Opera Omnia Luigi Einaudi

Le origini del disavanzo delle casse pensioni ferroviarie

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/04/1899

Le origini del disavanzo delle casse pensioni ferroviarie

«La Stampa», 7 aprile 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 125-128

 

 

Un progetto di legge già votato da un ramo del parlamento nelle ultime sue tornate si propone di colmare, con mezzi che sarebbe ora troppo lungo esaminare e discutere, il disavanzo delle casse pensioni ferroviarie. Sorge naturale la domanda: come è sorto e come si è ingigantito il disavanzo a cui si cerca ora di provvedere?

 

 

La relazione della commissione d’inchiesta sulle ferrovie, dettata con chiarezza e serenità ammirabile dal compianto senatore Gagliardo, permette di dare una risposta a questa domanda.

 

 

Che il disavanzo vi sia è innegabile, quantunque sia malagevole fissarne la cifra precisa. Una commissione del 1893 lo stimava a 60.732.615 lire al 31 dicembre 1884; e ad 81.517.282 lire al 31 dicembre 1889. Una commissione del 1897 lo stimava di circa 163 milioni di lire al 31 dicembre 1896. Un capo – divisione del tesoro non lo ritiene ora inferiore a 250 milioni di lire; ed un competentissimo delegato tecnico del ministero del commercio lo fa ascendere a 300 milioni di lire.

 

 

Come si vede, crescit eundo, ed è sperabile che la valutazione tecnica del patrimonio e delle responsabilità delle casse imposta dal progetto di legge porti un po’ di luce su questo intricato argomento.

 

 

Come sono sorti i deficit? In parte esistevano già, quando in virtù delle convenzioni del 1884 le ferrovie furono cedute dallo stato alle società; e per colmare questa parte del disavanzo si era fatto obbligo allo stato di versare ogni anno nelle casse pensioni una somma corrispondente al 2% degli aumenti del prodotto lordo al disopra di quello iniziale, da prelevarsi sulla parte di prodotto lordo spettante allo stato. Siccome per le non buone condizioni economiche d’Italia nel dodicennio trascorso, l’aumento di prodotto lordo non ebbe a verificarsi, così si vede come il disavanzo originario non potesse scomparire ed anzi dovesse automaticamente crescere per gli interessi annui.

 

 

Per impedire poi che il deficit aumentasse per fatti posteriori al 1884, le convenzioni imponevano alle società di aumentare dei due terzi la quota di contributo pagata dalle cessate amministrazioni alle casse.

 

 

Giustizia vuole che si dia lode alle società di avere integralmente obbedito a questa disposizione della legge senza tergiversazioni di sorta alcuna.

 

 

Ma era evidente che ciò non bastava, come non bastò, per togliere ogni pericolo di disavanzo; era mestieri fissare in nuovi statuti i diritti e gli obblighi degli impiegati in modo da fare esattamente corrispondere i contributi ai benefizi goduti nello stato di riposo, e da determinare con rigore le condizioni a cui i collocamenti a riposo dovevano essere subordinati.

 

 

Le convenzioni perciò imponevano alle società di dare opera al riordinamento delle casse e concordare coi comitati amministrativi delle casse i provvedimenti occorrenti a por queste in grado di corrispondere agli scopi per i quali sono istituite; e di provvedere, d’accordo con chi di ragione e coll’intervento delle competenti autorità, alle modificazioni degli statuti e dei regolamenti delle casse, rispettando i diritti acquisiti dagli impiegati.

 

 

Dunque obbligo tassativo di presentare, e di fare approvare nuovi statuti, redatti secondo le più rigide norme tecniche.

 

 

Con grandissimo indugio, il quale solo in parte può essere spiegato colle difficoltà inerenti a tali lavori, dopo quattro anni le società presentarono disegni di statuti «che anche ad un cieco dovevano apparire tali da condurre non all’assetto, ma allo sfacelo delle casse pensioni».

 

 

Il ministero d’agricoltura, in base alle deliberazioni della commissione consultiva della previdenza, rifiutò nettamente «il proprio assenso all’attuazione, nemmeno provvisoria, dei nuovi statuti».

 

 

Il ministro del tesoro, on. Giolitti, circondò il suo consenso di ampie riserve contro qualsiasi variante di tempo, di modo, di forme e di misura del concorso del tesoro a colmare le deficenze delle casse.

 

 

Il ministero dei lavori pubblici, con scarso rispetto alla legge, non tenne alcun conto del diniego di consenso del ministero del commercio, solo competente per le istituzioni di previdenza, e non comunica nemmeno alle società le salutari riserve del ministro del tesoro; e senz’altro nel 1890 consentì che i nuovi statuti, i quali aumentavano le pensioni e scorciavano il periodo di servizio necessario per poter andare a riposo, venissero provvisoriamente attuati.

 

 

Il provvisorio dura ancora adesso.

 

 

Ed il male non finisce qui, nell’essersi cioè compilati statuti contrari ad ogni buona norma tecnica ed allo spirito ed alla lettera delle convenzioni del 1884.

 

 

«Le società – cito le parole della commissione d’inchiesta – appena ottenuto l’assenso, non solo si valsero per i loro intenti delle migliori condizioni che ai pensionandi facevano i nuovi statuti, ma ne peggiorarono i cattivi effetti promuovendo le quiescenze con ogni maniera di sollecitazioni e larghezze». La relazione della commissione contiene larghissime prove che le società, per disfarsi del personale anziano con stipendi alti e per sostituirlo con personale giovane od anche per non sostituirlo affatto, iniziarono una specie di campagna, accordando gratificazioni di buona uscita, ammontanti talvolta fino a 10.000 lire, per accollare alle casse di soccorso l’onere di pagare pensioni ad impiegati che sarebbero ancora stati in grado di prestar servizio.

 

 

In tal modo le società diminuivano le loro spese di esercizio, poco curandosi se le casse di soccorso andavano incontro ad una irrimediabile rovina. Il governo sarebbe intervenuto, come intervenne col disegno di legge or ora approvato dalla camera dei deputati, per accollare su di sé o sul pubblico l’onere derivante dal minaccioso disavanzo! È vero che le società creditarono dal governo un personale che in parte per la sua età non era più adatto al nuovo indirizzo impresso all’esercizio ferroviario, ma è pur certo che le società, nell’attuazione del loro programma di riforme, non tennero nel dovuto conto il pericolo in cui, per i numerosi collocamenti a riposo, venivano a trovarsi gli istituti di previdenza ferroviari. Le società operarono forse bene nell’interesse dell’esercizio, ma ciò ridondò a danno delle casse pensioni.

 

 

Questa, in breve sunto, la storia delle vicende che hanno condotto gli istituti ferroviari di previdenza alla disgraziata condizione in cui si trovano.

 

 

Almeno la esperienza del passato giovasse a rendere nell’avvenire società e ministri dei lavori pubblici più cauti e sovratutto più rispettosi delle leggi vigenti! Qualunque istituzione, anche se ottimamente congegnata sulla fredda carta della legge, è destinata ad andare in rovina poiché non vi è chi attui e faccia rispettare la legge.

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