Opera Omnia Luigi Einaudi

L’aiuto straniero

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/08/1944

L’aiuto straniero

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 19 agosto 1944

 

 

 

Le maniere con le quali l’Italia potrà essere aiutata dalle nazioni vincitrici nell’opera della sua ricostruzione economica sono quattro: la legge affitti e prestiti, l’U.N.R.R.A., la Banca internazionale ed il Fondo internazionale per la regolarizzazione dei cambi.

 

 

Sembra che il gabinetto Bonomi abbia già iniziato le trattative affinché l’Italia sia ammessa a partecipare ai vantaggi della legge affitti e prestiti, che sono quelli di ricevere in affitto od in prestito cose materiali (non denaro) utili alla condotta della guerra: derrate alimentari, materie prime, armamenti e munizioni. La restituzione può aver luogo in un modo noto ed è il contro-affitto e prestito eventuale di cose italiane utili agli alleati per la condotta della guerra. Non conoscendosi però le condizioni dell’armistizio, non si sa se per avventura l’Italia non sia già obbligata a fornire agli eserciti alleati, a titolo di indennità di guerra, le cose medesime.

 

 

La restituzione delle cose ricevute in affitto o prestito dovrà perciò sovrattutto avvenire in natura, se le cose medesime sussisteranno ancora alla fine della guerra (ad es. una nave da trasporto o carri ferroviari) o nel modo che dovrà essere poi convenuto. Il punto non è stato sinora mai definito nemmeno nei rapporti fra Stati Uniti ed Inghilterra.

 

 

Una prima dichiarazione americana, secondo la quale appariva che alla fine della guerra si sarebbe dato un frego su tutte queste partite di dare ed avere, fu espressamente ritrattata o smentita dal presente Roosevelt. Probabilmente, la liquidazione si farà nel modo usato per i prestiti statali dell’altra guerra, i quali furono ridotti ad assai tenue annualità, il cui pagamento fu poi sospeso a tempo indefinito.

 

 

Quanto all’U.N.R.R.A. si sa che essa è espressamente un’opera di soccorso a fondo perduto a favore delle popolazioni dei paesi danneggiati dalla guerra; pronto soccorso per genti affamate, denutrite, nude, senza tetto, strappate dalle proprie contrade, deportate o costrette alla fuga. La grandiosità dei bisogni in tutta l’Europa, le difficoltà grandissime dei trasportati, la limitazione, maggiore di quel che comunemente si immagina, dei mezzi di soccorso, vieta di sperare che l’U.N.R.R.A. possa provvedere a nulla più che una modesta quota delle esigenze nostre di soccorso. Se questo potesse concretarsi sovratutto in medicamenti, in alimenti concentrati per i bambini ed in forniture di cereali, i risultati benefici sarebbero già notevoli. Qui non si parla di restituzione; ma solo di doveroso proposito di contribuire anche noi in avvenire ad alleviare, nei limiti delle nostre forze, i mali provocati in paesi stranieri da grandi sciagure. Solo modo che uomini e nazioni hanno di manifestare la propria gratitudine per il bene ricevuto.

 

 

La «Banca internazionale» ci porta in un campo tutto diverso da quello politico-bellico della legge affitti e prestiti e da quello umanitario della U.N.R.R.A. Il fondo amministrato dalla Banca dovrà essere impiegato in prestiti di ricostruzione a lunga scadenza e presumibilmente a mite saggio di interesse. Ricostruire città, strade, ferrovie, porti, stabilimenti industriali distrutti, mettere in grado gli industriali di rimettere in assetto impianti bombardati, macchinari asportati dal nemico o guasti dai partigiani per vietarne l’utilizzazione al nemico, ecco lo scopo del Fondo.

 

 

È naturale che i prestiti siano fatti per aiutare il raggiungimento di scopi i quali non siano in contraddizione con un piano generale, il quale sia elaborato dal consiglio del fondo stesso, piano che sembra doversi inspirare al concetto di favorire non le rivalità ma la collaborazione tra i diversi paesi; e quindi di incoraggiare non i doppioni e gli impianti bellici, ma quelle industrie le quali appaiono meglio conformi alle attitudini particolari di ogni paese. Nel che l’interesse generale del mondo intero coincide con quello particolare dei singoli paesi.

 

 

Ho lasciato per ultimo il quarto strumento di ricostruzione del mondo che è il Fondo internazionale per la regolarizzazione dei cambi, perché, se gli scopi degli altri tre strumenti, ora brevemente delineati, sono chiari e semplici, lo scopo del «Fondo» appare alquanto nebuloso ed in parte incomprensibile. Esso è nato per filiazione indiretta dai numerosi progetti i quali, dinnanzi allo spaventoso disordine monetario incominciato nel 1914 ed ognora aggravatosi, hanno cercato il rimedio nella idea di una moneta unica internazionale, la quale, appunto perché internazionale, fosse stabile.

 

 

Alla quale prima idea si aggiungeva l’altra derivata dal contegno, apparentemente stravagante, dell’oro, che era bensì nell’anteguerra moneta fornita di conii diversi nazionali, ma in verità fungeva mirabilmente come moneta internazionale. L’oro, fuggendo dagli altri paesi, si era rifugiato quasi del tutto negli Stati Uniti, o meglio in una certa tale fortezza sotterranea del Kentucky, dove esso era guardato a vista da soldati americani.

 

 

Ma poi si vide che il contegno dell’oro non era stravagante ma ragionevolissimo; poiché una qualunque merce la quale sia in un luogo minacciata di rapina o di confisca cerca di salvarsi in quell’altro od in quegli altri luoghi dove ai proprietari di essa sia garantita dalle leggi protezione contro i rapinatori, i saccheggiatori ed i malversatori. E si vide anche che la creazione di un’altra moneta internazionale, la quale dovrebbe essere necessariamente di carta – non c’è altra scelta in questa materia, se non fra oro e carta – era soggetta ai pericoli di tutte le monete cartacee, che è la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Laddove l’oro esiste nella quantità fornita dalle miniere, quantità variabile a seconda della fortuna dello scoprimento di miniere nuove e della convenienza economica di coltivare le miniere vecchie e le nuove, ma non variabile a seconda del capriccio dei dirigenti tesori statali e banche centrali di emissioni; la quantità della moneta cartacea è essenzialmente arbitraria. Con uomini indipendenti e prudenti, la quantità è tale da raggiungere scopi economici razionali, ad es. cambi stabili ovvero prezzi dei beni e dei servizi costanti.

 

 

Con altri uomini, perseguenti fini politici o sociali; la quantità diventa tale da raggiungere fini atti a dare popolarità provvisoria od a consentire di fare a meno di rialzare imposte od emettere prestiti volontari; e il valore, ossia la potenza d’acquisto, della moneta scivola in basso, sino a ridursi a zero.

 

 

Sembra si possa capire che a Bretton Woods si sia ragionevolmente deciso perciò di non voler creare una nuova moneta internazionale, che si sarebbe aggiunta alle altre monete cartacee nazionali, ma di mantenere teoricamente in piedi il tipo aureo; e di volere così cercare di stabilizzare il corso dei cambi delle singole monete cartacee nazionali in confronto all’oro. È misterioso il modo col quale il Fondo potrà raggiungere lo scopo, ché, da quel che si è potuto capire, il fondo servirà a stabilizzare il corso dei cambi fornendo alle tesorerie degli Stati aventi grossi impegni immediati di pagamento all’estero – per rimborsi di forniture belliche e per saldo di acquisti fatti nel tempo del passaggio dalla guerra alla pace, che sarà tempo abbastanza lungo -, anticipi provvisori da liquidarsi più comodamente in seguito.

 

 

Se, d’un tratto, le nazioni debitrici per saldi di clearings o in genere dei conti di dare ed avere internazionali dovessero abolire, come a Bretton Woods si è opportunamente dichiarato, i vincoli alle rimesse d’ogni specie da farsi all’estero, e se i creditori pretendessero il pagamento immediato dei soldi ad essi dovuti, si verificherebbero sbalzi improvvisi ed imprevedibili nei corsi dei cambi: la rupia indiana, il peso argentino, il dollaro americano, forse le sterline australiana e sudafricana andrebbero su, la sterlina inglese precipiterebbe, con sconvolgimento inaudito dei cambi e forse con l’interruzione di molti scambi internazionali.

 

 

È opportuno perciò che un fondo particolare provveda a evitare lo sconquasso ed a consentire alle diverse monete nazionali di raggiungere il loro livello naturale. A cagion d’esempio il Fondo potrà giovare ad impedire che il corso della lira italiana oggi fissato nell’Italia meridionale a 100 lire per ogni dollaro, ribassi a 150 od a 200, per ritrovare poi lentamente il suo livello naturale stabile.

 

 

Impedire le oscillazioni inutili temporanee sarebbe certo un grande risultato; e potrebbe essere decisivo, se è vero che il viandante raggiunge meglio la meta lungo una strada piana che attraverso quella interrotta da frane e precipizi.

 

 

Ma non bisogna illudersi; una qualunque moneta cartacea e quindi anche la lira italiana si stabilizzerà o precipiterà, rimarrà ferma al livello di 100 lire italiane per dollaro, od a quel qualunque altro livello che l’esperienza indicherà; o precipiterà a 200 e magari a 1000 od a 10.000 e cioè a zero, esclusivamente a seconda della nostra condotta economica interna.

 

 

Saremo noi italiani e non gli americani o gli inglesi od i russi coloro i quali faranno si che la lira italiana si stabilizzi o no, sia una lira capace di acquistare qualche cosa o poca cosa o nulla. Se nel bilancio statale si aprirà una falla incolmabile con qualunque sorta di imposta o di prestiti, se ad esempio si seguiterà a comprare il grano caro ed a vendere il pane a buon mercato e se la stessa cosa si continuerà a fare per altre cose dette di prima necessità, è inutile illudersi: il torchio dei biglietti seguiterà a lavorare, la fiumana della carta stampata continuerà ad ingrossare e nessuna forza umana sarà capace d’impedire lo scivolamento della lira verso l’abisso del nulla.

 

 

Non ci si riuscirebbe neppure con i più vistosi prestiti da parte del «Fondo» deliberato a Bretton Woods; prestiti i quali del resto ci saranno tanto meno forniti quanto più dimostreremo di essere incapaci a frenare la corsa verso l’abisso.

 

 

Qui è il punto decisivo del problema posto dalla istituzione della «Banca» per i prestiti lunghi di ricostruzione e del «Fondo» per i prestiti brevi di riassestamento monetario.

 

 

L’Italia otterrà prestiti da quei fondi e da tanti altri fondi, che spontaneamente liberamente si formeranno e già si prevedono e si organizzano nei paesi provveduti di risparmi disponibili – Stati Uniti, Svizzera e probabilmente Brasile, Argentina, Egitto, ecc. – a favore dei paesi devastati dalla guerra, se saprà meritarseli; non otterrà nulla se la sua politica economica e sociale non darà affidamento. Nessuno, solo perché ne ha bisogno, può pretendere che i risparmiatori diano a lui a mutuo i loro risparmi se ad essi si tiene un discorso del tipo seguente: importate i vostri capitali in Italia, impiegateli a ricostruire le case delle nostre città distrutte, a far risorgere i nostri impianti industriali, a restituire in pristino le bonifiche, le piantagioni, i canali irrigatori; e quando avrete ricostruite le case, vincoleremo i canoni di fitto in modo che voi non potrete rimunerare il capitale investito; quando avrete fatto risorgere gli impianti industriali, questi non saranno amministrati da gente che riscuota la vostra fiducia, ma da commissioni di fabbrica di ingegneri, tecnici, impiegati ed operai: quando le bonifiche saranno riprese e le vigne, gli oliveti, le risaie, le stalle rifioriranno col vostro denaro, noi faremo esperimenti di terra ai contadini, di gestioni cooperative e simili.

 

 

A sentire ad o prevedere siffatti discorsi, ed a leggere i programmi dei partiti che tali discorsi volessero tradurre in pratica rapidamente e, se occorre, con procedure legislative sommarie, i capitali delle «Banche», dei Fondi deliberati a Bretton Woods ed i capitali degli altri sparsi fondi privati in via di formazione, fuggirebbero a gambe levate prima di affacciarsi dalle Alpi o dai mari e ci lascerebbero cuocere nel nostro brodo.

 

 

Che sarà brodo lungo e di gusto amaro. Potremo consolarci, allora, affermando orgogliosamente di non aver bisogno dell’aiuto altrui. Il che è anche vero, ad una condizione; di essere consapevoli, fin dall’inizio, che l’impresa di ricostruzione dell’Italia sarà lunga e dolorosa. Non basterà prelevare, come accadeva prima del 1914 un 10 per cento all’anno sul reddito per procedere ad investimenti progressivi di capitali destinati a crescere la produttività della terra e dell’industria nazionali; né basterà prelevare il 20 od il 30 per cento.

 

 

Bisognerà prelevare assai di più; probabilmente giungere per un quinquennio e forse per due, al 50 per cento, come accadde in qualche altro paese e come si verificò negli ultimi anni ancora in Italia a causa della guerra.

 

 

Ossia sarà necessario, se vorremo far da noi, stringere assai la cintola, far patire a larghissimi strati della popolazione, forse a tutti gli Italiani, salvo a coloro che sappiano sottrarre agli ammassi parte dei frutti della propria terra, qualcosa come la fame permanente. Sarà necessario perpetuare tesseramenti, prezzi di calmiere, inquisizioni, perquisizioni, mercato nero e relative multe e prigionie.

 

 

Sarà inevitabile irreggimentare la popolazione in maniera ferrea per persuaderla a rinunciare al pane, alle scarpe, ai vestiti, al riscaldamento per avere case future, impianti futuri, piantagioni future. Non dico che tutto ciò non si possa fare. Dico che i mezzi per farlo consistono nella perpetuazione di sistemi totalitari, assolutistici di governo, dei quali il popolo italiano ha dimostrato abbastanza di non volere sapere più.

 

 

I capitalisti forestieri, a lungo e a breve termine, a saggi di interessi diversissimi, da quelli miti per le spese di interesse collettivo forniti «Banca» e dal «Fondo» di Bretton Woods a quelli più alti, commerciali, per le iniziative di interesse privato, verranno invece se i risparmiatori forestieri saranno persuasi, sentendo le dichiarazioni dei nostri uomini di governo, dei capi dei partiti e più contemplando l’opera nostra, che essi saranno accolti come si usa ad ospiti graditi. Se si saprà che colui il quale ricostruirà case, chiunque sia, italiano o forestiero – la legge deve essere uguale per tutti, ché alle leggi di favore per alcuni, nessuno crede e non credono sovrattutto i forestieri che si volessero favorire – potrà affittare a prezzi di mercato, molti capitali verranno fuori e ricostruiranno, senza preoccuparsi se poi le nuove case faranno ribassare i fitti al disotto degli altissimi livelli attuali di mercato nero.

 

 

Se si saprà che colui il quale impianterà nuove fabbriche o ricostruirà quelle distrutte, potrà gerirle senza uopo di chiedere ad ogni piè sospinto autorizzazioni e licenze, potrà contrattare con le libere leghe degli operai le condizioni di lavoro, senza però assoggettarsi a controllo di dipendenti se non in quella misura che caso per caso le due parti giudicheranno conveniente di concordare – e i casi saranno molto più numerosi di quel che si può credere se le leghe operaie ragioneranno con competenza le loro richieste – i capitali utili a far rifiorire l’industria verranno fuori all’interno e saranno importati dall’estero.

 

 

Se una politica di ripresa delle bonifiche, di appoderamento progressivo dei latifondi e

delle terre male coltivate, di funzionamento delle proprietà di dimensioni eccedenti quelle imposte dalla tecnica agricola nelle varie regioni italiane, varie dal nord al sud, dalla piana alla montagna, sarà chiaramente impostata, i capitali necessari a far passare, nel tempo economicamente e tecnicamente minore possibile, la terra dai vecchi ceti di proprietari a nuovi ceti più operosi – da un lato imprenditori capitalisti ardimentosi, e dall’altro contadini coltivatori diretti aiutati da mutui di riscatto statali a basso saggio di interesse e confortati da consorzi cooperativi – verranno certamente fuori.

 

 

Se nel tempo stesso sarà ristabilizzato il rispetto della legge; se si saprà che nessun provvedimento amministrativo arbitrario potrà sospendere l’obbligo di tener fede alle obbligazioni contratte, se ci si persuaderà di nuovo che giustizia, in conformità alle leggi vigenti nel tempo in cui il contratto fu convenuto o l’atto fu compiuto, sarà resa imparzialmente verso tutti; se un regime di imposte severe e dure, ma certe o prevedibili e non arbitrarie sarà instaurato: oh! non temiamo che in pochi anni un’Italia più bella e più operosa non abbia a risorgere dalle rovine lasciate dal regime fascistico. La scelta sta in noi soli e non dipende dal beneplacito di alcun straniero.

 

 

Sta agli italiani scegliere tra gli improvvisatori, gli agitati, i maniaci del nuovo e del perfetto ovvero gli uomini che vogliono togliere di mezzo si i profittatori, i monopolisti, i plutocrati ma non vogliono creare altri monopoli, altri dominatori, e credono che oggi sia sovratutto necessario di dare ai volonterosi sicurezza, fiducia, giustizia e libertà. Nel 1922 gli italiani anelavano a sicurezza, tranquillità e lavoro e scelsero volontariamente la via, immaginata a torto più breve, la quale li condusse a miseria e tirannia.

 

 

Oggi, essi si trovano dinnanzi al medesimo dilemma. Auguriamo che di nuovo non scelgano la via che appare più breve e conduce ugualmente alla miseria ed alla tirannia; ma invece scelgano la via lunga, la sola la quale conduce verso la libertà e la prosperità.

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