Opera Omnia Luigi Einaudi

Le leghe di industriali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/07/1906

Le leghe di industriali

«Corriere della Sera», 31 luglio 1906

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 175-183

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 406-411

Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di Gastone Manacorda, Editori Laterza, Bari,1966, pp. 351-358

 

 

 

Sui giornali socialisti si conduce in questi giorni una stranissima campagna contro una lega testé costituita fra ditte industriali torinesi, coi seguenti scopi dichiarati nello statuto: tutelare e difendere gli interessi collettivi dei suoi soci e dell’industria; – propugnare efficacemente il rispetto e la difesa della libertà del lavoro; – favorire la buona intesa con gli operai. Il «Tempo» accusa la nuova lega industriale di volere – per mezzo delle serrate nelle industrie dove scoppiano scioperi parziali, delle messe all’indice durante gli scioperi degli operai provenienti dagli stabilimenti forzatamente inoperosi – uccidere la libertà del lavoro, condannare alla fame, ridurre all’esasperazione ed eventualmente al delitto ed alla galera gli operai desiderosi di lavorare; e senza ambagi denuncia i fondatori della lega all’autorità giudiziaria come colpevoli di voler «mettere in scompiglio l’ordine pubblico e la comune sicurezza».

 

 

A leggere le grosse parole, noi ci siamo ricordati degli inni così di sovente letti sul «Tempo» e sugli altri giornali socialisti al modo elevato, sereno, perfezionato, evoluto con cui si combattono le lotte del lavoro nella madre patria delle leghe operaie, l’Inghilterra, ai vantaggi indiscutibili che per ambedue le parti contendenti si traggono dall’essere la battaglia combattuta non fra industriali ed operai singoli, ma fra associazioni o leghe di industriali e di operai; e ci siamo chiesti quale ignoto movente poteva indurre oggi a biasimare fieramente ciò che ieri si esaltava. Ma poiché rispondere alla domanda ci porterebbe ad una inutile indagine sulle opportunità momentanee di determinati atteggiamenti politici; così ci sembra giovar più alla causa della pace sociale vedere quale sia il fondamento del nuovissimo fenomeno delle «leghe di industriali» contro di cui, ora che l’abbiamo in Italia, si lanciano tante invettive.

 

 

Nelle contese tra capitale e lavoro si sono attraversati dappertutto, anche nei paesi che si trovano alla testa della civiltà industriale, diversi stadi. Nel primo stadio, che in Inghilterra è durato fino a circa il primo quarto dal secolo XIX, in Italia fino a pochi anni or sono, il ceto imprenditore aveva decisamente il sopravvento. Con una legislazione ed una giurisprudenza contrarie all’esercizio del diritto di coalizione e di sciopero, con le masse operaie disorganizzate, con la grande industria provvista di una maestranza eterogenea, racimolata da mille mestieri e luoghi diversi, l’operaio non aveva modo di far sentire le sue ragioni; e se i salari crescevano, era solo nei periodi prosperi per la cresciuta domanda degli imprenditori. Gli scioperi erano poco frequenti; ed il più spesso finivano in modo disastroso; piccole convulsioni che agitavano or questo ed or quello stabilimento, specie di baruffe in famiglia, che finivano con un accomodamento alla meglio. In quelle condizioni era verissimo il detto celebre di Adamo Smith: essere l’imprenditore per se stesso una coalizione contro gli operai. Cosa valevano 100, anche 1000 operai disuniti, discordi, contro un imprenditore solo, che aveva una sola volontà diretta contro mille che non avevano nessuna volontà?

 

 

Il progredire continuo della grande industria, il rafforzarsi dei sentimenti di solidarietà e di unione fra gli operai degli stessi stabilimenti e delle stesse industrie, la modificazione profonda intervenuta nelle leggi, nella giurisprudenza, nella pratica di governo, nell’opinione pubblica, hanno condotto a poco a poco a sancire i principî della libertà di coalizione, di sciopero e di lavoro e ci hanno fatto assistere alla fioritura meravigliosa delle leghe operaie, altrove dette trade-unions, o sindacati professionali. La classe operaia muoveva un po’ tumultuosamente, con forse troppa giovanile baldanza, all’assalto delle posizioni da conquistare. Il campo di battaglia era qualche volta seminato di rovine; ma gli osservatori spassionati sorridevano benignamente a questi peccati di gioventù, lieti che finalmente fosse raggiunto l’equilibrio stabile; e che le discussioni sui problemi del lavoro avvenissero fra l’imprenditore da una parte ed i cento, i mille operai insieme riuniti dall’altra. Riusciranno – dicevasi – più presto ad intendersi; e dopo qualche istante di battaglia cruenta, vi sarà pace duratura, non perturbata da continui litigi individuali.

 

 

Senonché lo stato di equilibrio stabile non pare sia possibile nella vita economica. L’ebbrezza della prima vittoria diede agli operai il desiderio spiegabile di affermare le conquiste fatte e li spinse ad iniziare un’altra fase dei rapporti fra capitale e lavoro che noi auguriamo abbia a riuscire ancor più benefica della precedente. Agli operai non basta di essersi riuniti in leghe per ogni stabilimento; ma vollero riunirsi – cosa naturale e giustificata per mille ragioni – per tutti gli stabilimenti della stessa industria nella città, nella regione e persino nello stato. Nacquero così le grandi federazioni operaie che abbracciano gli operai appartenenti allo stesso mestiere di uno stato intiero; nacquero le camere del lavoro che riuniscono insieme le sezioni locali delle diverse federazioni; cosicché una duplice organizzazione venne a rendere compatte le falangi delle masse lavoratrici: riunite mestiere per mestiere per tutto lo stato, e riunite in camere dove sono rappresentati tutti i mestieri in ogni città o centro industriale.

 

 

Giunti a questo punto è chiaro che la posizione di uguaglianza nella contesa industriale fra imprenditori ed operai è un’altra volta distrutta; ma distrutta al rovescio di prima ed a danno degli imprenditori. Prima la lotta era disuguale perché l’imprenditore poteva a suo agio lottare separatamente contro ciascuno dei suoi operai; e, forte della sua potenza, atterrarli uno dopo l’altro. Adesso invece contro gli imprenditori divisi stanno le leghe di mestiere e le camere del lavoro. Quelle possono iniziare uno sciopero contro l’industriale A di un’impresa determinata, ad esempio quella nella tessitura della lana, e mettere a contribuzione gli operai lavoranti presso gli altri imprenditori B, C, D, E, ecc., della stessa industria per soccorrere gli scioperanti dell’imprenditore A. È possibile anche, quando specialmente il lavoro urge, che le ordinazioni disdette dall’imprenditore A siano affidate invece agli imprenditori B, C, D, ecc. e che questi impieghino temporaneamente gli operai di A. Chi dei due contendenti si trova in una situazione strategica peggiore adesso è l’imprenditore, il quale perde gli interessi e l’ammortamento dei capitali, il guadagno commerciale, deve pagare spesso multe fortissime per inadempienza di contratti, ecc. ecc.; mentre i suoi operai ricevono soccorso dagli operai degli stabilimenti suoi concorrenti o sono impiegati in questi stessi stabilimenti concorrenti e possono a lungo aspettare l’esito della battaglia.

 

 

Qui nasce la «lega industriale»; la quale allarga nel campo degli imprenditori la cerchia della contesa così come l’avevano allargata nel campo degli operai le federazioni di mestiere e le camere del lavoro.

 

 

Per spiegare il sorgere delle leghe industriali noi abbiamo deliberatamente trascurato i motivi occasionali, come le prepotenze degli scioperanti contro i cosidetti crumiri, la inerzia del governo che non tutela a sufficienza la libertà del lavoro e fa per un momento pensare agli imprenditori più battaglieri alla convenienza di organizzare forze di difesa private alla foggia americana in surrogazione della forza pubblica che lascia far bersaglio di pietre gli stabilimenti e di ingiurie e di percosse gli operai desiderosi di lavorare.

 

 

Tutto ciò è momentaneo e superficiale; mentre il vero fondamento della lega industriale è la necessità di opporre ad una organizzazione operaia estesa per tutta una regione od uno stato nello stesso mestiere, od a tutti i mestieri di una città, una lega che abbracci ugualmente tutti o quasi tutti gli imprenditori della stessa industria o località.

 

 

In Italia la lega formatasi l’altro giorno a Torino abbraccia gli industriali della città, appartenenti ad industrie diverse; e pare che sullo stesso tipo debbano costituirsi prestissimo altre leghe a Milano ed a Roma. Né ci recherebbe meraviglia che in seguito coteste leghe locali si federassero in una unica associazione di difesa contro gli scioperi simile all’Haupstelle Deutscher Arbeitgeberverbände (Ufficio centrale delle federazioni di imprenditori tedeschi) ed al Verein Deutscher Arbeitgeberverbände (Unione delle federazioni di imprenditori tedeschi) che nel campo l’uno della grande e l’altra della media e piccola industria uniscono in Germania le forze di decine di migliaia di imprenditori in occasione di scioperi o di contese industriali.

 

 

Le armi di cui le leghe di imprenditori si servono sono il contrapposto di quelle che furono con successo adoperate dalle leghe operaie.

 

 

Gli operai cercano di attaccare ad una ad una le posizioni nemiche, giovandosi intanto dei soccorsi degli operai impiegati presso gli altri stabilimenti, giovandosi del precetto napoleonico, che contro il nemico disperso in parecchi nuclei giova far massa contro ogni nucleo successivamente per disperderlo più facilmente? E le organizzazioni padronali, invece di lasciare battere i propri soci alla spicciolata con una lunga guerriglia, faranno massa ed attaccheranno battaglia (spesso la vittoria è di chi attacca, non di chi si difende) con quella serrata generale, che al «Tempo» tanto dispiace, come violatrice della libertà del lavoro, mentre è norma elementare di strategia guerresca applicata alle lotte del lavoro. Vorrebbesi forse, in omaggio alla libertà del lavoro, che gli imprenditori dovessero tenere aperti gli stabilimenti quando essi siano persuasi che ciò tornerà dannoso agli interessi permanenti della loro industria?

 

 

Gli operai scioperanti, durante lo sciopero, cercano lavoro negli stabilimenti attivi? La federazione degli imprenditori, ben sapendo che il fornir lavoro agli scioperanti in siffatta occasione equivale a crescere il tesoro di guerra degli avversari, ordina ai soci di proscrivere temporaneamente dai propri stabilimenti gli scioperanti finché duri la contesa.

 

 

Le leghe operaie costituiscono dei fondi di resistenza con i quali provvedono a sostenere gli scioperanti durante il periodo di disoccupazione volontaria, che sia ritenuta giustificata dagli ufficiali dirigenti delle federazioni centrali? Le federazioni di imprenditori pensano (in Germania) all’istituzione di casse di assicurazione contro gli scioperi le quali, in compenso di premi variabili secondo le industrie, le località e gli anni, si obblighino a indennizzare gli imprenditori, colpiti da scioperi, per le perdite sofferte.

 

 

Se le armi con cui si combatteranno le future contese industriali diventano ognor più potenti; se il campo della battaglia si estende vieppiù e gli eserciti combattenti diventano addirittura colossali, come gli eserciti veri nelle guerre moderne; non è da credere che tutto ciò sia per tornare dannoso ai progressi dell’industria. Tutt’al contrario. Nello stesso modo che gli inventori degli strumenti più micidiali possono vantarsi di rendere più difficile lo scoppio della guerra, per la grandiosità crescente delle sue conseguenze e per il maggior sentimento di responsabilità dei governanti; così nel campo industriale la esistenza di forti ed agguerrite leghe di industriali e di operai sarà un fattore di pace sociale.

 

 

La guerra è facile quando uno dei due avversari è forte e l’altro debole; ma se amendue sono uniti e forti, dopo essersi guardati in cagnesco per un po’ di tempo, finiranno di trovare il modo di mettersi d’accordo. Tanto più lo troveranno in quanto le trattative non saranno più condotte dagli imprenditori singoli e dai rappresentanti dei loro operai, ma dai consigli dirigenti delle due federazioni o leghe. Minore sarà la probabilità che si dia importanza ai piccoli puntigli, alle quistioni particolari e di poco peso; la discussione si concentrerà sui punti sostanziali di interesse generale. L’esperienza sta a dimostrare che nei paesi dove questi sistemi di lotta sono invalsi, i casi di conflitto violento sono diminuiti; e dimostra che in definitiva il terzo degli scopi della lega industriale di Torino «favorire la buona intesa con gli operai» – oggetto di tanto sarcasmo da parte del «Tempo» – è quello che in definitiva più sicuramente è stato raggiunto. Informino i numerosi ed attivissimi consigli di conciliazione e di arbitrato inglesi, di cui i più operosi furono quelli appunto istituiti per opera delle leghe di imprenditori e di operai!

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