Opera Omnia Luigi Einaudi

La vigilanza sulle associazioni operaie

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/02/1924

La vigilanza sulle associazioni operaie

«Corriere della Sera», 12 febbraio 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 587-592

 

 

 

Il decreto-legge del 24 gennaio col quale si attribuisce alla autorità politica della provincia il diritto di vigilanza sulle associazioni operaie merita di essere attentamente studiato. Il «Corriere» ha già riprodotto testualmente i due articoli essenziali del decreto; e basterà perciò ricordare qui:

 

 

  • che gli enti soggetti a vigilanza sono:

 

 

le associazioni o corporazioni di qualsiasi natura, comunque denominate, ancorché regolarmente costituite, le quali traggono, in tutto od in parte, i mezzi finanziari occorrenti alla esplicazione delle loro attività, da contributi dei lavoratori, in misura fissa o variabile, per offerta spontanea o per obbligo imposto statutariamente od in qualsiasi altro modo a soci od a terzi e si propongono di dare ai lavoratori assistenza economica o morale, sotto qualsiasi forma, anche di gestione diretta;

 

 

  • che l’autorità politica incaricata di vigilare è il prefetto della provincia, contro i cui provvedimenti si può ricorrere solo al ministro dell’interno; e in via contenziosa al consiglio di stato;

 

 

  • che l’occasione dei provvedimenti prefettizi di vigilanza è l’esistenza di «fondati sospetti di abusi della pubblica fiducia, ovvero di illecite erogazioni o trasformazioni di fondi in danno degli associati o per scopi diversi da quelli di assistenza economica o morale ai lavoratori»;

 

 

  • che le modalità concrete della vigilanza sono: 1) «ispezioni od inchieste» sul funzionamento delle dette associazioni o corporazioni; 2) la revoca o l’annullamento dei loro atti; 3) lo scioglimento, nei casi più gravi, del consiglio di amministrazione, insieme con la delega temporanea, e per non più di un anno, della gestione del patrimonio sociale ad un commissario prefettizio, «con l’incarico di provvedere agli atti conservativi e a quanto altro occorra nell’interesse dell’associazione o corporazione»; 4) la proroga, per un altr’anno, in seguito a relazione motivata del commissario, della straordinaria gestione; 5) la liquidazione del patrimonio, con attribuzione del ricavo per quote parti ai partecipanti, ovvero ad enti od istituzioni o scopi che siano i più conformi alle finalità di tutela economica e morale delle classi lavoratrici aderenti all’associazione o corporazione.

 

 

Importa, prima di entrare nel vivo, sbarazzare il terreno da un problema preliminare: il problema Giulietti. A quanto si può giudicare dall’ultimo articolo del decreto, questo trasse occasione dalla convenienza di sanare formalmente i provvedimenti presi d’urgenza nei confronti della federazione marinara e della cooperativa Garibaldi. Ho ripetutamente e chiaramente manifestata una opinione recisa intorno al famigerato capitano. Ritengo cioè verosimile l’opinione dei tanti, i quali giudicano il Giulietti uomo tale che la sua permanenza a capo dei marinai italiani rende pressapoco impossibile ogni accordo tra marinai ed armatori e precarie le sorti di quella che può diventare una delle massime nostre fonti di ricchezza. Ma soggiunsi che a cacciar via Giulietti dovevano essere i marinai. Essi soli, per loro libera volontà, in assemblee regolari, senza tumulto di armati, senza intervento di estranei. Alto è l’ossequio che si deve rendere a D’Annunzio ed all’on. Ciano, commissario alla marina; ma in questa faccenda della auspicata cacciata del capitan Giulietti essi non hanno nulla a vedere, se la volontà libera dei marinai non li abbia spontaneamente chiamati.

 

 

Se il Giulietti indusse l’assemblea dei soci a deliberazioni contrarie allo statuto sociale; se egli artatamente combinò lo statuto in modo da rendere impossibile ai soci la manifestazione della loro volontà e praticamente impossibile la sua cacciata, se egli si appropriò di 11 milioni del fondo sociale e malversò altre cospicue somme, che cosa hanno fatto il procuratore del re ed il tribunale di Genova? Ad essi spetta annullare le deliberazioni antistatutarie, revocare il decreto di approvazione dello statuto, se l’approvazione fu chiesta; e, se non lo fu e non doveva essere, inquirire sulle avvenute malversazioni, e convintolo del reato, condannare il capitano alla meritata pena. Se poi, nonostante tutto, i marinai italiani vogliono, con espressione precisa di volontà, consegnar milioni a Giulietti, perché egli li usi a suo piacimento, in virtù di qual principio ne faremo ad essi divieto? Se marinai e Giulietti d’accordo cumulassero fondi per fomentare insurrezioni, per assoldare bande armate contro lo stato o per opera di tradimento al nemico, non occorrerebbe alcun nuovo decreto di vigilanza. Bastano, ed ampiamente, le leggi vigenti di pubblica sicurezza. Ma il cumular volontariamente, senza costrizione legale per alcuno, fondi a scopo di lotta economica non è atto illecito; e, di solito, nei trattati moderni di economia, è considerato atto tendente a dare forme civili alle lotte economiche.

 

 

Sbarazzato così il terreno della contingente questione Giulietti, parmi che il compilatore del decreto 24 gennaio abbia ubbidito ad una finalità ragionevole; ma abbia errato nel modo di tradurla in atto. La finalità ragionevole è questa: sottoporre le associazioni operaie ad un regime giuridico elasticamente adatto alle loro mutevolissime condizioni di fatto, ma chiaro e sicuro. Le società anonime, gli istituti di beneficenza, gli enti morali in generale, le società di mutuo soccorso hanno un regime giuridico. Esistono alcune regole generali, a cui gli statuti singoli si debbono conformare. Per le associazioni operaie, niente o quasi niente. Era ed è necessario imporre qualche norma, sia pure generalissima, intorno alle assemblee sociali, al consiglio di amministrazione, alla resa dei conti ed al loro deposito in tribunale, alla nomina dei sindaci. Norme consimili furono ritenute necessarie, nell’interesse dei soci e dei terzi, per ogni altra specie di enti. Perché non per le associazioni operaie? Perché, anche per queste, non dovrebbe essere utile una norma la quale tutelasse i soci ed i terzi contro gli abusi di fiducia degli amministratori e desse ai sindaci nominati dai soci ed al magistrato ordinario modo di esercitare la loro azione di difesa e di repressione di eventuali reati?

 

 

Il decreto non fa nulla di tutto ciò; e fa invece una cosa molto diversa: dà al prefetto ed al ministro degli interni, autorità eminentemente politiche, il diritto di ispezionare, revocare e sostituirsi ai consigli di amministrazione, gerire e liquidar il patrimonio delle associazioni operaie.

 

 

Ma i motivi dell’intervento – abusi della pubblica fiducia, illecite erogazioni o trasformazioni di fondi in danno degli associati o per scopi diversi da quelli di assistenza economica o morale ai lavoratori – sono motivi legittimi di intervento non dell’autorità politica, bensì del magistrato. Chi se non il magistrato ordinario deve giudicare degli abusi di fiducia e degli illeciti storni di fondi dal loro fine proprio? Se la legge non ordina la scelta di sindaci indipendenti e capaci a denunciare i fatti illeciti e se i magistrati non vedono in base a quale legge essi dovrebbero procedere, si crei la legge; ma non si sottopongano interessi privati ad un controllo di carattere politico. Le associazioni di lavoratori non sono enti di beneficenza, non sono fondazioni pie, non sono istituti pubblici come le casse di risparmio od i monti di pietà che debbano essere soggetti ad una tutela di carattere pubblico. Sono enti «privati», per mezzo di cui pochi o molti lavoratori intendono conseguire un fine di loro personale interesse. La legge deve intervenire per garantire la buona fede, impedire gli abusi di fiducia, reprimere le azioni costituenti reati. Se a ciò non debbono provvedere i giudici, a che servono i giudici?

 

 

Ma, si può ragionevolmente osservare, le associazioni operaie od i loro capi possono divertire i fondi versati dai soci a fini, forse non propriamente illeciti, certo estranei all’elevazione economica o morale dei soci. Possono, ad esempio, destinare somme cospicue a sussidiare giornali di partito, pagare spese elettorali, far propaganda sovversiva. Il che è accaduto sicuramente.

 

 

Dal fatto non deriva tuttavia logicamente la conseguenza che debba l’autorità politica intervenire a reprimerlo. Se invero il fatto non è lecito, se esso è contrario a qualche norma vigente di legge, il magistrato è solo competente a reprimerlo. In tutti gli altri casi, io dico essere lecito alle associazioni operaie far propaganda per i proprii ideali, destinar fondi a battaglie elettorali, sussidiar giornali. Lecito non è agli amministratori far tutte queste cose contro la volontà dei soci; ma se i soci consentono e vogliono, perché non dovrebbe essere lecito ad una associazione operaia combattere per il trionfo di un partito, dal quale essa speri vantaggi per i lavoratori? La speranza potrà essere mal riposta; e fu a parer mio malissimo riposta la speranza di molti operai di veder migliorate le proprie condizioni dal trionfo dei partiti socialisti e comunisti; ma dell’uso del proprio danaro sono soli giudici gli operai medesimi; mai il prefetto od il ministro politico. La sola sanzione efficace contro gli errori è l’esperienza medesima degli errori. Forseché le sole associazioni operaie nutrono speranze di tal genere e sottoscrivono fondi per scopi politici?

 

 

Forseché le società anonime, le associazioni di industriali, i circoli di interessi commerciali, le federazioni agrarie non versano fondi di milioni a giornali ed a campagne elettorali? Forseché non si sente dire mai che il tal industriale, la tal banca, il tal «trust» ha comprato un giornale od ha versato fondi ad un partito? Forseché nella maggior parte degli stati, dove fervono battaglie di idee politiche, non è diffusa la convinzione che siano assai più vistose le erogazioni padronali di quelle operaie? Perché dunque si sottopongono a tutela politica solo le associazioni operaie e non anche le associazioni industriali, agrarie, quelle miste operaio – padronali, e le banche e le società anonime? Se il principio è vero per gli operai, deve essere vero anche per i datori di lavoro. Ed a più forte ragione, data la maggior cultura, la maggior ricchezza di questi ultimi, che li dovrebbe far repugnare più profondamente da siffatta condotta.

 

 

In realtà lo spendere danari per propaganda politica è fatto universale e può essere indice di elevata educazione politica. Brutta cosa è soltanto che lo spendere si faccia in segreto, in guisa da trarre in inganno il pubblico, il quale immagina sia spontanea quella voce la quale invece è prezzolata. Perciò la sola esigenza pubblica sarebbe che si imponessero a tutte le associazioni, operaie e padronali, norme di pubblicità per le erogazioni di propaganda e di tutela giuridica dei diritti dei soci e dei terzi. Ma forse l’epigrafe di pubblicità è troppo ingenua. In Inghilterra a stento ci si riesce e solo in piccola parte.

 

 

Ogni altra specie di intervento parmi destinata a fallire. Se le associazioni operaie o padronali saranno in avvenire soggette al pericolo di essere amministrate da commissari prefettizi, certa cosa è che i commissari troveranno sempre le casse vuote. Bilanci falsi, contabilità doppie e triple, consegne di fondi assolutamente fiduciarie, senza ricevuta scritta e senza traccia, saranno le conseguenze fatali di una legislazione che mette in balia del potere politico i fondi accumulati da certi gruppi di persone in vista di un dato scopo. Più probabilmente ancora, fondi sociali non esisteranno più. Creda chi vuole che il sistema sia vantaggioso alla soluzione dei problemi operai. La storia del passato dimostra che le associazioni senza fondi sono fomentatrici, anzi sinonime di disordine sociale; e che si impara ad amministrar bene soltanto quando si è liberi di sbagliare e di cadere perciò in rovina.

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