Opera Omnia Luigi Einaudi

La tassa di famiglia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/12/1908

La tassa di famiglia

«Corriere della sera», 10 dicembre 1908

 

 

 

A chi voglia giudicare serenamente dal punto di vista scientifico, il progetto di tassa di famiglia elaborato dalla Giunta municipale di Milano fa ottima impressionante. Certo il compito di istituire nuove imposte è una necessità spiacevole ed impopolare: ma data la urgenza di provvedere a servizi pubblici che la cittadinanza milanese riteneva utili, la Giunta ha scelto il partito migliore, che è quello di istituire un tributo che sia pagato dalla maggior parte di coloro che pagare possono ed in relazione alla loro capacità contributiva. Quando il progetto della Giunta fosse ritoccato in taluni punti, il tipo di tassa di famiglia istituita a Milano sarebbe forse il migliore fra quanti si conoscono in Italia.

 

 

Queste poche linee sono scritte appunto per indicare quei pochi ritocchi che accrescerebbero pregio al disegno lodevolmente preparato dall’egregio assessore per le finanze milanesi.

 

 

  • 1. – Un appunto, che fu messo innanzi dal collega prof. Gobbi in un lucido articolo della «Perseveranza», si riferisce all’andamento irregolare dell’aliquota. Rinviando per maggiori particolari alla dimostrazione precisa del Gobbi, noterò solo come il saggio dell’incremento dell’aliquota (non l’aliquota) sia sovrattutto elevato per i redditi dalle 9000 alle 10.000, mentre si conserva più tenue prima e dopo. Sarebbe giusto togliere questa discrepanza, per non aggravare troppo i redditi medi e rendere l’incremento dell’aliquota più uniforme. Come pure non si capisce bene il motivo per cui l’imposta divenga fissa (3000 lire) per i redditi al disopra delle 80.000 lire, cosicché pagheranno l’identica somma tanto chi abbia un reddito di 80 mila quanto chi abbia un reddito di 500.000 lire. Poiché è d’uopo ottenere un decreto reale per sorpassare il massimo di L. 500 fissato dal regolamento della provincia, sarebbe equo chiedere che venga fissato soltanto il massimo nel 3,70% (e non il massimo dell’imposta in lire 3000) per tutti i redditi superiori ad una certa cifra.
  • 2. – L’art. 4 del regolamento dice che per «determinare il grado di agiatezza delle famiglie si terrà conto del cumulo delle rendite e dei proventi netti annui delle persone che le compongono». Né il regolamento né la relazione dicono se il reddito debba calcolarsi al netto, oltreché degli interessi passivi, anche delle imposte e tasse che li gravano. Sarebbe opportuna una dichiarazione espressa in proposito per varie ragioni di evidente giustizia. Essendo infatti la tassa di famiglia un tributo personale sull’intiero reddito netto dei contribuenti, è giusto considerare le altre imposte (terreni, fabbricati, ricchezza mobile) come altrettanti tributi reali gravanti sulle varie forme di reddito innanzi che queste vengano, insieme accumulate, a costituire il reddito globale della famiglia. La capacità contributiva di questa non è data dal reddito, più le varie imposte già pagate agli Enti pubblici, ma dal reddito depurato da questo come dagli altri oneri passivi. Aggiungasi una ragione di giustizia comparativa. In categoria A1 e A2 vi sono alcuni interessi pagati al lordo ed altri pagati al netto dell’imposta di ricchezza mobile. In categoria C e D vi sono stipendi e salari al lordo ed altri al netto dall’imposta. Come si regolerà l’ufficio municipale delle imposte in questi casi? Per non fare ingiustizie, ove non si ammettesse la deduzione delle imposte e si colpissero gli interessi di capitali maturati nella intiera cifra lorda di L. 100, bisognerebbe, quando invece le 100 lire fossero al netto, aggiungere l’imposta contrattualmente pagata dal debitore. Così pure un impiegato, che riceve 3000 lire nette di stipendio, dovrebbe essere tassato su 3000 più l’imposta pagata dal suo principale: e ciò per trattarlo alla stessa stregua di quell’altro impiegato che riceve bensì 3300 lire di stipendio, ma deve pagare del suo l’imposta. Ognuno vede le complicazioni e le difficoltà nascenti da questi calcoli e come sia cosa più equa ed opportuna trattare tutti i guadagni alla stessa stregua, depurando quelli lordi dalle relative imposte particolari.
  • 3. – L’art. 7 consente ai redditi di categoria D di ricchezza mobile (stipendi in cifra certa degli impiegati dello Stato, delle Provincie e dei Comuni) una detrazione speciale di un quarto.

 

 

Giustissimo principio che rende il progetto milanese assai migliore di altri consimili. Un appunto solo si può fare: che il principio non sia stato abbastanza esteso. Non dimentichiamo che da questo punto di vista la imposta italiana di ricchezza mobile è uno dei migliori tipi di imposta esistenti nel mondo perché accortamente diversifica fra redditi di capitale puro, tassando di più i primi, meno i secondi e ancor meno i terzi. La stessa Inghilterra, la cui income tax è additata così spesso ad esempio di mirabile congegno tributario, s’è decisa solo adesso a seguire il quasi semisecolare esempio italiano, mantenendo ad 1 scellino per lira sterlina (5%) il tasso normale dell’imposta, ma riducendolo a 9 pence (3,75%) per i redditi del lavoro. Sarebbe opportunissima cosa che Milano conservasse la buona tradizione italiana nella sua imposta di famiglia, estendendo almeno a tutti gli impiegati e salariati la detrazione del 25% concessa agli impiegati pubblici. In che cosa si differenzia lo stipendio di un impiegato della Cassa di risparmio, delle Opere pie, delle Banche e di altri istituti congeneri da un impiegato dello Stato? Io estenderei anzi la detrazione a tutti gli stipendi in generale, anche se pagati da società commerciali, da industriali e commercianti privati. Qui vi è forse una possibilità maggiore di occultamento: ma, oltrecché essa può essere combattuta con la pubblicità dei bilanci ed altri mezzi di indagine, dobbiamo notare che si tratta di stipendi molto meno sicuri e costanti degli stipendi degli enti pubblici e morali.

 

 

Qualche considerazione si può fare altresì intorno all’altra proposta tributaria della Giunta, di estendere cioè a Milano le disposizioni della legge per Roma per la tassa sulle aree fabbricabili. Qui la Giunta si è trovata, senza sua colpa, a dover lottare contro una legge pessima, quale non si potrebbe certamente immaginare peggiore. L’anno scorso ho cercato di dimostrare sulle colonne del Corriere come il legislatore abbia dato prova, nella discussione e votazione di questa legge, di una ignoranza inconcepibile di tutte le discussioni scientifiche in proposito e di tutta la ricchissima esperienza estera, specialmente tedesca. Così come è regolata dalla legge, la tassa sulle aree fabbricabili è una cattivissima applicazione di un principio ottimo. Ma dura lex, sed lex.

 

 

Alla Giunta milanese non può rimanere altro compito, se non quello di migliorare in pratica il concetto del legislatore. Essa ha già ottimamente operato mantenendo al disotto del 3% il massimo fissato nella legge per Roma. A mio avviso essa farebbe altresì bene se chiedesse l’autorizzazione di graduare l’imposta, fino al massimo del 2%, in guisa da renderla meglio atta a raggiungere i due fini suoi principali: 1) di far pagare un tributo equo a quei proprietari che lucrano sull’aumento di valore dei terreni, e 2) di spronare alla fabbricazione su terreni adatti alle case popolari. L’anno scorso ho dimostrato – e finora la mia dimostrazione non fu confutata – che una aliquota uniforme, sia dello 0.50, o dell’1 o del 2%, non è conforme a giustizia, perché colpisce ugualmente tanto di chi nulla lucra, perché il suo terreno ha un valore stazionario, quanto chi lucra moltissimo, per strepitosi aumenti di valore. Più ancora, l’aliquota uniforme spinge sovratutto alla fabbricazione delle aree care centrali, che non aumentano più relativamente di valore con molta rapidità e non sono adatte alle case popolari, talché sarebbe piuttosto interesse pubblico igienico di mantenerle vuote. Questo inconveniente si potrebbe attenuare, graduando opportunamente l’aliquota dello 0.50 a 2% a seconda delle zone, che potrebbero essere fissate in seguito. La legge lo consente ed a Roma si fece così. Perché a Milano il medesimo criterio non potrebbe essere adottato?

 

 

Ancora: la Giunta propone che il Comune possa espropriare le aree al prezzo dichiarato dal proprietario. E sta bene. È un mezzo efficace questo per ottenere dichiarazioni esatte. Io spero però che la Giunta vorrà inserire una disposizione, la quale consenta al proprietario di rinnovare la sua dichiarazione annualmente: non accogliendo cioè quella enorme clausola della legge per Roma che rende fissa la dichiarazione per 25 anni e conduce dritto dritto, come ho altresì dimostrato sul Corriere, alla espropriazione della proprietà privata senza indennizzo. L’imposta sulle aree fabbricabili, che può essere elevato strumento di giustizia sociale, non deve convertirsi in un’arma terribile di ingiusta spogliazione di classe.

 

 

Queste le osservazioni che mi accadde di fare leggendo le interessanti e belle relazioni della Giunta milanese, osservazioni che è forse opportuno sottoporre alla disamina pubblica nell’interesse di quella causa di giustizia tributaria che a Milano ha così fervidi e disinteressati fautori negli uomini egregi che ne reggono le sorti.

 

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