Opera Omnia Luigi Einaudi

L’azione delle leghe ed i turni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/06/1903

L’azione delle leghe ed i turni

«Corriere della Sera», 30 giugno 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 58-62

 

 

La «serrata» di Genova ha una importanza la quale trascende i confini di una disputa locale. Dalle accuse delle leghe e dalle difese dei negozianti, si ha l’impressione che, nonostante l’appoggio dato agli operai dall’opinione pubblica, dai giornali e dal governo, i negozianti abbiano avuto – insieme ad una indiscutibile mancanza di tatto e ad una ostinazione eccessiva – il merito di porre innanzi nettamente un problema fondamentale nei rapporti fra imprenditori e leghe: debbono cioè gli imprenditori rinunciare ad ogni libertà di scelta della propria maestranza ed accettare senza discussione gli operai designati dalle leghe?

 

 

Posta in questo modo, la questione può essere discussa senza animosità di parte, poiché è una questione, la quale è viva in molti paesi da molti anni ed a cui si sono date soluzioni differenti e controverse. Noi oggi vogliamo soltanto riassumere quanto intorno a questo punto capitale si legge in quel libro che può essere veramente chiamato la bibbia delle leghe: l’Industrial Democracy dei coniugi Sidney e Beatrice Webb. Com’è noto, questa coppia geniale di coniugi ha scritto l’opera più importante finora pubblicata sul trade-unionismo inglese. Inspiratori della socialista Fabian Society, apostoli di un nuovo ordine sociale, studiosi appassionati del movimento operaio, i coniugi Webb hanno innalzato con la loro Storia del trade-unionismo e con la loro Democrazia industriale, un monumento perenne di gloria alle classi operaie del loro paese. La loro parola non può quindi essere sospetta agli operai; i quali anzi nei libri dei Webb possono andare a leggere la giustificazione della loro opera passata e lo sprone a conquiste future.

 

 

Quale è la causa, essi si chiedono, delle lotte le quali avvengono spesso nei lavori dei porti? La risposta è semplice. Se il lavoro fosse costante e regolare esisterebbe un certo numero di operai continuamente occupati, né ad altri operai verrebbe in mente di andarsi ad offrire ogni giorno per un lavoro che non esiste. Gli imprenditori avrebbero a fare con una maestranza poco variabile e suppergiù corrispondente ai loro bisogni; e dovrebbero servirsi degli operai del mestiere, siano affiliati o non alle leghe. Invece il lavoro dei porti è variabile e saltuario; un giorno si espande straordinariamente e richiede 100 operai; ed il giorno dopo si contrae e si contenta di 50. Di qui la necessità assoluta di una massa fluttuante di operai, i quali vengono occupati nei giorni di gran ressa e lasciati inoperosi nei giorni di morta. La massa operaia si accresce ancora per il fatto che – sia per le qualità di forza richieste nei facchini, sia per la stessa saltuarietà del lavoro – il salario giornaliero è abbastanza alto; sicché moltissimi uomini forti e giovani vengono attratti sul porto dalla speranza di guadagnare le 10, le 15 e le 20 lire al giorno; e colla loro presenza concorrono a scemare le probabilità di potere ogni giorno essere occupati.

 

 

Il problema a cui si trovano di fronte le leghe è dunque assai complesso. Le leghe non vogliono lasciare ogni libertà agli imprenditori perché, se esse permettessero ai negozianti di contrattare individualmente con ogni facchino, i negozianti si gioverebbero della massa disoccupata per giocare al ribasso dei salari. Non si sa dove il ribasso potrebbe finire e quanto potrebbero essere depresse le condizioni dei lavoratori. Sarebbe il dominio incontrastato dei mediatori (leggi a Genova dei «confidenti»). Se qualcosa devono fare le leghe per assicurare condizioni buone di salario e per garantire contro i mali della disoccupazione cronica gli operai dei porti, il problema è però tanto complicato da non doversi meravigliare «se nessuna trade-union (sono i coniugi Webb che parlano) è riuscita sinora a trovare un metodo per assicurare la continuità di impiego agli operai».

 

 

Se dunque è un principio fondamentale del trade-unionismo di lottare contro la irregolarità e la incostanza del lavoro, è ben vero che i metodi adottati male riescirono allo scopo. Farsi pagare un salario fisso giornaliero, sia che si lavori o no: questa è la prima idea che viene in mente agli operai. Dopo il grande sciopero del 1889 gli operai dei docks di Londra fecero trionfare il principio che ad ogni facchino iscritto sulle liste fosse garantito il salario di almeno 4 ore di lavoro al giorno, libero l’imprenditore di occuparlo e di pagarlo per un numero maggiore di ore. Il metodo è malvisto dagli imprenditori a cui aumenta moltissimo le spese in tempo di morta; ed in definitiva non torna utile agli operai meno forti, i quali si vedono esclusi dalle liste e concorrono a formare una riserva di disoccupati, posta fuori dalle leghe e pericolosa alla conservazione dei salari da esse fissati.

 

 

Un altro metodo è quello a cui ricorsero anche le leghe di Genova: il turno. Il metodo del turno in Inghilterra rimonta al 1669 ed ha per iscopo di assicurare all’operaio una certa probabilità di lavoro, sì da renderlo meno propenso ad andarsi ad offrire a salario ridotto. Il metodo non è esente da gravi pecche; fra cui gravissima quella che esso «può degenerare nella abolizione assoluta per l’imprenditore di ogni facoltà di scelta dei suoi operai». Così ad esempio, seguitano i Webb, «la lega dei vetrai prescrive all’imprenditore di assumere il socio da più lungo tempo disoccupato, sia che egli sia abile o conveniente o no; e la lega degli operai in cappelli di seta espressamente impone che l’imprenditore non possa nemmeno vedere l’operaio assegnatogli prima di stipulare il contratto». Si vede che tutto il mondo è paese e che le lagnanze dei negozianti di Genova trovano il loro riscontro in altre epoche ed in altri paesi.

 

 

In altre guise si può tentare di raggiungere lo scopo: riducendo il lavoro di ogni operaio ad un certo minimo che le leghe proibiscono di oltrepassare. Se, quando scarseggia il lavoro, nessun operaio fa un lavoro maggiore di 10, mentre nello stesso tempo potrebbe fare un lavoro come 20, sono tanti operai in più, ragionano le leghe, i quali saranno impiegati per fare il lavoro supplementare. È la famosa pratica, detta in gergo operaio ca-canny, contro cui insorsero veementemente due anni fa i «Times» in una serie di articoli, i quali ebbero la virtù di commuovere la opinione pubblica inglese, spaventata dalla concorrenza del Nord America, dove gli operai non hanno per la testa la fisima di lavorar poco per procurare lavoro ai compagni disoccupati. Quasi che il lavoro da farsi fosse una quantità fissa e che, crescendo il costo del lavoro, non diminuisse il consumo delle merci.

 

 

Ancora: gli operai che devono lottare con la disoccupazione cronica ricorrono al rimedio di impedire l’entrata nel mestiere ad altri operai, quando il numero dei soci delle leghe appaia sufficiente al bisogno. In tal guisa essi riescono bensì a tener alti i loro salari, ma attirano anche una folla di operai avventizi dagli altri mestieri, i quali riescono di tanto in tanto a lavorare e nei momenti di pericolo sono un’arma in mano agli imprenditori per la riduzione dei salari.

 

 

Nessuno dunque dei metodi finora descritti regge alla critica dei coniugi Webb, che pur sono, come dicemmo, filosofi e teorizzatori benevoli del trade-unionismo. L’obbligo di pagare a tutti gli iscritti un certo salario ossia di garantire a tutti un minimo di lavoro, il turno, la diminuzione dell’operosità dei lavoratori, gli impedimenti frapposti all’entrata nel mestiere, ecc. ecc., sono tutti metodi difettosi, perché tendono a creare un monopolio più o meno larvato a favore degli operai leghisti. Come tali la pratica si incarica dopo breve tempo di dimostrarne l’inanità. Tutte le volte che gli operai hanno cercato di elevare attorno a sé una barriera per difendere salari superiori al saggio del mercato, sempre la marea montante degli esclusi arriva a sormontare ed abbattere le dighe. Il mercato del lavoro è troppo mobile perché alla lunga possano durare i tentativi di monopolizzazione.

 

 

Altri sono i metodi essenzialmente moderni, di cui i coniugi Webb si sono fatti paladini: il salario normale e la giornata di lavoro normale per mezzo del contratto collettivo. In sostanza essi dicono: le leghe non devono porre nessun impedimento alla libera scelta degli imprenditori, non debbono pretendere i turni o ridurre la quantità di lavoro di ogni operaio. Esse debbono chiedere una cosa sola: che nessun operaio guadagni meno di un certo salario e lavori più di un certo tempo fissato per contratto collettivo; ad esempio meno di 10 lire per giornata normale di 10 ore. Chiedendo ciò essi garantiscono gli operai contro gli abusi dei contratti individuali, i salari della fame e le giornate eccessive. Né danneggiano l’industria, perché gli imprenditori assumeranno soltanto quegli operai che siano in grado di guadagnare le 10 lire; e lentamente si produrrà quindi una selezione fra operai, di cui i meno capaci od i meno forti saranno respinti verso altre industrie dove il tenor di vita sia meno alto e le esigenze di abilità e di forza meno elevate.

 

 

Fra queste due categorie degli ottimi, prescelti dai negozianti a lavorare permanentemente, e degli esclusi, perché incapaci a guadagnare gli alti salari vigenti nei porti, verrà una categoria intermedia, dei mediocri, che saranno impiegati nei soli giorni di lavoro superiore al minimo normale. Per questi, aggiungiamo noi, non sarebbe male che i negozianti (i quali già esercitarono la loro libertà di scelta rispetto agli ottimi), in via di equità distribuissero uniformemente il lavoro fra gli operai presenti sul porto e che non si fossero dimostrati incapaci a guadagnare il salario normale fissato per contratto collettivo.

 

 

Noi non possiamo fare altro che accennare all’idea madre informatrice di un libro che riassume l’opera secolare delle leghe inglesi. È un’idea che è ben lungi dall’essere dappertutto attuata nel paese dove ebbe sua origine. Non è quindi a stupire che in Italia le masse operaie, le quali pure in questi ultimi anni diedero prova di tanta insospettata capacità organizzatrice, si attardino in metodi – come il turno senza libertà di scelta per i negozianti – condannati come vieti dai più insigni difensori del movimento operaio. Gli operai genovesi, i quali hanno stavolta l’opinione pubblica unanime in loro favore, dovrebbero profittarne per rivedere le parti meno accettabili dei loro principi d’azione. Già forti adesso, diventerebbero elemento davvero permanente della vita del grande porto italiano.

 

 

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