta, se essi non hanno riserve capaci di fronteggiare il pagamento dell’imposta patrimoniale e di eventuali interessi passivi, se il capo di famiglia è morto e la vedova ed i figli minorenni non hanno redditi personali, debbono vendere il fondo avito e venderlo male, perché gravato per lunghi anni dalla servitù di un contratto stipulato per un canone derisorio in moneta svilita. Per lo più il fondo è venduto agli antichi fittabili, gente nuova, più dura coi dipendenti, forse meglio capace a trarre dalla terra il massimo rendimento. Gli storici diranno se la tragedia non sia accaduta invano; se a troppo caro prezzo, colla distruzione di ceti vecchi, di cultura raffinata, di esperienza amministrativa e politica saggiata alla cote del tempo, non si sia ottenuta la vittoria delle nuove fresche vigorose classi proprietarie ed imprenditrici. Noi, contemporanei e testimoni, non sempre consapevoli, dobbiamo essere grati all’autore di avere fissate su carta, con rigore di storico e con acume di economista, i tratti caratteristici e le appassionate vicende della grandiosa tragedia.



[1] Salvatore Pugliese, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel vercellese nei secoli XVIII e XIX. (Un vol. in 4 di pag. V-433-71. Torino, Bocca, 1908).

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