Opera Omnia Luigi Einaudi

L’anarchia negli stipendi degli impiegati

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/05/1921

L’anarchia negli stipendi degli impiegati

«Corriere della Sera», 28 maggio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 187-192

 

 

 

 

Come era inevitabile, il modo disordinato con cui a spizzico il governo cercò di quietare le agitazioni di singole categorie di impiegati, ha condotto il paese ad una situazione che pare senza uscita. Il disordine e la debolezza non possono non essere causa di indisciplina ed anarchia. A grandi tratti, la questione degli impiegati si può riassumere così:

 

 

  • la deteriorazione della moneta ed il conseguente aumento dei prezzi imposero un aumento degli stipendi in lire-carta. Sarebbe stato molto meglio che gli stipendi non fossero stati affatto variati da quelli che erano nel 1914 e che ad ogni tre mesi si calcolasse l’aggiunta variabile in più o in meno a norma delle variazioni del costo della vita.

 

  • Invece, lo stato preferì dare caro-viveri uniformi per tutti; 100, 200 lire al mese; e vi aggiunse aumenti di stipendio a coloro che gridavano di più. Probabilmente, se a tutti si fosse mantenuto l’antico stipendio, con l’aggiunta del 100%, del 150%, del 200%, del 250%, la spesa sarebbe stata minore e il malcontento meno diffuso. Invece, a taluni, e sono gli impiegati superiori, si diede circa il 100% – gli impiegati superiori, in generale, esagerano quando parlano solo di un 50%, dimenticando caro-viveri ed altre cose -; ad altri si diede il 500 ed il 600% e sono una grande massa di impiegati inferiori e di ferrovieri in genere. Gli uni ottennero meno dell’aumento dovuto per il rialzo nel costo della vita; gli altri più. Dato però l’andazzo degli aumenti uniformi in cifra assoluta, anche coloro i quali hanno avuto troppo gridano come gli altri, e questi ultimi non separano la loro sorte dai primi, perché in tempi demagogici sentono di non essere forti se non appoggiandosi alle masse.

 

  • Non essendosi subito formata l’idea che lo stato non aveva altro da fare che pagare lo stipendio promesso in moneta equivalente a quella antica, accadde che gli aumenti o caro – viveri vennero tardi e continuano a chiedersi oggi, mentre senza dubbio i prezzi ribassano. Da 100 media dei prezzi nel 1920, i prezzi all’ingrosso erano saliti in Italia a 107,33 nel novembre 1920; ma sono discesi a 93,51 nell’aprile 1921; ed anche i prezzi al minuto da due mesi in media si mantengono stazionari. È erroneo oggi dunque chiedere aumenti di stipendio per nuovi inesistenti rincari della vita. Ma il governo ha dato buon motivo alle lagnanze con le sperequazioni di cui si è reso colpevole.

 

  • Oggi non si impone dunque un aumento per caro-viveri crescente. Questo non è il punto in discussione. La sola cosa che gli impiegati hanno ragione di chiedere è la perequazione. Bisogna abolire le stravaganti differenze che oggi esistono tra stipendi di persone addette alle medesime funzioni. Un ingegnere entra nei telefoni con 4.000 lire, nel genio civile, negli uffici di finanza, nelle miniere con 5.600, nelle ferrovie con 11.100. C’è un pestifero decreto del giugno 1920, emanato arbitrariamente, in virtù del quale i segretari dei ministeri delle finanze e del tesoro passarono ad 8.000 lire e più. Ed ora tutti gli altri segretari chiedono altrettanto.

 

 

Perequazione dunque e revisione degli stipendi per riportarli a quello che erano nel 1914, con le varianti suggerite dalla necessità di riparare ad antiche ingiustizie con le aggiunte variabili e provvisorie determinate dalla scemata potenza d’acquisto della lira. Aggiunte queste ultime da eliminarsi a poco a poco automaticamente se e quando la lira rivaluterà e nella misura della sua rivalutazione.

 

 

Dico subito che tutto ciò non si otterrà se il governo chinerà il capo alle richieste attuali degli impiegati. Questi non vogliono «perequazione»; ma innalzamento degli stipendi in genere al livello degli stipendi di una classe privilegiata, quella dei ferrovieri, la quale è riuscita con l’arma dello sciopero ad imporsi ed a mandare in rovina le ferrovie. Essi non vogliono che lo stato mantenga fede alla promessa di pagare in moneta buona. Con le loro richieste di 200 lire al mese per tutti, vogliono che lo stato continui a dar troppo agli uni e troppo poco agli altri. Essi non vogliono che l’aggiunta allo stipendio antico sia, come dovrebbe essere, variabile e provvisoria; vogliono invece conglobare gli aumenti passati e nuovi nello stipendio, per rendere questo irriducibile anche se il costo della vita dovesse diminuire. Essi non intendono di fatto che gli stipendi siano adeguati al merito; ché nelle loro organizzazioni dominano le masse, le quali trovano naturalissimo che ai direttori generali sia assegnato uno stipendio poco differente da quello del segretario e magari dell’usciere capo. È vero che 95 direttori generali a Roma sono straordinariamente troppi e che un buon terzo di essi è stato creato per ragioni personali e di carriera. Ma ognuno spera di arrivare al posto e pochi fiatano per chiedere la riduzione del numero dei posti inutili. Molto se ne scrive sulla carta; ma quando un ministro tenta di passare all’atto, trova un muro chiuso.

 

 

Eppure bisogna trovare ad ogni costo una via d’uscita. Se c’è stato un sottosegretario il quale per debolezza e per preoccupazioni elettorali ha fatto promesse assurde, il ministro del tesoro veda di rimediare nei limiti del possibile. In fondo non c’è gran differenza tra il dare 200 lire di acconto su aumenti futuri e il dare le stesse 200 lire a titolo di sussidio una volta tanto. I sussidi sono come le ciliegie; che una tira l’altra. Ma importa salvare il principio; e una buona volta non ammettere più in principio che gli aumenti debbano proprio essere uniformi per tutti.

 

 

E neppure bisogna ammettere l’altro scandaloso principio che la perequazione debba farsi badando solo alle tabelle dei ferrovieri. I giornali e gli uomini politici, i quali con leggerezza incredibile non contestano questa che è la più pericolosa richiesta di coloro i quali si sono assunto il compito di rappresentare gli interessi degli impiegati, riflettano alle conseguenze dei loro atti. Accogliere tale richiesta, ha dichiarato il ministro del tesoro, vorrebbe dire imporre un carico da 2.500 a 3.000 milioni all’anno al bilancio. Un carico simile non può essere sopportato se non facendo debiti, ossia rovinando stato, impiegati e paese. A crescere ancora le imposte non bisogna neppure pensare. Le imposte sono giunte ad altezze incredibili. Gli impiegati di fatto non pagano imposte sul reddito allo stato e non sanno che sacrifici costino le imposte a coloro che le pagano sul serio. È vero che sugli stipendi gravano ritenute per circa il 15%; ma se non si vuole prendere le apparenze per le realtà, qual mai impiegato ha calcolato il proprio stipendio sul lordo? Quelle ritenute sono una pura formalità contabile. Ma non significano affatto che l’impiegato soffra sul serio il sacrificio di quelle 15 lire per ogni 100, che del resto lo stato restituisce tutte e ad usura nella pensione. Gli aumenti sono calcolati, previsti, contrattati sulle 85 lire, e vengono arrotondati poi sulle 100 lire per farvi entrare dentro le ritenute. Ma vi sono invece milioni di contribuenti che debbono realmente tirar fuori di tasca parte dei loro redditi per pagare le imposte; e lo stato d’animo che serpeggia tra costoro contro gli impiegati è preoccupante. A me arrivano lettere di gente che soffre la fame e che, godendo di poche migliaia di lire all’anno di reddito, devono togliersi il pane di bocca per pagare imposte, di cui lo stato si servirà per versare gli stipendi agli impiegati. Quei contribuenti, che talvolta stanno uscio ad uscio con coloro che ricevono il frutto dei loro sacrifici e ne contemplano non di rado il tenor di vita più alto, vedono rosso.

 

 

Tutto ciò che è scritto sopra non è detto in odio agli impiegati. Ho l’orgoglio di essere anch’io un servitore dello stato; e ritengo che sia interesse sommo dello stato di avere ai suoi ordini servitori devoti, affezionati, in situazione economica decorosa. Ma se non vogliamo andare incontro al disastro nostro e dello stato, se non vogliamo che i nostri stipendi, nominalmente aumentati in lire, si volatilizzino di giorno in giorno per una ripresa nel rincaro della vita, fatalmente conseguente all’indebitamento crescente dello stato, dobbiamo noi per i primi voler mettere un punto fermo al disordine pazzesco da cui la politica degli stipendi fu contrassegnata negli ultimi anni. L’opinione pubblica, che oggi ci è contraria, diventerà a noi favorevole quando avremo detto: basta con gli aumenti egualitari che distruggono la disciplina, che danno ad un bidello più che ad un professore, ad un cantoniere tanto quanto ad un magistrato! Basta con gli aumenti a casaccio che provocano enormi aumenti di spesa improduttiva e costringono lo stato a far debiti! Basta con le commissioni, che non risolvono nulla e vogliono accontentare tutti! Il ministro del tesoro prenda egli in mano la questione, fissi l’onere massimo che l’erario può sopportare; senta privatamente i competenti, gli impiegati alti ed umili; riduca le funzioni dello stato; e sul letto di Procuste dei 5 o dei 6 miliardi di spesa tenti di far entrare la perequazione degli stipendi che oggi è il desiderio massimo degli impiegati. Un uomo solo potrà sbagliare; ma sicuramente assai meno di molti uomini. Ma egli deve essere sicuro che attorno a lui tutti gli impiegati si stringeranno nel momento della decisione; anche se egli dovrà decidere di licenziare un quinto degli impiegati in carica o di ridurre gli stipendi di coloro che oggi sono troppo pagati. Perché, solo a queste condizioni il problema degli impiegati mal pagati è solubile.

 

 

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