Opera Omnia Luigi Einaudi

L’applicazione della tassa di famiglia a Milano

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1910

L’applicazione della tassa di famiglia a Milano
«Corriere della Sera», 1 gennaio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 3-8

 

 

 

 

La lettura degli estratti dei ruoli della imposta di famiglia che i quotidiani di Milano fanno di questi giorni ha un interesse che non è solo fatto di curiosità di conoscere gli affari altrui.

 

 

Su questa curiosità, del resto, si fondano in parte i moderni sistemi di tassazione diretta, poiché, se essa può condurre ai deplorevoli eccessi delle lettere anonime e di spionaggio invidioso, significa altresì vigile controllo dell’opinione pubblica sull’opera delle commissioni amministrative incaricate di ripartire tra i cittadini l’onere tributario. L’opinione pubblica può fornire preziosi suggerimenti sul modo di ovviare a sperequazioni od occultamenti che risultassero evidenti e può sovratutto rilevare quei punti di principio che fossero meritevoli di attenta considerazione e potessero fornire argomento ad utili riforme. Da questo punto di vista di spettatore, e nell’intendimento di interpretare, ove sia possibile, la voce della opinione pubblica media, sono scritte le presenti note.

 

 

Una prima impressione è che i ruoli della imposta di famiglia sono una prova di civismo delle classi medie ed alte di Milano. Nella lista dei 138 contribuenti con reddito tassabile superiore a 100.000 lire, dei 44 con reddito fra 75.000 e 100.000 lire, dei 141 con reddito fra 50.000 e 75.000 lire, degli 806 con reddito fra 25.000 e 50.000 lire e dei 3.732 con reddito fra le 10.000 e le 25.000 lire passano i più bei nomi della aristocrazia e della borghesia lombarda. Poiché questa è la classe che ha dato moltissimi gregari e la più gran parte dei dirigenti al partito liberale e moderato che si trova al potere nella capitale lombarda; e poiché fu questo partito a volere con energia l’imposta di famiglia, forza è conchiudere che vi è nelle classi medie e alte di Milano un senso della responsabilità del potere, dei doveri sociali della ricchezza ed una percezione consapevole, non frequente tra gli uomini, della necessità di mettere mano alla borsa se si vogliono servizi pubblici rispondenti ai bisogni ed alla dignità di un gran centro di popolazione e di affari, come Milano. I materialisti della storia diranno che il partito liberale ha tassato se stesso, spontaneamente, allo scopo di conservarsi al potere e per non essere tassato più gravemente in seguito, ove i popolari li avessero sostituiti a palazzo Marino. Ma costoro avrebbero reputato egualmente egoistica la condotta dei liberali qualora avessero preferito aumentare le imposte sui consumi o magari si fossero astenuti dalle spese e quindi dalle imposte nuove; ed è lecito non tener conto di siffatte spiegazioni contraddittorie. I ceti dirigenti hanno dato a Milano un nobile esempio di autotassazione, troppo raro perché non abbia ad essere rilevato.

 

 

Il medio lettore, osservando la lista dei 138 contribuenti che si trovano al culmine del reddito tassabile (da 100.000 lire in su), sarà stato probabilmente punto dalla curiosità di conoscere anche per ognuno di essi, come per gli altri contribuenti minori, l’ammontare del reddito individualmente accertato. Questa curiosità non può, per ora, essere soddisfatta, perché, come è noto, tutti i contribuenti da lire 100.000 di reddito in su sono tassati con la quota fissa di lire 3.800. Paga 3.800 lire tanto chi ha 100.000 lire di reddito, quanto chi ne ha 200.000, 500.000 od 1.000.000 di lire. Il che dà luogo ad una sperequazione viva da tutti rilevata; il contribuente con 100.000 lire di reddito paga un’imposta uguale al 3,80% del reddito, mentre chi ne ha 200.000 paga solo l’1,90% e chi ne ha 500.000 solo il 0,76%, e finalmente il fortunato percettore di 1 milione di lire di reddito all’anno solo il 0,38%. L’imposta, progressiva dall’1% per i redditi minimi tassabili al 3,80% per le 80-100.000 lire, diventa poi regressiva.

 

 

Il difetto è destinato a scomparire, perché fu già, a richiesta del consiglio municipale milanese, modificato il regolamento della provincia sulla tassa di famiglia, allo scopo appunto di permettere di prelevare non più lire 3.800 fisse, ma il 3,80% del reddito sui redditi superiori a lire 100.000; cosicché in avvenire, chi avrà lire 100.000 di reddito pagherà lire 800, chi ne avrà 200.000 ne pagherà 7.600 e chi sarà valutato ad 1 milione (se fra i 138 qualcuno giunga a simile fastigio) pagherà 38.000 lire.

 

 

Dalle liste pubblicate sui giornali non si rileva in maniera sicura se il reddito tassabile scritto a fianco del nome dei singoli contribuenti sia il reddito vero, depurato semplicemente dalle imposte e dalle passività, oppure sia il reddito ridotto ulteriormente di 400 lire per ogni membro della famiglia e di un quarto per gli stipendi degli impiegati pubblici e privati conosciuti nel loro ammontare certo.

 

 

Sarebbe cosa utilissima se, chiusi e giudicati i reclami od almeno la maggior parte di essi, ed accertati definitivamente i redditi imponibili, venisse data alla luce una statistica dalla quale risultasse l’ammontare del reddito effettivo, l’ammontare relativo delle detrazioni del quarto e l’ammontare relativo delle detrazioni delle 400 lire; e ciò distintamente per ognuna delle 7 categorie in cui si dividono i contribuenti. È probabile che da questa statistica abbia a risultare che l’importanza relativa di quelle detrazioni, grandissima per i redditi inferiori alle 10.000 lire all’anno, diventa assai meno grande per i contribuenti fra le 10.000 e le 25.000 lire per diventare in seguito irrilevante. Altra prova, se ve n’era bisogno – e potrà quella prova essere corroborata dalle cifre d’imposta effettivamente pagate dalle varie classi – che il peso della nuova tassa di famiglia graverà specialmente sui redditi dalle 10.000 lire in su. Poiché è evidente che, supponendo la famiglia composta in media di persone, una detrazione di 400 x 4 = 1.600 lire ha più importanza per chi ha 2.500 lire di reddito che per chi ne ha 10.000; e maggiore per questi che per chi ne ha 25.000 o 50.000. Ed è altresì evidente che gli stipendi accertabili in misura certa ai quali soltanto si dà la detrazione del quarto, sono sovratutto gli stipendi piccoli e mediocri. Coloro che guadagnano le 10.000 lire e più ancora le 25.000 e le 50.000 lire di reddito non sono quasi mai impiegati a stipendio fisso; bensì sono professionisti, direttori cointeressati, industriali, commercianti, il cui reddito è incerto e a cui quindi non si dà detrazione di sorta alcuna.

 

 

Qui nasce un problema, che lo studio minuto dei ruoli permetterebbe di precisare con esempi calzanti: è corretto trattare tutti i contribuenti dalle 10.000 lire in su quasi alla stessa stregua? Per costoro, già lo si è visto, la detrazione delle 400 lire diventa sempre meno importante ed è inoltre concessa indifferentemente a tutti; ed e per essi poco probabile che siano frequenti le detrazioni del quarto concesse agli stipendi fissi. Tra 5.000 contribuenti, destinati a fornire il nerbo maggiore del tributo, vi sono proprietari di terre, di case, detentori di redditi fissi di capitale e di redditi variabili, industriali, commercianti, professionisti. È corretto tassarli tutti alla stessa stregua, tenendo solo conto della cifra pura di reddito? O non sarebbe più giusto concedere ai professionisti, agli industriali, ai commercianti, che hanno un reddito aleatorio, oscillante, che sovratutto devono prelevare su questo reddito i risparmi necessari a far fronte ad eventualità di malattia, di vecchiaia, di morte, ecc., una detrazione che diminuisse il loro carico tributario in confronto a coloro che vivono del reddito di un capitale e non corrono quindi altrettanti rischi di interruzione del reddito e non sono soggetti ad uguali obblighi di risparmio?

 

 

La risposta al rimprovero di violazione della giustizia tributaria è facile e fu fatta anche, se non erro, dall’assessore per le finanze durante le discussioni consigliari: il commerciante, l’industriale, il professionista provvede da sé ad ottenere questa giusta detrazione: colla frode. Egli denuncia redditi minori del vero e quindi esenta automaticamente dall’imposta la parte non denunciata. La obiezione ha certo un fondamento di vero; ma trascura innanzi tutto il fatto che anche coloro i quali traggono i redditi del capitale possono denunciare redditi inferiori al vero. Non sembra corretto inoltre, che, per punire una possibile frode, si commetta ingiustizia contro coloro a carico dei quali si è potuto constatare il reddito in modo abbastanza esatto.

 

 

Né si può parlare di frodi nelle denuncie da parte dei professionisti, commercianti ed industriali milanesi, i quali non vennero invitati a fare alcuna denuncia, ma furono tassati d’ufficio per somme di reddito presunte, che talvolta saranno inferiori al vero, ma potrebbero anche, come già si afferma da taluni giornali, essere superiori alle somme effettive. Dalle quali osservazioni si deduce quale sia il difetto essenziale dell’imposta di famiglia applicata dalle città: che essa incontra difficoltà grandissime per giungere all’accertamento effettivo dei redditi. È lodevole sicuramente lo zelo con cui l’ufficio milanese delle imposte ha cercato di conoscere i redditi, tenendo conto anche di quelli nascenti fuori della città di Milano. Ma è probabile che gli errori e le dimenticanze non siano state poche. Come si fa a sapere sempre se una famiglia ha redditi aventi origine fuori della città dove abita? Si saranno interrogati i comuni di nascita; ma si possono possedere fondi all’infuori di quel comune o di quell’agenzia dell’imposta. Si possono avere crediti ipotecari tassati al nome del debitore in un comune non immaginabile. Si possono possedere titoli di società non aventi sede a Milano; né è possibile che tutte si siano interrogate; né, interrogate, abbiano fornito notizie complete. Per necessità di cose, per valutare il reddito dei terreni e dei fabbricati fa d’uopo basarsi sulle cifre dei catasti, non essendo in potere di un municipio di costringere lo stato a rinnovarli. Onde i redditi quali figurano sui ruoli milanesi rappresentano fedelmente il vero legale conosciuto e conoscibile dagli uffici locali; ma sono probabilmente disformi – e disformi in proporzioni variabilissime – dai veri redditi effettivi. Il difetto è proprio delle imposte sul reddito; ma diventerebbe meno grave se l’imposta di famiglia o sul reddito fosse di stato. Lo stato ha mezzi più efficaci per conoscere i redditi dovunque nascano, sommarli e conoscerne l’ammontare complessivo. Lo stato può migliorare – ed esso solo può farlo – l’assetto delle imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile su cui si deve basare l’imposta sul reddito per accertare il reddito globale sui contribuenti. Lo stato finalmente può risolvere, annullandola, la questione, gravissima per i comuni, della attribuzione dei redditi alle varie località. In alcuni cantoni svizzeri essendo stata istituita l’imposta progressiva sul reddito, non pochi contribuenti trovarono conveniente trasportare il domicilio nel cantone vicino, dove l’imposta o non c’era od era più mite. Essendo i cantoni sovrani, non si trovò un rimedio radicale contro la concorrenza al ribasso esercitata da taluni cantoni contro gli altri in materia tributaria. Per poco che l’imposta di famiglia si generalizzasse in tutti i grandi comuni ed arrivasse, come a Milano, alla non indifferente altezza del 3,80% sui redditi maggiori, nascerà la convenienza di trasportare il domicilio nei comuni vicini o nei luoghi di villeggiatura per sfuggire ad un’imposta che oggi si ferma a 3.800 lire ma domani potrà arrivare sino a 38.000 lire per i redditi di un milione. La risoluzione delle controversie sul domicilio è una delle più difficili e disputabili in diritto tributario; e le controversie diverranno più complicate quando contro i grossi comuni ad alte imposte staranno, alleati ai contribuenti, i vicini comuni piccoli, concorrenti nell’attirare la clientela degli abitanti ricchi. Il Milanino dell’unione cooperativa, che è fuori del territorio di Milano, non diventerà forse un concorrente tributario della metropoli a cui deve la sua origine?

 

 

Ecco come nel momento in cui sorge la nuova imposta di famiglia a Milano, si pone il problema della sua soppressione, come tributo comunale, e della sua avocazione allo stato. Il passaggio non potrà evidentemente compiersi senza compensi. Quali debbano essere e come il trapasso possa effettuarsi senza squilibri e danni ai bilanci comunali è davvero uno dei problemi maggiori della finanza italiana nel momento presente.

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