Opera Omnia Luigi Einaudi

La tassazione degli incrementi patrimoniali nel disegno Meda e nel decreto legge Tedesco

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1920

La tassazione degli incrementi patrimoniali nel disegno Meda e nel decreto legge Tedesco

«Il Contribuente italiano», marzo 1920, pp. 61-66

 

 

 

Tra i tanti punti degni di discussione del progetto di legge di riforma dei tributi diretti presentato dall’on. Meda e del decreto legge Tedesco 24 novembre 1919, presenta uno speciale interesse quello che ci riferisce alla tassazione degli incrementi patrimoniali.

 

 

Il sistema del progetto Meda, accolto integralmente, salvo una variante di forma, dal decreto Tedesco, è il seguente:

 

 

Gli incrementi di valore delle cose mobili ed immobili facenti parte del patrimonio del contribuente sono esclusi dall’applicazione dell’imposta normale sui redditi, ad eccezione degli incrementi relativi a quelle cose le quali sieno oggetto del commercio esercitato dal contribuente stesso. Invece, entrano a far parte del reddito complessivo, soggetto ad imposta complementare, secondo la dizione del progetto Meda: «i prezzi di avviamento, le plusvalenze di immobili, le azioni, obbligazioni e simili, aventi il carattere di incremento patrimoniale»; o, secondo la dizione Tedesco: «i lucri realizzati, oltre il costo, per trasmissioni a titolo oneroso di immobili, azioni, obbligazioni e simili, aventi il carattere di incremento patrimoniale».

 

 

La variante terminologica fu voluta, quasi dagli stessi tecnici che avevano compilato il primitivo articolo, al semplice scopo di maggiore chiarezza. Ma la sostanza non è mutata. La figura economica dell’incremento patrimoniale balza evidente dal contesto dei due articoli (14 e 76 del progetto Meda e 14 e 74 del decreto Tedesco).

 

 

Accade che in occasione di trasmissioni a titolo oneroso di immobili, azioni, obbligazioni, avviamenti di aziende commerciali ed industriali, il contribuente realizzi un lucro a causa di una differenza fra il costo (prezzo di acquisto o costo di costruzione o di impianto o di conferimento) ed il prezzo di vendita. Si è comprato una cosa immobile per 100.000 lire e la si rivende per 120.000 lire; si è acquistato o sottoscritta una azione per 100 lire e la si vende per 120 lire. Esiste un lucro di 20.000 o di 20 lire. Questo è il fatto semplice.

 

 

Tuttavia, del fatto si possono fare due categorie. Nella prima di esse si pongono i lucri i quali sono ricavati da differenza od incremento di valore di quelle cose mobili ed immobili le quali siano oggetto del commercio esercitato dal contribuente stesso. Tizio negozia in immobili, Caio in azioni, Sempronio in granaglie, Mevio in carbone fossile. Tutti quattro lucrano differenze di prezzo; esercitano un commercio. Non monta che le cose negoziate sieno mobili od immobili, merci o titoli. Il reddito è dalla stessa natura ed è reddito misto di capitale e lavoro e va classificato in categoria B. Se così non si facesse, come tasseremmo il banchiere, lo speculatore professionale di borsa, il negoziante in fondi rustici ed in case? Il reddito netto ricavato dal lucro di differenze deve essere prima tassato, come reddito di industria o di commercio, dall’imposta normale e poi entrare a far parte del reddito complessivo, da assoggettarsi ad imposta complementare.

 

 

V’è poi una seconda categoria di incrementi di valore, che non sono frutto di una attività commerciale o professionale; ma risultato delle variazioni di valore delle partite singole del patrimonio di un qualsiasi contribuente privato. Tizio, che non è affatto negoziante o speculatore, ha comprato, senza intenzione preventiva di rivendere, una casa od un’azione per 100.000 o per 100 lire. In prosieguo di tempo, la rivende, per mutamenti sopravvenuti nella sua fortuna o nei suoi criteri d’impiego, per 120.000 o per 120 lire. Il lucro di 20.000 o di 20 lire non è frutto di un negozio o di una attività professionale. Ha natura prettamente capitalistica. Se dovesse essere tassato, la sua collocazione sarebbe nella categoria A dei redditi di capitale.

 

 

Non c’è possibilità di equivoco pratico tra le due categorie. Il codice di commercio scolpisce nettamente la figura del commerciante e dell’atto di commercio; e se qualche difficoltà può sorgere in casi particolari per decidere se un lucro spetti alla prima od alla seconda categoria, essa non supera le difficoltà consuete, direi quasi volgari, che la pratica commerciale od amministrativa permette di superare agevolmente.

 

 

La prima categoria si riferisce ai redditi dei commercianti e dei professionisti anche occasionali; la seconda ai lucri dei privati capitalisti. Alla prima può non corrispondere un capitale per ogni singola cosa aumentata di valore; alla seconda corrisponde sempre. Il commerciante, il quale negozia su case, titoli, azioni non ha necessità di possedere il capitale necessario all’acquisto effettivo delle cose negoziate. Basta che abbia il capitale necessario al negozio delle differenze e sopratutto il credito e l’abilità per effettuare il negozio con sagacia. Di questi tempi, abili negozianti hanno fatto passare terreni per migliaia di ettari e per decine di milioni di lire dalla proprietà della gente antica a quella dei contadini lavoratori senza impiegare quasi alcun capitale. Il guadagno differenziale ottenuto è frutto di intelligenza, intuito, conoscenza profonda della psicologia e dei bisogni dei contadini. È reddito sovratutto di lavoro speculativo, ossia di lavoro che prevede l’avvenire. Invece ai lucri della seconda categoria corrisponde sempre un capitale ed è questo il fattore prevalente dell’operazione. Il privato risparmiatore deve certamente fare una buona scelta dell’impiego migliore per i suoi risparmi, seguirne le sorti, entrare ed uscire a tempo dall’impiego. Ma ciò si fa a grandi intervalli di tempo, ed è semplice norma di oculata amministrazione del proprio patrimonio. Forse nella maggior parte dei casi la vendita non solo non era antiveduta, ma nemmeno voluta. Circostanze di famiglia, eredità, divisioni, mutamenti di domicilio e di professione inducono alla vendita ad un prezzo minore o maggiore di quello originario. Nessuna difficoltà pratica, ripetasi ancora una volta, si riscontra nel distinguere la seconda dalla prima categoria.

 

 

Per la seconda, a cui soltanto il decreto attribuisce il nome di «incrementi patrimoniali» il disegno Meda ed il decreto Tedesco adottano un sistema diverso da quello accolto per la prima categoria: esenzione dall’imposta normale e tassazione con l’imposta complementare. Del sistema accolto sono date le ragioni nel capitolo IX (pag. 70 e segg.) titolo II, libro I della relazione al progetto Meda. Sia lecito a chi stese, per incarico della Commissione presieduta dal Ministro Meda e composta dei dott. Abate, Berettini, D’Amelio, D’Aroma e del prof. Einaudi, quel capitolo, di chiarire più esplicitamente la genesi della norma accolta.

 

 

La Commissione si era trovata dinnanzi ad uno stato di fatto, il quale costituisce una vera deformità logica. La vigente imposta di ricchezza mobile aveva finito per colpire non solo i redditi propriamente detti, ma anche taluni tra gli incrementi di patrimonio, come da un lato i prezzi di avviamento di aziende ed i sovraprezzi realizzati (non quelli latenti) dei titoli di portafoglio di società anonime e dall’altro gli utili derivanti dalla rivendita di immobili. Mentre però per questi ultimi la tassazione era limitata ai casi nei quali la rivendita era fatta da commercianti o speculatori che avevano comperato con l’animo di rivendere, per i primi la tassazione si faceva in ogni caso, senza preoccuparsi del carattere commerciale o meno del lucro. Peggio; la giurisprudenza aveva finito per reputare tassabili anche i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione, a cui non poteva essere razionalmente in veruna guisa attribuito il carattere di guadagno, reddito od incremento patrimoniale.

 

 

Concorde fu l’avviso intorno alla opportunità di porre termine ad un sistema così ibrido, scorretto razionalmente e dannoso nei suoi effetti. Varie correnti apparvero alla Commissione degne di discussione riguardo al metodo da seguire nella nuova legislazione: l’una, la quale consisteva nel perfezionare il sistema vigente in sede di normale, la seconda la quale avrebbe condotto alla costruzione di una speciale imposta – da aggiungersi all’edificio complesso dell’imposta normale sui redditi, di quella complementare progressiva sul reddito e della imposta sul patrimonio – sugli incrementi patrimoniali. La terza era nettamente contraria alla tassazione degli incrementi patrimoniali in qualunque sede e con qualunque metodo. La risultante delle varie correnti fu il sistema attuato nel progetto Meda e nel decreto Tedesco, risultante che a me continua a parere di gran lunga superiore a qualunque possibile correzione delle deformità vigenti (I. tendenza), e più perfetto di quello di una costruzione autonoma (II. tendenza), sebbene non siano eliminati i dubbi che la tassazione degli incrementi patrimoniali fa sorgere nella mia mente anche quando si tratti di una tassazione progressiva e personale.

 

 

La prima soluzione – tassazione degli incrementi in genere colla imposta normale sui redditi – sarebbe stato un passo innanzi in confronto all’ibrido sistema vigente; ma sarebbe pur sempre stato un errore gravissimo. Gli incrementi patrimoniali – parlo sempre di quelli che sono tali in senso proprio e non di quelli della prima categoria, che non sono veri «incrementi patrimoniali» ma redditi del lavoro dei negozianti in terre, case e titoli e sono sempre tassabili – non possono essere tassati colla normale, per la semplicissima ragione che non sono redditi ma capitali. L’imposta sui redditi delle terre delle case e dei titoli tassa i frutti naturali e civili, gli interessi ed i dividendi di tutti questi capitali; ma non può tassare i capitali medesimi, qualunque ne siano le variazioni di valore, senza sovvertire le basi più evidenti della tassazione e senza produrre una confusione inestricabile fra ciò che è la fonte della materia tassabile e la materia medesima.

 

 

La seconda soluzione (costruzione di un’imposta speciale) fu adottata in Germania e in Inghilterra. Ma non è detto che tutto ciò che si fa altrove sia ben fatto. Il continuo mutare e rimutare della legislazione tedesca, l’insuccesso fenomenale del cosidetto «grande» bilancio con cui Lloyd George pretese di distruggere l’aristocrazia terriera britannica, insuccesso tale che l’anno scorso si dovette sospendere l’applicazione delle imposte sugli incrementi, perché il dispendio da esse cagionato era notevolmente superiore al ricavo, sconsigliano dallo scimmiottare mal riuscite esperienze forestiere.

 

 

Il sistema adottato è certo più snello e corretto. L’incremento patrimoniale non è considerato come un «reddito» assoggettabile alla normale, per la contraddizione che non consente di tassare insieme il capitale e il reddito, l’albero e il frutto, la fonte ed il filo d’acqua che ne discende. È considerato invece come un guadagno eccezionale e come tale sommato agli altri redditi o guadagni del contribuente ed assoggettato all’imposta complementare sul reddito. Nel gran blocco che ogni anno si fa dei redditi e lucri del contribuente per tassarlo con la complementare entra anche questo elemento. Con una formula semplice si tien conto del numero degli anni in cui il lucro si produsse; e così la tassazione si compie in maniera molto più perfetta e giusta di quella seguita all’estero, perché si tien conto:

 

 

1)    dell’ammontare assoluto del lucro

 

2)    della sua velocità di produzione; essendo ben diverso un lucro di 10.000 lire ottenuto in un anno da quello ottenuto in dieci anni;

 

3)    delle condizioni personali di reddito o di fortuna del contribuente; essendo più gravemente imponibile il lucro di 10.000 lire ottenuto da chi ha 100.000 lire all’anno di reddito dello stesso lucro ottenuto da chi ha solo 5000 lire di reddito ed è carico di famiglia;

 

4)    delle perdite patrimoniali le quali possono avere annullato contemporanei incrementi della stessa natura.

 

 

Posto che la conclusione era di voler tassare gli incrementi patrimoniali, soluzione migliore, a parer mio, di quella adottata non era possibile.

 

 

Giova insistere tuttavia sul punto che la tassazione degli incrementi patrimoniali in se stessi considerati – astrazione fatta dal quesito se essi debbono entrare, come si fece col progetto Meda e col decreto Tedesco, nel conto del reddito complessivo eventualmente da tassarsi a carico della persona del contribuente, ove questi appaia meritevole di imposta – sia un errore di principio ed un gravissimo danno pratico.

 

 

È un errore di principio. L’ing. Francesco Sincero in una sua relazione riprodotta nel fascicolo del giugno 1919 di questa rivista, ha ripetuto chiaramente il ragionamento tante volte fatto da moltissimi pratici e teorici per dimostrare la giustizia della tassazione degli incrementi. Egli li vorrebbe tassati anche colla normale, che sarebbe una enormità. Quel che sovratutto monta è chiarire il sofisma nel ragionamento. Riproduco il sofisma come lo espone il Sincero, perché i lettori forse lo ricordano. «Tizio ha acquistato una casa per nette lire 100.000; questa gli rende per 6 anni lire 5.000 all’anno e per altri 4 anni lire 6000 all’anno sui quali redditi Tizio paga regolarmente le sue imposte normale e complementare. Ma dopo dieci anni Tizio rivende la sua casa e ne ricava nette lire 120.000. Come negare che in totale quella casa ha reso a Tizio durante i 10 anni lire 54.000, su cui Tizio ha già pagato imposta normale e imposta complementare, e alla fine del decimo anno ha reso altre L. 20.000 una volta tanto, sulle quali Tizio deve pagare e complementare – come il progetto Meda propone – e normale come il progetto Meda esclude?».

 

 

Dico che questo è un sofisma. Non volgare, perché dipende dall’aver posto il problema con dati inavvertitamente assurdi; ma è sofisma chiaro e conclamato.

 

 

Lasciamo da parte le 5000 lire di reddito ottenute per 6 anni e le 6000 per altri 4 anni, in tutto lire 54.000. Queste sono un fatto; e sono anche materia pacificamente tassabile con amendue le imposte, normale e complementare.

 

 

Quelli che non sono fatti, perché assurdi, sono i due prezzi di acquisto in L. 100.000 e di vendita in L. 120.000. Queste due cifre rispondono ai prezzi che si sarebbero fatti se il reddito di 5000 lire di prima e quello di 6000 di dopo non fossero stati colpiti dall’imposta. Se l’imposta non fosse esistita, i due redditi di 5000 e 6000 lire sarebbero stati netti ed al saggio di interesse del 5% si sarebbero capitalizzati in 100.000 e 120.000 lire.

 

 

Ma noi non possiamo fare astrazione dall’imposta sui redditi. Supponiamola, per semplicità, uguale al 20% del reddito. Ecco che i due redditi si riducono al netto a 4000 ed a 4800 lire. Sono questi i veri redditi che si capitalizzano. Al saggio di interesse del 5% corrispondono ad un prezzo di acquisto di 80.000 e ad un prezzo di vendita di 96 mila lire. Il che vuol dire che l’imposta sul reddito è anche nel tempo stesso una imposta sul capitale; e che l’imposta sull’incremento di reddito è anche un’imposta sull’incremento di capitale.

 

 

Tizio che, se non fosse esistita l’imposta sul reddito, avrebbe comprato a 100 e venduto a 120 mila lire, guadagnando 20 mila lire; esistendo l’imposta sul reddito, compra ad 80 e vende a 96 mila lire, guadagnando solo 16 mila lire.

 

 

L’ipotesi, che il Sincero fa, di un lucro di 20.000 lire è un’ipotesi assurda, perché riposa su un’altra ipotesi inesistente, che cioè non esista la imposta sul reddito, che egli stesso presuppone. Se noi facciamo un’ipotesi poggiante sulla realtà, vediamo che il lucro patrimoniale è di 16 mila lire, invece delle 20 mila lire quale avrebbe dovuto essere, se non ci fosse stata l’imposta sul reddito.

 

 

Resta dimostrato perciò che l’imposta sugli incrementi patrimoniali c’è già, che il contribuente paga già 4 mila delle 20.000 lire di incremento, per il solo fatto dell’esistenza dell’imposta sul reddito. Non occorre altra imposta per fare pagare a costui il 20% del proprio lucro, così come paga ogni contribuente sui propri redditi. Assoggettare in aggiunta gli incrementi, come tali, ad una nuova imposta con aliquota uguale, del 20% ad esempio, equivale a gravare questi lucri di un’imposta doppia non giustificata. Il lucro patrimoniale, già ridotto per il solo fatto dell’imposta sul reddito, da 20.000 a 16.000 lire, si ridurrebbe ancora del 20% su 16.000 ossia di 3200 lire e cioè a 12.800. C’è qualcuno il quale possa spiegare perché l’interesse o reddito annuo di 20.000 lire di un capitale debba ad esempio essere tassato di 4000 lire e ridotto a 16.000 lire; mentre l’ugual lucro patrimoniale di 20.000 lire debba essere tassato di 7200 lire e ridotto a 12.800 lire? Io non lo vedo; e finché qualcuno non me l’abbia dimostrato, persisterò a credere che l’imposta sugli incrementi patrimoniali sia un errore di principio.

 

 

Qualcuno, è vero, il quale si è accorto dell’errore di chiedere la tassazione degli incrementi patrimoniali a nome della perequazione, ha cambiato terreno ed ha chiesto la tassazione affermando la giustizia di tassare di più i redditi nuovi, in confronto dei redditi vecchi. Finché, si disse, il reddito fosse rimasto di 5000 lire lorde e 4000 lire nette da imposta e finché il capitale fosse rimasto fisso in 80.000 lire poteva bastare il 20 per cento. Ma quando il reddito lordo cresce da 5000 a 6000 ed il netto da 4000 a 4800 non basta più tassare l’incremento di reddito col vecchio 20 per cento.

 

 

Il reddito nuovo od eccedente o sovrareddito può essere tassato di più. Le 1000 lire di reddito di più possono essere tassate non con 200 lire solo, ma con . È la teoria che condusse alla tassazione dei sopraredditi di guerra, che indusse taluni, come il sottoscritto in epoche lontane, il Griziotti oggi e moltissimi altri in passato ed al presente a chiedere la sovra tassazione dei sovraredditi, delle rendite nei redditi, dei guadagni di monopolio ecc. ecc. Uno dei modi pratici di tassare di più i sovraredditi è appunto la tassazione degli incrementi patrimoniali. Tassando i redditi di 5000 e di 6000 ugualmente col 20%; ma tassando poi l’incremento patrimoniale pure col 20% si raggiunge, sotto l’apparenza di una tassazione uniforme, quella tassazione disuguale che appunto si cercava. Il capitale da 80.000 passa, come sovra si vide, a 96.000 lire. Se si tassa col 20% il lucro di 16.000 lire, questo si riduce a 12.800 lire. Ecco perciò il reddito relativo da 800 lire nette ridursi a 640 lire nette (un capitale ridotto a 12.800 lire frutta solo 640 lire all’anno). Ed ecco perciò che le prime 5000 lire di reddito lordo pagano 1000 lire di imposta sul reddito (20%) e si riducono ad un netto di 4000 e a un capitale di 80.000 lire; mentre le ulteriori 1000 lire di reddito lordo, pagano prima 200 lire di imposta sul reddito (20%) e si riducono ad 800 lire, a cui corrisponde un capitale aggiuntivo di 16.000 lire; ma questo essendo, in qualità di incremento patrimoniale, tassato col 20% e ridotto a 12.800, il reddito netto residuo si riduce a 640 lire. Quindi le prime 5000 sopportano 1000 lire di imposta (20%); e le seconde 1000 sopportano 360 lire di imposta ossia il 36 per cento. Questo appunto era il risultato voluto dai zelatori dell’imposta sugli incrementi patrimoniali e grandemente se ne compiacciono. L’ing. Sincero ed altri con lui cadono in un equivoco fondamentale quando invocano l’imposta sugli incrementi a scopo di perequazione.

 

 

Meglio provvedono alla logica gli altri suoi fautori, invocandola come uno strumento per aggravare, per tassare di più i redditi nuovi, i sovraredditi.

 

 

Ma io ritengo che questa, che è la sola tesi ragionata e sostenibile, è quella la quale mette in luce tutta la falsità, tutto il danno pratico gravissimo dell’imposta sugli incrementi patrimoniali. Tollerabile parve in tempo di guerra l’imposta sui sovraprofitti di guerra, tollerabile appare oggi l’imposta sugli incrementi di capitale derivati dalla guerra, solo perché quelle imposte sono una delle tante conseguenze delle necessità di guerra. Ragionamenti non finanziari, non economici ma puramente politici, bellici e sociali spiegano le imposte di guerra.

 

 

Ora dovrebbero tornare in onore il senso comune e la logica. E la logica insegna:

 

 

1)    Che l’essere un reddito nuovo o vecchio normale o sovranormale per sé stesso non dice nulla intorno alla convenienza di variare l’aliquota dell’imposta in ragione di tali fatti.

 

2)    Dovendosi distinguere, bisognerebbe tassare più i redditi vecchi che i nuovi. I padri nostri, che non erano degli scervellati, usavano esentare per trent’anni e più gli aumenti di reddito dei terreni agricoli, tassavano i redditi medi e normali, allo scopo di punire i neghittosi, rifiutando minorazioni di imposta a chi lasciava deperire i fondi e di premiare i volonterosi che davano nuovo impulso alla produzione. Oggi invece si vuol tassare poco chi sa appena produrre il reddito medio, chi non sa crescere il suo reddito; e molto chi lo spinge all’insù. L’uomo stolido sia tassato poco, quello abile molto. Coloro a cui piacciono le novità, plaudano ai nuovi sistemi. Io mi sto pago alle verità antiche e torno a chiedere: quali buone ragioni suffragano la tesi di tassare poco colui che col massimo sforzo ottiene il minimo risultato e molto colui che col minimo sforzo ottiene il massimo risultato?

 

3)    Si cessi almeno dal dire: aumentate la produzione, risparmiate; quando gli incrementi di produzione e di risparmio si vogliono poi sovratassati.

 

4)    Si cessi di gridare che bene si fece ad abolire le manomorte e di invocare il passaggio delle terre dai signori ai contadini, quando si vuole una balorda imposta, il cui risultato fermo è quello di immobilizzare i capitali nelle mani degli attuali detentori. In avvenire, prima di vendere, bisognerà ricordarsi che sulla differenza di prezzo lo Stato interverrà a prelevare la sua tangente. Tizio ha un fondo che gli rende lorde 6000 lire e, nette da 1200 lire d’imposta, 4800 lire. Quel fondo al 5%, in mano sua, vale 96.000 lire. Se egli vende, incassa 96.000 lire, meno il 20% dell’incremento di 16.000 lire ottenuto in confronto al prezzo antico di congrua, ossia meno 3200 lire. Il netto incassato è di 92.800 lire. Con questa somma egli, al 5% avrà solo un reddito netto di 4640 lire. Egli perde 3200 lire di capitale e 160 lire di reddito, in confronto a quanto è liberissimo di conservare, tenendo in mano sua il fondo.

 

 

Ecco dimostrato di un colpo che l’imposta sugli incrementi è un tremendo ostacolo ai passaggi della proprietà, è una causa di manomorta – manomorta di case, terre, titoli d’ogni specie – ed è una stridente ingiustizia. L’imposta sugli incrementi patrimoniali realizzati parte dal concetto che il realizzo dà un guadagno. Ma che razza di guadagno è mai questo, per cui si continua, dopo la realizzazione ed ove non ci sia imposta, ad avere lo stesso capitale e lo stesso reddito di prima?

 

5)    Notisi, finalmente, che in tempi di trambusti monetari come l’odierno, l’imposta sugli incrementi non conduce solo ad una doppia tassazione, scorretta in principio e dannosa nei suoi effetti; ma può essere causa di vere espropriazioni della ricchezza antica.

 

 

Abbia Caio comperato od ereditato tempo addietro un fondo del reddito netto di lire 5000 e del valore di lire 100.000. Oggi quel fondo rende nette 10.000 lire e vale 200.000 lire. Caio lo vende. Sull’incremento di 100.000 cade l’imposta di 20.000 lire. Il capitale residuo risulta di 180.000 lire ed il reddito diventa di 9000 lire. Astrazione fatta dalla repugnanza che avrà ognuno a rinunciare a 10 e 200 per contentarsi di 9 e 180 mila lire, rispettivamente di reddito e di capitale – ed ognuno potrà evitare la rinuncia col non vendere, ossia col ristabilire la manomorta ed irrigidire la struttura sociale – quella tassazione è iniqua per un altro verso. Quale fu la cagione precipua per cui redditi e prezzi dei fondi rustici, delle case e dei titoli aumentarono durante la guerra? La svalutazione della moneta. Le 10.000 e le 200.000 lire di oggi hanno al massimo l’identico valore o potenza d’acquisto delle 5000 e delle 100.000 lire di prima.

 

 

Probabilmente hanno un valore minore, perché molti redditi e quasi tutti i valori capitali, anche fecondi di redditi variabili, sono cresciuti meno di quanto si svalutasse la moneta. Tassare, in queste contingenze, gli incrementi patrimoniali vuol dire ridurre redditi e patrimoni a 9 ed a 180 mila lire, equivalenti appena a 4500 e a 90 mila lire antiche. Questa non è imposta, è espropriazione. Ed è espropriazione non solo in sede di imposta normale, bensì anche di imposta complementare personale progressiva sul reddito complessivo.

 

 

Dicasi, se si vuole, che i patrimoni antichi debbono essere ridotti del 10 per cento. Ma lo si dica apertamente. Si aumenti, se si vuole, cosa deprecabile per altri motivi, l’aliquota dell’imposta patrimoniale. Ma non si aggiunga al danno la beffa, professando ingannevolmente di tassare solo l’incremento patrimoniale.

 

 

In questo rapido articolo, ho cercato di semplificare al massimo la trattazione di un problema astruso, complesso, dalle mille poliedriche faccie. Altrove,[1] ho approfondito taluni altri aspetti dell’interessantissimo problema, che specie per quanto tocca la imposta progressiva sul reddito, si presenta sotto atteggiamenti impensati e curiosi. Quanto ho detto basta tuttavia, parmi, a scrollare la estatica ammirazione con cui gli spiriti cosidetti moderni guardano a quella novità tributaria che si chiama imposta sugli incrementi patrimoniali ed a legittimare la mia conclusione: essere la tassazione degli incrementi patrimoniali erronea in principio, dannosissima nei suoi effetti economici, espropriatrice nelle attuali contingenze monetarie.

 

 



[1] In Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, nota estratta dagli Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, vol. 54, 1918-19, che si riannoda alla memoria Intorno al concetto del reddito imponibile e di un sistema d’imposta sul reddito consumato, estratto dal vol. LXIII, serie II delle memorie della stessa Accademia. Qualche osservazione al riguardo ho fatto anche in Il problema della finanza post-bellica, Milano, Treves, 1919, pag. 85, 90 e segg.

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