Opera Omnia Luigi Einaudi

Le differenze caratteristiche fra il tipo dell’imposta unica e il tipo dell’imposta trentennale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1919

Le differenze caratteristiche fra il tipo dell’imposta unica e il tipo dell’imposta trentennale

«Il Contribuente italiano», novembre-dicembre 1919, pp. 5-10

 

 

 

Espongo qui le caratteristiche di una sola fra le differenze esistenti fra il primitivo progetto di decreto presentato dal comitato di redazione verso la fine di settembre ed il decreto legge quale fu definitivamente pubblicato il 26 novembre.

 

 

Le due serie di aliquote si possono confrontare così:

 

 

Patrimoni imponibili

1

Primo progetto

Decreto definitivo

Aliquota lorda %

2

Aliquota netta %

3

Aliquota totale

4

Aliquota annua

5

Valore attuale al 5% della aliquota annua

6

20.000

5

3.33

5

0.167

2.57

50.000

7.19

4.80

5.94

0.198

3.04

100.000

9.96

6.64

6.68

0.228

3.48

200.000

13.09

8.73

7.73

0.258

3.96

500.000

17.42

11.61

9.19

0.306

4.70

1.000.000

20.65

13.77

10.47

0.349

5.36

2.000.000

23.93

15.96

11.93

0.398

6.12

5.000.000

28.04

18.70

14.19

0.473

7.27

10.000.000

31.01

20.68

16.18

0.539

8.28

20.000.000

33.85

22.57

18.44

0.615

9.44

50.000.000

37.43

24.96

21.93

0.731

11.23

100.000.000

40

26.66

25

0.833

12.80

 

 

Le cifre indicate nella colonna 2 ed in quella 4 hanno un valore che è soltanto formale. La prima, perché il contribuente poteva rinunciare a ritirare i titoli del prestito, pagando, in tal caso di rinuncia, solo le aliquote della colonna 3, le quali perciò sono le vere aliquote di imposta straordinaria dovuta dal contribuente; la differenza fra 2 e 3 essendo puramente il prezzo di una sottoscrizione volontaria ad un titolo di prestito cosidetto forzoso. Così pure possiamo trascurare nel decreto definitivo la colonna 5, che è la semplice somma aritmetica delle aliquote di imposta dovute di anno in anno durante il trentennio (col. 5). Per potere avere una cifra paragonabile all’onere di imposta unico del primitivo progetto bisogna scontare al momento attuale le trenta annualità di imposta indicate nella colonna 5; il che appunto fu fatto nella colonna 6, adottando il saggio di sconto del 5%. Le due colonne paragonabili esattamente tra di loro sono quelle 3 e 6; dal confronto delle quali si deduce che la gravezza del tributo è notevolmente diminuita dal primo al definitivo progetto e che la diminuzione cresce col crescere del patrimonio. La riduzione in tesi generale pare a me assai ragionevole:

 

 

1)    perché dell’onere di una imposta non si può mai giudicare guardando ad essa sola, ma introducendo questa nel complesso delle imposte. E nel caso presente l’imposta straordinaria sul patrimonio, divenuta trentennale e di fatto destinata ad essere fatalmente prorogata dopo il trentennio, si innesta colle imposte normali e su quella complementare sul reddito; e con esse assoggetta il contribuente a falcidie gravissime, le quali paiono sopportabili solo perché la guerra ci ha abituati a parlare di taglie del 20, del 30 del 50 e del 60 per cento sui profitti di guerra, taglie che sempre furono, sono e saranno pazzesche e delittuose se riferite ai redditi ed ai patrimoni dei tempi di pace;

 

2)    perché fa d’uopo non dimenticare la norma sapiente che le aliquote non debbono essere feroci, se non si vuole spingere i contribuenti ad una resistenza accanita e se non si vuole perciò danneggiare la finanza. Quanto all’andamento dell’aliquota rispetto ai diversi gradi di ricchezza, un giudizio fondato non potrebbe darsi se non esaminando questa imposta in congiunzione con quella complementare sul reddito e tenendo conto delle detrazioni accordate per varii motivi ai contribuenti; il che sarebbe un discorso non privo di interesse, ma estraneo all’oggetto del presente articolo.

 

 

La differenza essenziale tra i due tipi, che chiamerò prima e seconda, di imposta è questa: che il primo tipo si riferiva ad una imposta unica, da pagarsi una volta tanto, sebbene ripartita in annualità, quattro se il patrimonio del contribuente era costituito per meno di un quarto da beni immobili, sei se gli stessi beni immobili concorrevano nella proporzione di almeno un quarto a formare il patrimonio netto, otto se vi concorrevano per almeno tre quarti. Ma la ripartizione in annualità non aveva alcuna influenza sulla valutazione e sull’ammontare del debito netto di imposta; non sulla valutazione, perché il patrimonio tassato era sempre quello al 31 dicembre 1919; non sull’ammontare, perché chi si giovava della facoltà di frazionamento doveva pagare sulle annualità prorogate successive alla prima l’interesse del 5 per cento.

 

 

Invece il secondo tipo si riferisce ad una imposta rateata in trenta anni su basi imponibili varianti di quinquennio in quinquennio. Il debito d’imposta non è cioè fisso in base al patrimonio posseduto dal contribuente al 31 dicembre 1919; ma è fissato su questa base solo per il primo sessennio poi la base è data dal patrimonio imponibile valutato al 31 dicembre 1925; per il terzo la base di valutazione è alla data del 31 dicembre 1933 e così

via.

 

 

Le sostanziali differenze, le quali scaturiscono da questa diversa maniera di concepire l’imposta patrimoniale, sono le seguenti:

 

 

  1.       I.        È diverso l’oggetto o la base imponibile del tributo. Fisso ed immutabile l’oggetto nel primo tipo, mutevole nel secondo tipo. Non potevasi, si può chiedere, conservare la fissità della base anche nel secondo tipo? Non si poteva, ad esempio, accertare a carico di Tizio un debito di imposta di 30.000 lire (colonna n. 4), dividendo in 30 annualità di 1.000 lire l’una (colonna n. 5) e costituirlo debitore per un trentennio dell’annualità di lire 1000?

 

 

Si, era possibile; ma le modalità avrebbero dovuto essere queste:

 

 

a)    se Tizio era proprietario di un immobile capiente, atto cioè a garantire il relativo pagamento, iscrivere sull’immobile stesso una ipoteca per il valore di una annualità di 1000 lire, duratura per 30 anni;

 

b)    se Tizio non era proprietario di immobili capienti o non possedesse affatto, invitarlo a depositare in garanzia presso una Cassa apposita – che poteva essere la Cassa Depositi e Prestiti – titoli sufficienti a garantire lo Stato che le 1000 lire annue sarebbero state pagate;

 

c)    se Tizio non possedeva né immobili, né titoli accettabili in garanzia – e questo poteva essere il caso di moltissimi industriali e commercianti e capitalisti possessori di macchine, merci, azioni od obbligazioni di valore variabile e non ammissibili in garanzia, crediti di consistenza forse anche ottima, ma non apprezzabile dallo Stato – egli avrebbe dovuto fornire qualche altra garanzia di fidejussori, proprietari di immobili o di titoli accettati.

 

 

Se lo Stato non avesse chiesto garanzie, bentosto il debito di imposta sarebbe scemato; poiché la vicenda delle cose umane fa sì che colui che è ricco od agiato in un dato momento, vada in rovina o scemi di ricchezza in un successivo momento; rendendosi così inesigibili le relative quote di imposta. Le quali avrebbero potuto diventare inesigibili per astuzie del contribuente, il quale trasformasse il suo patrimonio da immobiliare in mobiliare, o lo facesse emigrare all’estero. Aveva bensì il progetto del primo tipo rinunciato chiedere garanzie; ma sol perché la rateazione estendevasi a pochi anni, il rischio delle quote inesigibili era in tal caso irrilevante. Estesa la rateazione a trent’anni, il rischio ingigantiva ed avrebbe richiesto adeguati rimedi. Non impossibile era l’apprestarli, come ora si disse; ma grandemente fastidioso. Si immagini quale numerosa burocrazia avrebbe dovuto crearsi per accendere ipoteche su quasi tutto il territorio nazionale, apprezzare e conservare i titoli dati in pegno; procedere alle successive riduzioni, divisioni fra eredi, cancellazioni, restituzioni ecc. ecc. Una nuova grande direzione generale avrebbe allietato il Ministero delle finanze, con carattere provvisorio simile a quello della direzione generale del catasto, e sostanzialmente duraturo. Spese enormi, complicazioni infinite nella compilazione dei ruoli annui di riscossione. Praticamente, se il pagamento dell’imposta si estende a trent’anni od anche a 15 od a 20 anni, diventa impossibile lasciare fissa la base di accertamento. Diventa necessario statuire che debitori d’imposta siano i contribuenti vivi ad ogni anno, per il patrimonio che essi in quell’anno possiedono, o, se vuolsi, per semplicità di accertamento, per quel patrimonio che essi od i loro autori possedevano all’inizio del quinquennio. In tal modo lo Stato non ha bisogno di garanzie, come non ne chiede ai contribuenti delle altre imposte sui redditi. Il posto dei morti viene preso dagli eredi; quello dei falliti, dei rovinati vien preso da coloro che formano nuovamente un patrimonio, od accrescono l’antico.

 

  1.     II.        È diverso il soggetto dell’imposta. Su di che non occorre dilungarsi, dopo ciò che è stato spiegato sopra. Nel primo tipo, debitore dell’imposta è il contribuente vivente al 31 dicembre 1919 od il suo erede, il quale avrebbe potuto essere obbligato a scomparire, imponendogli il ricatto obbligatorio in occasione del trapasso a titolo gratuito del patrimonio tassato. Nel secondo tipo, debitori sono le diverse generazioni di contribuenti viventi nei successivi anni del trentennio.

 

  1.    III.        Il riscatto è possibile e può essere fatto obbligatorio nel primo tipo, è impossibile o di fatto non mai compiuto nel secondo tipo. Fermo l’obbligo d’imposta di Tizio al pagamento del tributo di 30.000 lire al 31 dicembre 1919 nel primo tipo, poteva Tizio preparare il pagamento in 4-8 annualità, pagando gli interessi di mora al 5%, se il pagamento immediato gli tornava malcomodo. O poteva invece pagare subito, per liberarsi immediatamente del grave fardello e non dover pagare gli interessi di mora. I riscatti non sarebbero stati generali, né abbastanza frequenti. Col secondo tipo, il riscatto non è possibile. Tizio non è debitore assoluto di una annualità di 1.000 lire per 30 anni. Lo è, se egli vive e se conserva il suo patrimonio. Se egli lo aumenta o lo diminuisce, cresce o scema il suo debito d’imposta. Se egli muore, i suoi figli od eredi possono essere in varie misure soggetti al tributo. Alcuni, possessori di un patrimonio imponibile totale, compresa la quota ereditata, di meno di 20.000 lire, sono esenti, altri pagano il tributo in misura variabilissima a seconda della cifra del loro rispettivo patrimonio, a cui si aggiunge la quota ereditata. Possono variare i carichi di famiglia, che sono motivo di minorazione di tributo. Il debito, che oggi è di 1.000 lire all’anno, può nell’anno o nel sessennio successivo variare in misura imprecisata ed imprevedibile. Che cosa dunque si riscatterebbe, se il debito da riscattare è variabile per ragioni non prevedibili? Anche se il diritto di riscatto fosse consentito, nessuno se ne gioverebbe, nessuno volendo correre il rischio di pagare come prezzo di riscatto una somma corrispondente ad un debito di 1.000 lire annue, quando domani il debito può ridursi ad 800, od a 500 lire, o fors’anco a zero.

 

  1.   IV.        Il primo tipo esenta, il secondo tipo colpisce gli incrementi di patrimonio verificatisi dopo il 31 dicembre 1919. È noto quale sia il vantaggio di gran lunga principale, forse unico, dell’imposta straordinaria sul patrimonio dal punto di vista economico: supposto inesistente il pericolo della ripetizione, l’imposta straordinaria esatta una volta tanto esenta gli incrementi di patrimonio verificatisi dopo la data iniziale. Il che accade per definizione. È questo un vantaggio grandissimo, perché il contribuente, fatto sicuro per l’avvenire di godere del frutto della sua fatica, si assoggetta meno malvolontieri ad un taglio immediato cospicuo sul patrimonio già posseduto. Perché questo sentimento di sicurezza nasca nel contribuente, è necessario che egli ritenga probabile che il taglio cospicuo non si ripeta a breve scadenza. Ogni stimolo a non spendere ed a risparmiare vien meno, quando si sa che lo Stato interverrà ad ogni tratto ad agguantare una parte del risparmiato. Ed in Italia i contribuenti sono purtroppo talmente abituati a veder crescere sempre e non mai diminuire i tributi, che essi non hanno la minima fiducia che un tributo, straordinario di nome, lo sia pure di fatto.

 

 

Non si può negare perciò che, sotto questo punto di vista, la imposta ripartita in un trentennio sia preferibile; perché i contribuenti sanno fin da principio qual giudizio fare della sua straordinarietà. Sanno che essa di fatto è ordinaria, duratura per lunghi anni, per tutta la attuale generazione ed al di là. Ed essendo in proporzione più tenue, la possono sopportare.

 

 

Ad evitare il danno, insito però nella trentennalità, della tassazione del risparmio nuovo, il decreto definitivo esenta per tutta la durata del trentennio i due terzi degli incrementi di patrimonio non dovuti ad eredità d altra causa gratuita. La esenzione ha inizio dalla seconda rivalutazione la quale avrà luogo l’1 gennaio 1933; e ciò si spiega pensando che la prima rivalutazione in realtà sarà una valutazione ex-novo, anzi la prima fatta su elementi reali. Per il primo sessennio fu necessario invero per i terreni ed i fabbricati adottare dei criteri di valutazione empirici – moltiplicazione per 325 dell’imposta erariale principale del 1916 per i terreni; e per 25 del reddito imponibile per i fabbricati – allo scopo di cominciare a fare qualche incasso, salvo successivo conguaglio. Il primitivo progetto imponeva la immediata valutazione; e ciò era bene, perché trattavasi di un pagamento unico; ma avrebbe costretto a rinviare di molti anni la liquidazione definitiva dell’imposta, per la natura immane del lavoro da compiersi. Adesso, nulla impedisce che si cominci ad esigere le prime sei annualità con un metodo provvisorio; frattanto si preparino, con l’imposta complementare sul reddito, le basi per una valutazione definitiva, che dovrà compiersi l’1 gennaio 1926. A questa data si avrà la prima valutazione vera del patrimonio; ed a quella data tutto il patrimonio accertato sarà tassato.

 

 

Gli incrementi accertati al 1 gennaio 1933, al 1 gennaio 1941 e così via, saranno esenti per i due terzi dall’imposta patrimoniale per tutta la durata residua del trentennio. Non esito a dichiarare che questa norma è la più feconda di vantaggi economici che sia contenuta nel decreto. Non è un principio nuovo, perché esso riproduce i vecchi e celebrati principii contenuti nelle imposte fondiarie e secondo cui per lungo tempo – nella legge italiana del 1885 per la perequazione è un trentennio – erano esenti da imposta gli incrementi di reddito ottenuti con miglioramenti agricoli, o per qualunque altra causa in aggiunta al reddito imponibile inizialmente accertato.

 

 

So bene che la norma antica e lodevolmente ringiovanita va contro a tutta una scuola, la quale propugna la tassazione degli incrementi di reddito e di capitale in una misura più alta dei redditi normali e dei capitali iniziali. Ma, appunto perché io considero i postulati di questa scuola come perniciosissimi all’economia nazionale e repugnanti alla logica, plaudo al principio antico e alla sua riaffermazione.

 

 

  1.    V.        Il primo tipo imponeva la creazione di un istituto di credito, il secondo tipo la rende inutile. La brava gente che chiacchiera di decimazione della ricchezza e di leva sul capitale, non riflette che lo Stato non può incassare campi, boschi, vigne, case, macchine, merci, ecc. ecc. Esso deve incassare denaro. Ed alla loro volta i contribuenti in massa, salvo particolari circostanze di gente pazzoide che tiene i biglietti in casa, possono pagare denaro solo in proporzione dei redditi che annualmente incassano, dopo avere provveduto ai propri bisogni. Se una imposta assorbe solo una frazione, anche alta, del reddito, si può pagare; se va al di là, costringe i contribuenti a vendere terreni, case, macchine, e ritirar depositi ecc. ecc. Uno scompiglio senza fine, utile solo agli arraffa-arraffa, che piglierebbero l’occasione per acquistare ogni cosa a sotto- prezzo. Perciò, se un governo vuole far pagare una imposta patrimoniale una volta tanto, deve istituire nel tempo stesso un Istituto di credito per anticipare ai contribuenti i mezzi di pagare senza svendere. Il che è complicato, non facile e produce l’effetto singolare che una imposta straordinaria sul patrimonio, istituita per consentire al governo di ritirare la circolazione cartacea esuberante, lo costringe – non c’è altra parola adatta – ad emettere nuovi biglietti. Il che, fra l’altro, è una riprova della inefficacia di ogni mezzo taumaturgico per ridurre la circolazione.

 

 

Ci sono solo il lavoro ed il risparmio privato da un lato; le vigorose tassazioni effettive e le economie pubbliche dall’altro. Il secondo tipo di imposta straordinaria, richiedendo al contribuente per un trentennio un sacrificio sopportabile col reddito, toglie la necessità dell’Istituto di credito, che era una complicazione fastidiosa.

 

 

  1.   VI.        Il primo tipo creava una imposta pagabile con moneta deprezzata, il secondo crea una imposta presumibilmente pagabile in moneta destinata ad apprezzare gradatamente. Se si suppone che un’imposta straordinaria potesse essere esatta di un colpo al 1 gennaio 1920, essa sarebbe tutta pagata colla moneta deprezzata esistente alla stessa data. A mano a mano che le rate si allontanano da quella data, esse debbono essere pagate in una moneta che è presumibile, sebbene non certo, andrà via via apprezzando. Il carico reale del tributo, se si supponessero fissi gli accertamenti di patrimonio, sarebbe perciò maggiore nel secondo tipo che nel primo. E diverse sarebbero le conseguenze rispetto all’estinzione da parte dello Stato del debito per mezzo del provento dell’imposta. Punto rilevantissimo, che qui si è appena accennato.

 

 

Tutto sommato, il mio giudizio è favorevole alla trasformazione dell’imposta unica in una imposta trentennale. Voglio concludere su di ciò con una osservazione finanziaria. Dicesi che il primo tipo avrebbe reso subito 20 miliardi e che il secondo renderà forse 500 milioni all’anno per trent’anni, cifra manifestamente inferiore alla prima.

 

 

Il paragone, fatto così, è erroneo. È un paragone fra l’utopia e la realtà. Era pura utopia sperare di riscuotere 20 miliardi di un colpo dall’imposta unica. Io non so, perché nessuno lo sa, quale ne sarebbe stato il rendimento. Qualunque esso fosse, era destinato a verificarsi in una lunghissima serie di anni, attraverso a resistenze infinite, provocando un vero collasso dell’amministrazione finanziaria, la quale, per perseguire l’utile dei 20 miliardi immediati, avrebbe dovuto trascurare le altre imposte sul reddito, produttive di ben più sinceri e continui risultati.

 

 

Col secondo tipo è probabile che nei primi anni o nel primo quinquennio non si ottenga molto più di 500 milioni di lire all’anno. Ma è reddito destinato a crescere col tempo. Ad ogni nuovo periodo, ad ogni sorgere di patrimoni nuovi, la massa imponibile crescerà ed il provento andrà aumentando. Le rivalutazioni periodiche del patrimonio gioveranno d’altro canto al migliore accertamento delle successioni e miglioreranno il gettito della relativa sovrimposta. Dal punto di vista del probabile gettito finanziario non esito a concludere che il presente tipo è preferibile al primo.

Torna su