Opera Omnia Luigi Einaudi

Le condizioni di successo del lodo bianchi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 30/08/1921

Le condizioni di successo del lodo bianchi

«Corriere della Sera», 30 agosto 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 315-320

 

 

 

Il sistema di compartecipazione delineato nel lodo Bianchi non è una novità senza precedenti nell’agricoltura. In tutta Italia ed anche nel cremonese, i contadini sono spesso cointeressati nella produzione, con la mezzadria, la colonia parziaria, la partecipazione a certi prodotti. Dopo le classiche dispute sulla eccellenza o meno di tali contratti di partecipazione, si era rimasti press’a poco d’accordo tutti, teorici e pratici, che non esistesse alcun contratto agrario, né la mezzadria toscana, né l’affitto lombardo, né il salariato fisso od avventizio, né la conduzione in economia; nessun tipo di proprietà, grande, media o piccola, il quale potesse vantare un grado superiore ed indiscutibile di eccellenza sugli altri. È pacifico che il problema della massima produzione della terra e del massimo benessere dei contadini è suscettivo di infinite soluzioni; e che la soluzione ottima in pianura è pessima in collina o in montagna; che ciò che va bene per la vite va male per l’olivo; che il contratto utile per una bergamina irrigua è dannoso per la coltura asciutta a cereali; che la dimensione migliore del podere nelle risaie del vercellese è disadatta alla fattoria del Tavoliere delle Puglie.

 

 

La sola affermazione sicura, assiomatica che ragionevolmente può farsi intorno al lodo Bianchi è dunque questa: che se un legislatore insano volesse estenderlo a tutta Italia, od anche solo all’Alta Italia, o persino soltanto alla pianura lombarda, cagionerebbe un disastro senza nome; che quel lodo non può essere preso ad esempio da altri organizzatori, da altri contendenti in altre zone agrarie, senza esporsi ad un insuccesso certissimo.

 

 

Tutto il resto è dubbio. Può darsi che il sistema Bianchi abbia qualche probabilità di successo nel Soresinese, date certe particolari condizioni di terreno, di coltura, di educazione agraria. Le difficoltà da sormontare sono tuttavia formidabili.

 

 

Le difficoltà maggiori nascono dal fatto che, dopo pagati i salari e gli interessi, secondo criteri fissi, bisogna dividere ogni anno od alla fine della locazione un utile netto. Non c’è nozione, non c’è fatto che sia così controverso come quello dell’utile netto di un’azienda industriale od agraria. È facile dividere per metà, per terzi, 100 quintali di frumento; ma è difficilissimo calcolare quale sia l’utile netto che dà la produzione di quei 100 quintali di frumento. Peggio, quale sia l’utile netto di un allevamento di bestiame grosso o piccolo. Non uno su mille tra gli agricoltori italiani è in grado di calcolare quella cifra. Di fatto, coloro che fanno questi calcoli sono in proporzione grandemente più piccola di quella di uno su mille. Bisogna tenere una contabilità che non sia quella semplice di entrata e di uscita, la quale non dice nulla. Fa d’uopo impiantare inventari di consistenza e di valore, stimare quali siano gli ammortamenti da apportarsi alle macchine agricole, alle scorte, quale sia la fertilità residua lasciata nel terreno ad ogni anno dalle concimazioni.

 

 

Il lodo Bianchi vuole che, a dirimere queste difficoltà ed a giungere alla scoperta dell’utile netto da ripartire, accanto al conduttore si mettano due delegati dei contadini, nominati per due anni, incaricati di rivedere i conti, di riferire ai contadini, di reclamare ai probiviri. Quando si pensi che uno spostamento all’insù della quota di ammortamento delle singole attività dell’azienda può bastare a fare scomparire l’utile dell’annata e forse a convertirlo in una perdita, agevolmente si comprenderà la delicatezza estrema del compito dei due commissari contadini, i sospetti che li circonderanno quando essi consentano ai criteri contabili del conduttore, i pericoli di rovina dell’azienda quando essi indulgano all’umano desiderio dei contadini compartecipanti di vedere fissato l’utile netto in una cifra alta.

 

 

L’esperienza ha provato che i sistemi di compartecipazione non aboliscono le lotte fra imprenditori ed operai; le spostano su un altro piano. Invece di lottare o scioperare per il salario, si lotta o si sciopera pro o contro l’ammissibilità e la valutazione di una spesa. Comincia qui a vedersi quale sia la condizione fondamentale per la riuscita dell’esperimento soresinese: un grande spirito di tolleranza, di pazienza e di rinuncia manifestato per anni ed anni. Per poter dividere un buon utile finale, al termine della locazione, bisognerà fare dei gran tagli sugli utili annui, immediati. Avranno i contadini questo spirito di rinuncia?

 

 

La prova del fuoco l’avremo negli anni di perdita. Finché i prezzi saranno buoni e si ripartiranno utili, tutti saranno contenti. Ma se, alla fine di un anno, i conti diranno che le perdite hanno mangiato le riserve e consumato una parte delle 4.000 lire o più versate dai contadini, quale sarà la faccia di costoro? La storia delle cooperative e delle partecipazioni registra a questo punto sbandamenti su vasta scala. Se si piglia in mano una statistica per età degli sperimenti cooperativi e partecipazionistici, si vede che la durata del maggior numero è di pochissimi anni. Il numero rimpicciolisce stranamente se andiamo verso le lunghe durate. Litigi, malintesi, incompatibilità tacciono quando si guadagna; scoppiano veementi quando si perde.

 

 

È una «conquista» l’abolizione del salariato; ma, contabilmente, essa si riduce a sostituire, ad un guadagno fisso e conosciuto, un guadagno aleatorio, per circostanze indipendenti dal lavoratore. Il contadino dovrà aggiungere o togliere al o dal salario fisso di 4.000 lire all’anno, per ipotesi, la sua quota di utili o di perdite nette. Con la mezzadria, il reddito del contadino è altresì incerto; ma, se va male, egli può darne colpa solo al cielo, al tempo, all’acqua, alla siccità, alla grandine, ecc. ecc., tutti elementi contro cui egli è impotente. Col sistema Bianchi, il contadino, in anni di perdita, incolperà altresì il conduttore di essere incapace a comprare od a vendere bene il bestiame; di avere scelto il momento cattivo per fare i contratti del formaggio; di essersi affannato a comprare i concimi, quando il mercato era in rialzo, invece di cogliere il momento, che ci fu, dei prezzi bassi. Saranno recriminazioni acerbe contro i due delegati o commissari o controllori; sicché questi, per coprirsi le spalle, vorranno, dopo i primi sbagli, ottenere il consenso preliminare dei compartecipanti ad ogni operazione importante da farsi. Addio, direzione libera ed intraprendente del conduttore! Addio, disciplina, comando, ubbidienza!

 

 

Il conduttore, che oggi può comperare e vendere, dove e quando crede, perché la decisione tocca soltanto la sua borsa, dovrà ottenere il consenso dei compartecipanti. La sua figura tende a diventare quella di un impiegato. I contadini del cremonese hanno voluto tagliargli le unghie, perché si sono avveduti che negli anni dal 1916 al 1920, ossia in anni di prezzi crescenti, i fittabili hanno lucrato assai. Ma non tutti gli anni sono di prezzi crescenti; e se, come è necessario, lo stato adotterà una politica monetaria severa, per lunghi anni, forse per decenni, attraverso ad oscillazioni momentanee, avremo prezzi in discesa. I profitti saranno duri ad ottenersi e si otterranno solo da coloro che sapranno diminuire i costi e lavoreranno sodo. È dubbio se il tipo dell’imprenditore agricolo costrutto col lodo Bianchi sia il tipo migliore per ottenere profitti in anni duri. L’interesse prevalente in lui è quello dell’impiegato. Il grosso del suo reddito gli sarà fornito dallo stipendio fisso, dai piccoli lucri che egli potrà ottenere gonfiando le spese, dalle diarie per le sue assenze nell’interesse dell’azienda – quanti viaggi sui mercati dei dintorni saranno messi in conto dai conduttori e come facilmente i due delegati consentiranno a farsi condurre con lui per vedere come vanno i prezzi! – in misura assai minore dell’utile netto, che egli dovrà ripartire con altri. Inoltre le 12, 50, 8 e 6 lire per pertica sono lo stipendio fisso per lui; non per altri. Oggi, in una famiglia di fittabili, tutti lavorano: la moglie, i figli, i ragazzi; e nessuno riceve uno stipendio, perché il residuo netto spetta tutto al fittabile. Domani, in regime di stipendio, moglie, figli e ragazzi del fittabile incrocieranno le braccia, se non saranno pagati con un salario decente, quello portato dal patto colonico. In anni normali, che non siano di prezzi crescenti per eccesso di carta-moneta emessa dallo stato, bastano, immagino, queste aggiunte di costi per mangiare qualsiasi reddito netto ed al di là.

 

 

La riuscita del contratto di partecipazione poggia tutta sull’efficacia che la speranza di ottenere un utile ha sulla produttività del lavoro umano. È una bilancia in più o in meno. In meno c’è il minor interesse del fittabile a produrre a costi bassi per l’interesse prevalente a crescere i costi proprii, l’interesse dei due controllori a sostituire il facile e poco redditizio lavoro del controllo a quello più duro dell’aratro e della stalla, il sospetto del contadino che gli utili netti si volatilizzino per incapacità del conduttore ed incuria dei controllori; in più c’è, oltre la speranza dell’utile, l’interesse a diminuire la mano d’opera occupata nell’azienda.

 

 

Il tratto più caratteristico del lodo Bianchi è la sua tendenza a costituire una aristocrazia di contadini compartecipanti al di sopra di una classe di avventizi, privi del diritto alla partecipazione. Gli organizzatori rossi si sono già impadroniti dell’argomento e ne fanno un capo d’accusa contro l’on; Miglioli, che pare un tempo si fosse fatto paladino dei disoccupati ed avesse preteso l’occupazione di un numero minimo di lavoratori in ragione di perticato. Oggi il lodo invece dice: non meno di 5, ma anche non più di 10 compartecipanti per ogni 400 pertiche. Gli altri saranno possibilmente spostati da azienda ad azienda; ché, se non si troverà per essi occupazione, si arrangino. Non conosco i luoghi; ed ignoro se il massimo di 10 sia molto o poco. In ogni caso, la regola anticipa un fatto universale nelle cooperative di produzione e nelle compartecipazioni, le quali vogliono resistere alle inevitabili bufere economiche. Una cooperativa di produzione aperta a tutti, senza limite, è votata sicuramente al disastro. Riuscirono solo quelle cooperative e compartecipazioni nelle quali una aristocrazia scelta mise alla porta i fannulloni, gli intriganti, i prepotenti, i chiacchieroni, gli organizzatori e simiglianti germi di dissoluzione; e ammise i buoni, ma corti di intelletto, o deboli di corpo, o instabili per indole, a titolo di avventizi da pagarsi a giornata od a cottimo, senza diritto di ficcare il naso negli affari sociali. L’avere riconosciuto subito, fin dal primo momento questa ineluttabile necessità di serrare le porte in faccia agli incapaci ed agli immeritevoli, è probabilmente l’unico tratto singolarmente degno di plauso nel lodo Bianchi.

 

 

Basterà esso ad assicurare la vittoria all’esperimento soresinese, contro i tanti elementi di lotta, di discordia e di incertezza che esso presenta? Sapranno i compartecipanti ed i conduttori, tratti dall’interesse comune ad essere duri verso gli esclusi, essere tolleranti e concordi e pazienti tra di loro? Se lo spirito infernale di odio e di invidia scatenato da Carlo Marx inspirerà coloro che, sotto la bandiera bianca di Cristo, rabbiosamente contesero sino a ieri nel Soresinese, la rovina è certa. Non conosco l’on. Miglioli ed i suoi organizzatori e non so se essi siano capaci e desiderosi di predicare invece, per gli anni buoni e per gli anni tristi, la parola d’amore e di rinuncia di san Francesco.

 

 

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