Opera Omnia Luigi Einaudi

Le nuove tariffe doganali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 09/06/1921

Le nuove tariffe doganali

«Corriere della Sera», 9 giugno 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 415-419

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 207-211

 

 

 

L’annunzio che il consiglio dei ministri ha approvato la nuova tariffa doganale e le dichiarazioni recenti fatte dal ministro Alessio a una cospicua rappresentanza dell’industria fanno ritenere che uno dei primi problemi su cui il parlamento sarà chiamato a legiferare dovrà essere quello doganale. Né v’è dubbio che il problema è urgente, poiché non si possono lasciare nell’incertezza l’industria e l’agricoltura italiane intorno al regime futuro dei dazi. Ogni industriale deve poter fare i suoi conti sul prezzo a cui può vendere i suoi prodotti, tenuto conto della concorrenza straniera e degli ostacoli maggiori o minori di dazi che questa dovrà sopportare nell’introdurre i suoi prodotti in Italia; ed ognuno deve poter sapere quali dazi dovrà pagare all’estero quando tenterà di esportare dall’Italia i prodotti nostrani. Noi non possiamo certamente influire sui legislatori stranieri sì da costringerli a palesare subito le loro intenzioni. Ma l’essere noi pronti con la nostra tariffa doganale definitiva gioverà a consentire al governo di iniziare trattative con i governi esteri per concludere buoni e duraturi trattati di commercio. Quanto più presto riusciremo a concluderli, tanto meglio sarà. Meglio un mediocre trattato per un tempo determinato, che l’incertezza odierna. Come in tanti altri campi della vita economica e sociale, anche nel campo doganale il nemico peggiore contro cui dobbiamo combattere è l’incertezza, è l’arbitrio. L’industria non potrà rivivere, la disoccupazione non potrà attenuarsi, se non si sappia con precisione quali e quante imposte si dovranno pagare, quali saranno i dazi all’entrata nel paese ed all’estero quali i rapporti giuridici regolanti il contratto di lavoro, da quali norme sarà regolato il controllo, entro quali limiti sarà contenuta la smania interventistica dello stato, ecc., ecc. E tutti gli eccetera si riassumono nel comandamento: certezza.

 

 

Io vorrei qui esporre alcuni dei criteri fondamentali i quali dovranno essere osservati dal parlamento quando esaminerà le nuove tariffe doganali allo scopo di attuare il porro unum et necessarium della “certezza”.

 

 

Primo: stipulare veri e propri trattati di commercio, obbligatori per un dato periodo di tempo, per ambe le parti contraenti. Anche per noi. Con che affermo essere condannabile e pestifero il sistema della doppia tariffa; che tanto favore ha incontrato in Italia tra industriali preoccupati solo dal loro interesse immediato ed ha avuto il favore di commissioni reali; ma per fortuna, a quanto pare, non quello del governo. Non posso in poche parole discutere a fondo dei meriti e demeriti del sistema autonomo (doppia tariffa) e di quello vincolativo (trattati di commercio). Dal punto di vista da cui qui la si considera, tutta la differenza tra i due sistemi si riduce a ciò: che col sistema autonomo, lo stato italiano è sempre libero di variare le sue due tariffe, quella minima, da applicarsi alle merci provenienti dai paesi i quali alla loro volta ci trattano bene e quella massima da applicarsi alle altre merci. In lingua povera, ciò significa che i dazi potrebbero essere variati continuamente, per sola iniziativa del nostro governo, ossia dietro pressioni esercitate da questo o quel gruppo industriale, insoddisfatto dei dazi vigenti e desideroso di protezione più alta. È il regime della corruzione politica, dei rapporti continui di dare ed avere fra amministrazione pubblica ed industria, di sopraffazione delle industrie minori e meno influenti e dei consumatori a vantaggio delle industrie più potenti. È il regime dell’arbitrio politico e della instabilità economica. Mille volte preferibile ad esso è il sistema dei trattati di commercio, i quali vincolavano i due stati contraenti per un dato periodo di tempo, ad es. 12 anni. Qualche errore si potrà commettere; ma almeno ognuno potrà fare i suoi conti di costo. Nessuno sarà soggetto a colpi mancini di rialzi o di ribassi di tariffe, atti a rovinare la sua industria od i suoi commerci. I nostri porti potranno attrezzarsi in vista di un dato traffico, senza correre il pericolo di vedersi inutilizzati gli impianti dalla debolezza di un governo pieghevole dinanzi alla prepotenza di qualche gruppo industriale interno, insofferente di una importazione abbondante.

 

 

Secondo: fissare le tariffe in moneta antica, praticamente in oro, con l’aggiunta del cambio oscillante. È il sistema seguito adesso e che, tutto sommato, è il meno instabile fra tutti. Mi spiego. Dicono molti industriali e sovratutto parecchi scrittori protezionisti: le tariffe attuali sono divenute insufficienti, perché fissate quando i prezzi erano molto più bassi di quelli odierni. Un dazio di 10 lire poteva essere sufficiente quando il prezzo era di 40, perché giungeva al 25 per cento. Oggi che il prezzo è divenuto di 200, quel dazio è di fatto ridotto al 5% ed è perciò insufficiente. L’argomento avrebbe un certo valore, se i dazi fossero espressi in lire – carta. Ma è noto invece che essi sono in lire – oro e che quindi per un dazio di 10 lire si pagano in realtà circa 30 -35 lire; e quindi il rapporto antico fra prezzi della merce e dazi doganali è bastevolmente stabile.

 

 

Bisogna conservare il metodo ora usato; ma nel tempo stesso evitare di considerare i prezzi attuali come prezzi permanenti. Se una merce oggi vale 200 lire – carta e, per una qualunque ragione, si ritiene di fissare il dazio nel 25 per cento, non bisogna stabilire quest’ultimo in 50 lire – carta. Se si facesse così, in apparenza si attuerebbe il canone della certezza. In realtà, domani, quando il prezzo della merce sarà ridotto da 200 a 50, il dazio rimarrà fermo a 50 lire – carta e diventerà uguale al 100 per cento del valore della merce. Ciò può far comodo agli industriali desiderosi di protezioni enormi. Non fa comodo invece all’economia nazionale. Bisogna calcolare prezzi e dazi, ambedue in oro; e così, se si suppone che la lira valga 30 centesimi oro, un prezzo di 200 lire – carta equivale a 60 lire – oro ed un dazio del 25 per cento deve essere fissato in 15 lire – oro. Oggi queste 15 lire – oro equivalgono a 50 lire – carta; domani equivarranno a meno od a più, a seconda delle variazioni del cambio. Ma si manterrà all’incirca il rapporto del 25 per cento che oggi si era voluto stabilire.

 

 

Terzo: ai dazi doganali non bisogna aggiungere proibizioni di importazione neppure se attenuate da permessi di importazione concessi dal governo. Se sono bene informato i produttori di colori chiedono appunto qualcosa di simile. Essi affermano di avere impiegato 400 milioni di capitale nella loro industria, di dar lavoro a parecchie migliaia di operai e di non poter resistere alla concorrenza tedesca, la quale è capace di vendere in Italia a prezzi rovinosi per i produttori italiani. Un dazio protettivo anche alto – e pare si chiedano nientemeno 3 lire oro, uguali a circa 10 lire – carta per prodotti i quali valgono ora 6 – 6,50 lire – carta, ossia il 150 per cento – non è da essi considerato sufficiente. Vogliono divieti di importazione, salvo permessi speciali da concedersi dal governo, interessato anch’esso a non darli, perché detentore di forti partite di colori che ci facemmo consegnare a titolo di indennità dai tedeschi, senza che si sapesse se c’era modo di venderli nel nostro paese.

 

 

È bene dire subito che qualunque dazio, anche enorme come quello surriferito di 3 lire – oro per merci che valgono anche solo 6 lire – carta, è di gran lunga preferibile al sistema di divieti e permessi di importazione. Con questi, alcune industrie come quella della seta (la quale fornisce da sola il quarto delle esportazioni totali italiane), del cotone, della lana, le quali hanno investito miliardi di capitali e impiegano 600 mila operai, sarebbero sacrificate ad un’industria, la quale, se ha impiegato 400 milioni, li dovrebbe anche avere ammortizzati durante la guerra ed impiega qualche centinaio ed al più pochissime migliaia di operai. Qualunque dazio è preferibile alle lungaggini necessarie per ottenere un permesso di esportazione, alla incertezza di ottenerlo, alla impossibilità di fare, in quella incertezza, favorevoli contratti di acquisto, al danno di dovere preferire una qualità cattiva o disadatta, prodotta in paese, ad una qualità buona o adatta acquistabile all’estero, alla corruzione ed ai fastidi dei viaggi a Roma e delle mance ai mediatori per ottenere permessi. Perciò bisogna star ben fermi sul concetto che il sistema dei permessi di esportazione è intollerabile e deve essere combattuto energicamente. In questo articolo non mi sono neppure messo dal punto di vista liberistico. Non ho discusso se i dazi debbano essere alti o bassi. Io li vorrei diminuiti e sostengo che un’industria la quale non sa rinunciare ai dazi, dopo quarant’anni di baliatico, non merita di vivere. Ma, alti o bassi che siano, i dazi debbono essere certi. Noi dobbiamo combattere sovratutto il regime dell’arbitrio, perché dalla sua scomparsa dipende la salvezza del paese.

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