Opera Omnia Luigi Einaudi

Le due vie dell’imperialismo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/10/1913

Le due vie dell’imperialismo

«Minerva», 15 ottobre 1913, pp. 913-915

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 83-89

 

In un eloquente articolo sul «Corriere della Sera» del 17 settembre scorso, il senatore Pasquale Villari ha ripreso, ragionando di due libri sull’Inghilterra, l’uno scritto dall’italiano professor Dalla Volta e l’altro dall’inglese Lord Milner, un antico dibattito che in Inghilterra dura da tempo fra liberisti e imperialisti, fra i Little Englanders, fautori del piede di casa, della massima libertà e indipendenza concessa alle colonie, e gli esaltatori della Greater Britain, i quali vogliono dalla più grande Inghilterra far sorgere il fatto grandioso dell’Impero inglese, di uno Stato mondiale, composto di nazioni autonome, ma insieme riunite da stretti vincoli politici ed economici. Lord Milner rivendica la tradizione di Disraeli (Lord Beaconsfield), si inspira ai concetti imperialisti svolti nelle celebri opere del Dilke e del Seeley e vivacemente difende il programma colonialista e imperialista e protezionista del Chamberlain contro le accuse dei liberisti, tenaci oppugnatori di ogni dazio doganale di favore per le colonie, e seguitatori delle idee dei Cobden e dei Bright, che ai loro tempi avevano ottenuto la abolizione dei dazi doganali protettivi e avevano anche propugnato l’abbandono delle colonie e della politica conquistatrice e imperialistica.

 

 

Contro questi liberisti dal cervello piccino, incapaci di larghe vedute politiche e storiche, Lord Milner, il quale volle la guerra coi Boeri e fu il primo proconsolo inglese nel Sud Africa riunito sotto il dominio inglese, si arrabbia. Questi micromani, questi ostinati Little Englanders – dice il Milner – guardano solo al soldo; si oppongono all’introduzione di un dazio di 2 scellini per quarter – circa 80 centesimi per ettolitro – sul grano forestiero, perché rincarirebbe di altrettanto il prezzo del pane consumato dall’operaio inglese; e non s’avvedono che il piccolo sacrificio è voluto da noi imperialisti non per se stesso, ma solo come un mezzo per permettere alle colonie di venderci esse il loro frumento in esenzione di dazio ad esclusione del grano proveniente dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dalla Russia! Non vogliono comprendere che il piccolo dazio contro il grano straniero è un mezzo per creare il grande impero britannico, in cui la metropoli e le colonie formeranno tutt’un complesso economico, insieme riunito da vincoli strettissimi di interessi. Che cosa sono le dispute piccole e grette su alcuni dazi protettivi contro lo straniero e a pro delle colonie, quando si tratta di cementare un impero di 400 milioni di uomini, di rassodare la pax britannica in un territorio immenso e di trasformare la vaga e sciolta confederazione odierna, riunita da vincoli quasi soltanto nominali, in uno Stato compatto, mondiale, deciso a perpetuarsi nella storia di fronte agli altri organismi potenti che nel mondo si vanno formando?

 

 

La disputa è interessante non solo per l’Inghilterra; ché anche noi dovremo scegliere presto e seriamente la via da seguire per creare vincoli non di dominio puro ma di interessi e di affetti tra la madrepatria e le nostre ingrandite colonie. Anche da noi, come in Inghilterra, come in Francia, come in Germania, si porrà il problema del modo migliore di creare l’Impero e renderlo duraturo. Perciò mi sembra opportuno di esporre quello che credo essere il vero fondamento del trionfante imperialismo britannico, ben diverso dal protezionismo coloniale additato da Lord Milner e dai suoi compagni di fede imperialistica.

 

 

Sì, è vero: Cobden, Bright e gli altri apostoli del liberismo furono dei Little Englanders; volevano ricca e prospera la madrepatria e volevano lasciare le colonie liberissime di provvedere a sé stesse: né avrebbero rimpianto un pacifico distacco delle colonie dalla madrepatria. Perciò essi furono detti adoratori della piccola Inghilterra e nemici dell’Impero inglese. Mentre il Chamberlain e Lord Milner sono detti imperialisti, perché proclamano la necessità dell’Impero, e vogliono vincoli doganali più stretti fra le colonie e la madrepatria.

 

 

Tutto ciò è verissimo; ma è anche vero che queste sono parole e discorsi. La storia non si fa con le parole e coi discorsi, ma con gli atti e coi fatti. Lo storico non deve guardare a ciò che gli uomini dissero; ma alle conseguenze vere delle azioni compiute dagli uomini; e dichiarare creatori dell’impero quelli che crearono di fatto o coi loro atti lo cementarono, anche se a parole essi non se ne curarono o gli erano nemici; e considerare come distruttori dell’impero quelli che compirono od avrebbero compiuto atti destinati a rompere i vincoli tra le diverse parti dell’impero, anche se essi da sé medesimi si erano proclamati i banditori dell’imperialismo.

 

 

Ora, a me sembra che, se noi guardiamo la storia da questo punto di vista, niun dubbio vi possa essere sull’intima virtù imperialista degli atti compiuti dai liberisti inglesi e in genere dai cosidetti Little Englanders e sulla forza distruttiva dell’impero che avrebbero, se tradotte in fatti, le idee dei neo imperialisti e protezionisti alla Chamberlain o alla Milner.

 

 

Che cosa fecero invece i liberisti inglesi? Abolirono i dazi protettori che gravano sull’importazione delle merci straniere e coloniali nella Gran Bretagna. Li abolirono sulle merci e sulle derrate di ogni provenienza, sia che venissero da paesi stranieri o dalle colonie. E quale fu l’effetto di questa politica? Che mentre prima, all’epoca del sistema coloniale e del protezionismo, gli inglesi compravano pochissimo dalle colonie, perché i dazi aumentavano il prezzo delle merci e rincaravano la vita e diminuivano la capacità di consumo delle masse, dopo acquistarono assai di più dalla Germania e dalla Francia e dagli Stati Uniti, ma divennero anche ottimi clienti delle proprie colonie. Il Canadà, l’Australia, l’India non vendettero mai tanto alla madrepatria come quando furono costretti a subire ivi la concorrenza dei produttori stranieri, a perfetta parità di condizioni; poiché furono altresì costretti a inventar modi di ridurre i costi per ribassare i prezzi, dovettero indirizzare lavoro e capitale a produrre ciò che ai concorrenti non sarebbe riuscito di produrre con altrettanta perfezione.

 

 

Oggi i vincoli economici tra la madrepatria e le colonie sono intensi e saldissimi perché fondati sul libero volere dei consumatori metropolitani, i quali trovano convenienza a comprare certe merci e certe derrate più dalle colonie che dai paesi stranieri. Togliete questa libertà di scelta, costringete i consumatori metropolitani a comprare piuttosto il grano del Canadà che il grano degli Stati Uniti, perché su questo grava un dazio di 2 scellini per quarter da cui il primo è esente, e voi avrete reso odioso il Canadà alle masse popolari inglesi; voi avrete gettato un germe di dissoluzione nell’edificio superbo dell’impero inglese, poiché avrete dato motivo all’oratore popolare nei comizi elettorali inglesi di scagliarsi contro i canadesi affamatori del popolo, contro la alleanza malvagia dei farmers del Far west canadese coi grandi proprietari inglesi allo scopo di affamare le classi operaie. Ed un impero, il quale vive provocando il malcontento dalle masse metropolitane, non può durare. Che cosa vollero, ancora, i Little Englanders per le colonie? Vollero lasciarle libere e padrone di sé: vollero che l’autorità del governo e del parlamento britannico su di esse fosse puramente nominale. E così ottennero che quel complesso di popoli, i quali nel primo ottocento erano invidiosi fra di loro e malfidi verso la madrepatria, divenissero un impero saldo e fortemente unito in cui le colonie vanno a gara nell’offrire navi da guerra alla madrepatria per la difesa comune. Chi riconosce nel Canadà leale, devoto e fedele d’oggi, il Canadà turbolento di prima del 1850, le cui sollevazioni dovevano essere represse colla forza? Chi riconosce nel lealissimo Sud Africa d’oggi, a capo di cui sta il generale boero Botha, il torbido paese a cui presiedeva dieci anni addietro Lord Milner?

 

 

Se la storia vuole essere giusta, deve riconoscere che questa mirabile e profonda trasformazione è stata dovuta all’adozione delle idee dei liberisti e dei Little Englanders. Quelli vollero che le colonie potessero liberamente colpire di dazi tanto i prodotti metropolitani come quelli stranieri; e nessuna preferenza vollero fosse concessa ai prodotti della madrepatria in confronto ai prodotti stranieri. E così accadde che mentre prima, col sistema coloniale, i coloni si inferocivano contro la madrepatria che vietava loro di provvedersi altrove a buon mercato delle cose necessarie all’esistenza, delle macchine e dei vestiti e li obbligava ad acquistarli a caro prezzo sul suo mercato, dopo le si affezionarono, quando videro che essa li lasciava liberi di comprare altrove, sforzandosi però di produrre ed offrire le stesse merci a più basso prezzo degli stranieri per attirare a sé la clientela coloniale. Coll’antico sistema protezionista ed imperialista, la madrepatria vendeva poco alle colonie, perché vendeva a caro prezzo; né credeva di aver interesse a vendere a buon mercato, essendo forte del monopolio di cui godeva sul mercato coloniale, a causa dei dazi differenziali che le colonie erano costrette a mettere sui prodotti stranieri; sicché la madrepatria era diventata odiosissima ai coloni, che la guardavano come una sfruttatrice e le si rivoltavan contro proclamando la libertà degli Stati Uniti.

 

 

Il Seeley, che è senza dubbio il maggior teorico dell’imperialismo britannico, ben fa vedere come la distruzione della Greater Spain, del Greater Portugal, della Greater Holland, della Greater France e della Greater Britain, le quali esisterono lungo i secoli XVI, XVII e XVIII, fu in notevole parte dovuta ai vincoli onde le colonie erano legate alla madrepatria. E se oggi la nuova Greater Britain è più salda assai della Greater Britain del secolo XVIII, la maggior saldezza e la speranza di più lunga durata sono dovute all’assenza di ogni vincolo economico legale che asservi le colonie alla madrepatria. Che se oggi, ancora, le colonie mandano i loro primi ministri a sedere col primo ministro e col segretario degli esteri inglesi in una «Conferenza britannica» a Londra, se spontaneamente le colonie votano milioni e corazzate per la difesa imperiale, se la costituzione di «Senato imperiale» non è più un sogno assurdo, ma sta diventando una realtà concreta, ciò non è dovuto ai nefasti progetti del Chamberlain, ma alla politica dei vecchi e nuovi Little Englanders i quali vollero dare alle colonie libertà di rispondere di no ai desideri e ai voleri della madrepatria e, dando loro questa libertà, le indussero ad assentire volontariamente, nelle maniere discusse insieme, d’accordo con la madrepatria, ai nuovi grandi piani di unione imperiale.

 

 

Dio salvi dunque l’impero inglese dagli imperialisti e dai protezionisti che, per interesse o per infatuazione, lo vogliono rovinato; e Dio salvi il nostro paese dallo stesso pericolo, nella opera appena iniziata di formazione di una più grande Italia! La storia insegna che quelle sole colonie si conservano alle quali si dà libertà di vivere come esse vogliono; e che quei soli vincoli coloniali sono duraturi e fecondi che poggiano sull’interesse, liberamente veduto e seguito dalle due parti, non sulla forza di leggi imposte dalla madrepatria. Vorremmo noi seguire questa lezione della storia?

 

 

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