Opera Omnia Luigi Einaudi

L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 23/09/1905

L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri

«Corriere della Sera», 23 settembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 244-250

 

 

Il prof. Montemartini, direttore dell’ufficio governativo del lavoro, che già in seno al consiglio superiore del lavoro, insieme coll’on. Chiesa, aveva difeso l’istituto dell’arbitrato obbligatorio per le questioni economiche concernenti i ferrovieri contro le formidabili e vittoriose argomentazioni contrarie, ritorna alla carica nelle colonne della «Critica sociale», con una lettera aperta indirizzata al Murialdi, valentissimo avversario, come tutti ricordano, dell’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri.

 

 

Ammessa l’opportunità di un istituto di giustizia amministrativa il quale risolva le questioni dipendenti dalla interpretazione delle leggi, dei regolamenti e degli organici esistenti (ed il non ammettere ciò sarebbe negare il diritto nei ferrovieri ad ottenere la riparazione dei torti loro cagionati in sfregio delle leggi); non segue che si debba altresì ammettere l’arbitrato obbligatorio per domande di miglioramenti di carriera, di stipendi, di orario che ai ferrovieri piacesse di fare. Non segue, perché qui non si tratta più di diritti lesi, ma di domande che mirano a mutare il diritto esistente; non segue, perché il servizio ferroviario pubblico e monopolistico – non deve essere lasciato in balia degli scioperi; non segue perché al parlamento non può togliersi la facoltà di legiferare in materia di pubbliche spese; e perché ai ferrovieri sono concesse garanzie di stabilità, di carriera, di pensioni, ecc., siffatte, da renderne la posizione al tutto privilegiata e diversa da quella degli operai dell’industria privata.

 

 

Il direttore dell’ufficio del lavoro si accinge a combattere queste ragioni – che egli stesso giudica «formidabili» e che furono difatti accolte, salve l’opposizione sua e di pochi altri, dal consiglio superiore del lavoro, – con una sottile analisi di ognuna di esse. Le sue argomentazioni intorno al servizio pubblico ed al monopolio hanno un carattere soverchiamente dottrinale e poco pertinente al problema. I caratteri di servizio pubblico e del monopolio non bastano, a suo parere, a giustificare il divieto di sciopero e il mantenimento costrittivo della continuità del lavoro; perché lo stato dovrebbe intervenire anche a mantenere la continuità, ad es. della produzione del pane e perché, non essendoci alcun altro mezzo pratico per costringere gli operai a lavorare quando non ne hanno voglia, l’arbitrato facendo appello alla loro coscienza ed ai loro interessi è il miglior mezzo per ottenere appunto la continuità del servizio. Gli argomenti non sono calzanti: il servizio dell’alimentazione, aperto alla libera concorrenza, è ben diverso dal servizio ferroviario. Se oggi i panettieri fanno sciopero a Torino, non si muore certamente di fame, tanti sono i mezzi per far venire il pane dal di fuori, tanto difficile è la completa soppressione della produzione, agevole il ricorso parziale alla produzione di stato (panifici militari), numerosi i temporanei surrogati del pane. Se invece domani scioperano i ferrovieri d’Italia, o anche solo della Lombardia, quali rimedi ci sono, se non insufficientissimi? Quanto alle qualità educative dell’arbitrato obbligatorio, il quale dovrebbe persuadere gli operai a non scioperare mai, noi ne siamo persuasi. Ma ad un patto: che l’arbitro desse sempre ragione ai ferrovieri e che il parlamento non applicasse il lodo arbitrale, caso mai ai ferrovieri riuscisse contrario. È chiaro però che in tal caso meglio varrebbe per i contribuenti un buono e definitivo sciopero che la morte per lenta consunzione.

 

 

Queste in sostanza sono solo fiorettature eleganti del pensiero del Montemartini. Veniamo al nocciolo delle sue argomentazioni. «Non è possibile» avevamo detto noi, avevano dimostrato i senatori De Angeli, Pisa, gli on. Pantano e Murialdi al consiglio del lavoro, «non è possibile togliere al parlamento il diritto di votare le spese pubbliche. Il giorno in cui un arbitro potesse fissare i salari, la carriera, le rimunerazioni accessorie, ecc. ecc., dei ferrovieri, addio controllo del parlamento sulle pubbliche spese! Ministro del tesoro e camera dovrebbero accettare il responso del novissimo vate e limitarsi a pagare lo scotto, con quale enorme regresso politico e grave pericolo finanziario non è mestieri dire». Ribatte il Montemartini: «Funzione del parlamento è quella di stabilire quali pubblici bisogni devono essere soddisfatti, tenendo conto naturalmente del loro costo; ma non è sua funzione di fissare il costo dei servigi e delle merci che vuole consumare. Facendo un esempio, che supponiamo renda il pensiero del nostro avversario: come il parlamento non può fissare i prezzi dei carboni, ma può solo dire: dati i tali e tali prezzi che sono stabiliti dal mercato internazionale, conviene comprarne una data quantità; così rispetto ai ferrovieri non potrà affermare che il loro salario debba essere di 5 o 6 lire, ma potrà dire unicamente: dato il loro salario di 5 o 6 lire, conviene assumere in servizio 100.000, ovvero solo 90.000 ferrovieri; sostituendo gli altri con macchine, ecc. ecc.? Che tecnicità può avere, prosegue egli, il parlamento a determinare caso per caso le condizioni del lavoro? E ad ogni modo potrà il parlamento, in questa determinazione, sottrarsi all’impero delle leggi economiche? Se esso determinerà un prezzo troppo basso, non troverà lavoratori adatti all’impresa; se determinerà prezzi troppo alti, creerà salari privilegiati ed artificiali. Lo stato non varia forse il saggio degli interessi e delle rendite che paga ai capitalisti ed ai lavoratori, a seconda delle oscillazioni del mercato? Perché dobbiamo ritenere che solo per il lavoro la rimunerazione sia costante e irrevocabilmente invariabile?»

 

 

Rispondiamo subito – prima di procedere innanzi – che il Montemartini, ansioso di partire brillantemente in guerra contro un fantastico tentativo medioevale dello stato di fissare per legge prezzi ed i salari, si è per un istante dimenticato di guardare ai fatti. Sì, è vero: il parlamento non può fissare i salari dei ferrovieri, come non può fissare i prezzi del carbone; non può obbligare il carbonaio di Cardiff a vendere il carbone a 1 scellino meno la tonnellata del prezzo di listino, come non può costringere i lavoratori ad accettare da lui 4 lire quando altrove possono riceverne 5. Nessuno vuole, oggi, ristabilire la servitù personale e l’obbligo al lavoro, almeno sino a tanto che non si sia giunti al regime del socialismo completo. Non anticipiamo i tempi auspicati, a quanto pare, dal Montemartini; e limitiamoci a guardare a quello che lo stato fa e deve fare nell’assunzione dei suoi impiegati. Se guardiamo ai fatti, risulta chiaro che lo stato non può, per numerose ragioni, conoscere il valore dei servigi personali di cui ha bisogno; avendo di solito bisogno di lavoratori diversi da quelli impiegati nell’industria privata e dei quali sul mercato non è fissato il prezzo. Un industriale può pagare 5 lire all’operaio abile e 4 all’operaio meno buono; lo stato no. Figuriamoci che strilli il giorno in cui lo stato pagasse ad un professore d’università veramente illustre e veramente grande uno stipendio di 25 o 50.000 lire (che non sarebbe troppo) e alla massa degli altri professori seguitasse a pagare le solite 5.000 lire! Il minor male possibile sarebbe che le 50.000 lire le beccherebbe un intrigante mediocre e ciarlatano e che lo scienziato veramente grande resterebbe a far la figura del mediocre; finché tutti, grandi e mediocri, per evitare il peggio, finirebbero per accordarsi a dare le 50.000 lire al più vecchio a turno, a guisa di premio di anzianità. Come per i professori, così accadrebbe per tutti gli altri impiegati, alti e bassi, dello stato. Il quale perciò appunto ricorre al sistema dei concorsi; e fissa i salari che paiono possibili e ragionevoli in rapporto alle sue finanze, dicendo a tutti: quelli che ritengono sufficienti i salari da me offerti, si presentino al concorso. I migliori saranno scelti: s’intende, i migliori in rapporto ai salari ed alle altre soddisfazioni offerte agli impiegati governativi. Dunque lo stato non si sottrae, né può sottrarsi, come benissimo dice il Montemartini, all’impero delle leggi economiche; e se vorrà ottenere lavoratori adatti dovrà per forza offrire salari sufficienti ad attrarli. Né si cianci di scarsa capacità tecnica del parlamento a determinare il livello dei salari sufficiente ad attirare i lavoratori; perché gli studi in proposito sono fatti prima dall’amministrazione tecnica competente, precisamente come dovrebbero essere fatti da qualcuno per il futuro arbitro. O che forse si crede che l’arbitro (probabilmente un uomo di toga) sarà sempre un tecnico competente, e che di tecnici competenti non ve ne saranno mai in parlamento, almeno tali da poter giudicare i dati di fatto preparati dall’amministrazione?

 

 

Né si affermi che lo stato tratta in modo diverso i lavoratori dai capitalisti; perché lo stato tratta, quando può, nel medesimo modo, capitalisti e lavoratori. O che forse lo stato, quando chiede una somma a prestito, si obbliga a variare l’interesse, dietro richiesta dei risparmiatori, quando lo sconto sul mercato sia variato?

 

 

Nei prestiti perpetui e consolidati – forma sempre più preferita dagli stati – l’unica variazione possibile per i risparmiatori è nel senso del ribasso. Il Montemartini cita la conversione della rendita a corroborare la sua tesi; e non si accorge che lo stato al più, nel caso di mala riuscita, continua a pagare l’interesse di prima. Bel costrutto ricaverebbero i ferrovieri da un arbitrato col quale si potesse discutere solo se convenga ribassare e mai aumentare i salari!

 

 

Il paragone colla conversione della rendita il Montemartini l’aveva tirato fuori per dire che al tesoro devono essere consentite tutte quelle condizioni di libertà che gli permettono di giovarsi delle buone condizioni del mercato. Il che sarebbe giusto se, come nel caso della conversione, il tesoro potesse dire, ad esempio, ogni dieci anni, e, s’intende, a suo rischio e pericolo: ferrovieri dello stato, io vi dò un anno di tempo ad accettare una diminuzione di salario; se non accetterete, io vi surrogherò con altri lavoratori, che frattanto andrò addestrando sulle mie linee. Non è però questo sistema – pericoloso e costoso per molti versi – e neppure l’inverso che si vuole; ma si vuole dare ad un terzo, chiamato arbitro, il diritto di imporre al tesoro il pagamento di certi salari piuttostoché di certi altri. Questa sì è fissazione medievale di prezzi e di salari, ed un ritorno alla vieta politica delle corporazioni chiuse d’arti e mestieri!

 

 

Un privato industriale, il quale si vegga imposto dall’arbitro un salario incomportabile, ha almeno la libertà di cessare di produrre. Magra soddisfazione e grossa rovina a cui non pensano tutti i panegiristi dell’arbitrato obbligatorio neozelandese ed australiano, i quali non si sono mai posti il problema delle industrie che laggiù non esistono e del lavoro fecondo che non si può svolgere per la politica protezionista del partito operaio del mondo nuovissimo. Ma lo stato non ha nemmeno questa soddisfazione. Non potrebbe cessare di esercitare le ferrovie, solo perché l’esercizio è troppo caro; e neppure ridarlo all’esercizio privato. I contribuenti sono lì, pazientemente pronti a pagare le spese; e subito eleganti sofisti dimostrerebbero che le ferrovie non costano caro perché i ferrovieri pretendono troppo, ma per causa del militarismo che ha fatto costrurre ferrovie strategiche, o del capitalismo che voleva far prestiti allo stato, o del regionalismo che pretese le ferrovie elettorali; e chi più ne ha più ne metta. Altro che vederci più chiaro nelle aziende di stato che nelle aziende private, come il Montemartini pretende, per dimostrare che l’arbitrato obbligatorio sarebbe più opportuno per i servizi pubblici, dove tutto è limpido come cristallo, che non per le industrie private, rese misteriose dall’ingordigia dei capitalisti! è questa la penultima affermazione sua. L’ultima è che ai ferrovieri non possa negarsi, malgrado l’organico, malgrado la carriera sicura e progrediente, malgrado la pensione, ecc., il diritto ad un elevamento progressivo del loro tenor di vita. Qui basti rispondere: credete davvero che il parlamento, organo aperto a tutte le correnti e a tutte le pressioni dell’opinione pubblica, sia meno in grado di un arbitro qualunque di valutare quelle mutate condizioni economiche che consigliano un elevamento nel tenor di vita dei ferrovieri? Non foss’altro la diserzione degli elementi migliori dai nuovi concorsi dovrebbe consigliare ad una amministrazione intelligente di migliorare organici e stipendi nel suo proprio interesse.

 

 

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