Opera Omnia Luigi Einaudi

Le restrizioni del credito

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/08/1947

Le restrizioni del credito

«Corriere della Sera», 31 agosto 1947

 

 

 

Corre negli ambienti finanziari italiani e sui giornali la tesi che il Tesoro e l’istituto di emissione abbiano dato istruzioni precise alle banche affinché esse restringano il credito alla clientela; e da queste istruzioni nascano i rifiuti cortesi e industriali, commercianti ed agricoltori si veggono opporre alle richieste di aperture di credito, di sconto o di anticipazioni, anche quando le richieste sono giustificate da esigenze improrogabili di pagamento di salari, di acquisto di materie prime, di carbone, di macchinari, e di altre cose utili e necessarie alla produzione. E si dice: negare il credito agli speculatori sì, impedire che le banche alimentino l’avidità di coloro che immagazzinano scorte per profittare dell’aumento possibile o probabile dei prezzi sì, evitare di aiutare coloro i quali desiderano o provocano la svalutazione della lira sì; ma rifiutare credito ai produttori no. Nessuno vuole la svalutazione della lira; ma nessuno del pari può tollerare che, per omaggio al principio antinflazionistico, si arresti la produzione e si provochi disoccupazione. Queste sono parole vaghe intorno a fatti non ignoti, ma non divulgati abbastanza. I fatti sono due, accaduti a distanza di quasi sei mesi uno dall’altro.

 

 

Il primo è una circolare che il Governatore della Banca d’Italia diresse il 29 gennaio 1947 alle banche e rese poi di pubblica ragione nella relazione a stampa del 31 marzo ai partecipanti dell’Istituto di emissione. In essi si ricordava alle banche ancora una volta l’esistenza di una legge la quale le obbligava ad investire in titoli di stato o garantiti dallo stato o di depositare presso l’Istituto di emissione l’eccedenza dei loro depositi e conti correnti oltre trenta volte l’ammontare del loro patrimonio. La legge vigente consentiva cioè alle banche di investire in sconti, anticipazioni e sovvenzioni alla clientela una somma uguale a trenta volte l’ammontare del patrimonio proprio della banca, imponendo di tenere liquido il supero. Con modalità diverse, una norma simile esiste in tutti i Paesi del mondo, a tutela dei depositanti; ed in Italia era stata consigliata dagli imbarazzi in cui si trovarono nel decennio dal 1920 al 1930 talune grosse banche e parecchie minori per aver violato le norme prudenziali della liquidità. Se una banca dà a mutuo della clientela il 100% dei depositi ricevuti ed il giorno dopo un depositante richiede il rimborso dei suoi denari, la banca con che cosa rimborsa? Se non si vuole assistere ogni tanto alla chiusura di qualche sportello di banca, con danno inenarrabile del credito pubblico, con panico dei depositanti, coda per le strade di gente eccitata dalla paura di perdere i propri risparmi – e la gente anziana ricorda almeno tre di questi momenti tragici – giuoco forza è che le banche siano prudenti e conservino in contanti, in depositi a vista presso altri istituti notoriamente forti e sovrattutto presso l’Istituto di emissione od investano in buoni del tesoro a breve scadenza o in titoli di stato aventi diritto ad ottenere a vista anticipazioni dal medesimo istituto una percentuale dei loro depositi. Se la norma di prudenza non è osservata, apparecchiamo il panico e con esso un succedersi a catena di fallimenti; prima della gente avventata e poi anche di quella prudente ed innocente. Quella che fu chiamata la grande depressione mondiale del 1929 nacque così; ed ancora oggi ne soffriamo le conseguenze.

 

 

Perciò il governatore della Banca d’Italia il quale seguiva le statistiche degli investimenti e dei depositi bancari, inviò il 29 gennaio scorso quella circolare-ricordo. Ben sapeva che non se ne sarebbe fatto nulla; perché la circolare purtroppo ricordava una legge divenuta, col passare degli anni, malamente applicabile. La legge invero si fondava sull’idea che esistesse un certo rapporto logico fra patrimonio della banca e massa totale dei depositi; rapporto che in verità in origine esisteva. Se una banca ha un patrimonio suo proprio di cento milioni è logico dire che essa possa ricevere trenta volte cento milioni ossia tre miliardi di depositi e amministrarli prudentemente. Esiste cioè un patrimonio di garanzia apprezzabile che i dirigenti della banca non hanno nessuna voglia di perdere e che li persuade a fare investimenti oculati e prudenti. Ma se i depositi crescono a quattro o a cinque o a dieci miliardi, il patrimonio della banca, diventa troppo piccolo per garantire i depositanti contro le perdite; e perciò il legislatore aveva ordinato che l’eccesso oltre i due miliardi dovesse essere investito in titoli di Stato o in depositi presso l’Istituto di emissione, affinché le banche potessero, in caso di bisogno, possedere il denaro liquido per i rimborsi. Non dimentichiamo invero una verità lapalissiana; che la banca è una semplice intermediaria. Riceve in deposito le lire dei risparmiatori e dei correntisti, le custodisce, le amministra e paga su di esse un assai modico interesse; e da a prestito quelle stesse lire a industriali, agricoltori, commercianti. Perché una banca funzioni bene, occorre che dia le lire a prestito soltanto a chi le restituisce puntualmente. Trattandosi di danaro altrui, i depositi sono sacri per il banchiere. La sua preoccupazione maggiore è: ho dato i danari affidatimi a chi me li restituirà? Sarò in grado di rimborsare i depositanti? Per rassicurarsi egli possiede un patrimonio suo il quale serve per affrontare le eventuali perdite e perciò deve avere una certa dimensione in rapporto ai depositi.

 

 

Negli ultimi anni la svalutazione della lira aveva mutato i termini del problema. Le due quantità – patrimonio e depositi – non erano più espresse in termini omogenei. I depositi della nostra banca erano cresciuti, a es., da 3 o 4 a 20 o 30 o 40 miliardi perché i depositanti depositavano lire svalutate e ne depositavano in masse sempre maggiori (in media dalla fine 1938 al gennaio 1947 circa 13 volte), laddove il patrimonio delle banche non aumentava nelle stesse proporzioni o rimaneva invariato. Le banche non sono come altre imprese, il cui patrimonio, essendo costituito in parte notabili di beni reali, aumenta col crescere dei prezzi dei beni stessi. Il loro patrimonio – eccetto gli edifici destinati al servizio bancario e praticamente perciò irrealizzabili, salvo in caso di liquidazione – è investito in lire e segue le sorti della lira. Nell’esempio fatto, il patrimonio era dieci anni fa di 100 milioni e tale è rimasto; e solo gli incrementi delle riserve per accantonamento di utili lo avevano potuto far crescere, forse, a 110 o 120 milioni. Nella grande maggioranza di casi le banche che contano, e assorbono la massima parte dei depositi, sono banche pubbliche o semi-pubbliche e non hanno azionisti privati, ai quali si possano richiedere nuovi versamenti di capitali. A chi potrebbero chiedere nuovi versamenti di capitale i banchi di Napoli, di Sicilia, il Monte dei Paschi di Siena, l’Istituto di S. Paolo di Torino, i quali non hanno soci? A chi la Banca Commerciale, il Credito Italiano, il Banco di Roma, la Banca Nazionale del Lavoro, il cui unico o quasi unico azionista è lo Stato? Gli enti pubblici proprietari di banche sono gente che non ci mentono, quando si richiedono ad essi nuovi versamenti di capitale.

 

 

Era accaduto perciò che rimanendo fermo il patrimonio della banca a 100 milioni ed essendo cresciuti i depositi bene al di la di 3 a 5 a 10 a 20 e più miliardi di lire, tutta l’eccedenza oltre i 3 miliardi (multiplo trenta di cento milioni) avrebbe dovuto essere investita in titoli di stato o versata all’istituto di emissione.

 

 

Se la legge fosse stata osservata, le banche non avrebbero più saputo a che santo votarsi. Supponiamo che i depositi di quella tal banca fossero saliti da 3 a 20 miliardi di lire. Orbene, è noto che i depositi costano. Tra proposte, spese generali, interessi ai depositanti, (questi ultimi, in verità, sono il manico della cavagna e forse, in media, non arrivano al mezzo per cento) ed impiegati – e questo è il costo di gran lunga maggiore – superano certamente il 5% e probabilmente in media non sono inferiori al 6%. Se la legge fosse stata osservata, la banca sarebbe stata in grado di lucrare dai 2 miliardi liberi forse anche l’8 o il 10 od il 12%; Ma dai 17 miliardi vincolati non avrebbe potuto ricavare neppure il 4%. Nel caso, immaginato ottimisticamente, la banca avrebbe perduto almeno 200 milioni all’anno ed in sei mesi si sarebbe mangiato il capitale e le riserve e si sarebbe ridotta all’insolvenza. L’insolvenza delle banche vuol dire rubare i denari dei depositanti; e perciò i dirigenti, non avendo e non potendo ridursi al furto dei denari altrui, disubbidivano alla legge e non versavano al tesoro tutta l’eccedenza oltre il multiplo trenta, allo scopo di potere impiegare la parte maggiore possibile dei depositi così da fronteggiare le spese crescenti dovute al crescere vertiginoso degli stipendi degli impiegati. Il Tesoro e l’Istituto di emissione sapevano tutto ciò e si limitarono con la circolare del 29 gennaio a “ricordare” l’esistenza della legge. Naturalmente, se si fossero limitati a platoniche ricordanze, avrebbero mancato al loro dovere. Poco dopo, il Ministro Campilli, con l’intervento del Governatore e del Direttore Generale dell’Istituto di emissione, discuteva ampiamente il problema con i maggiori rappresentanti delle banche e delle casse di risparmio. Unanime fu l’avviso che il metodo vigente fosse divenuto, a causa dell’eterogeneità crescente dei due termini – patrimonio e depositi – anacronistico e impossibile ad applicarsi; e varie opinioni furono esposte e discusse intorno alla riforma da operarsi, sebbene unanime fosse la convinzione che il nuovo metodo dovesse essere flessibile, ossia mutabile a seconda delle esigenze del momento. Un provvedimento legislativo fu elaborato, presentato alla Commissione finanze e tesoro della Costituente, discusso da questa, ripresentato, dopo la crisi, al Consiglio dei Ministri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 2 agosto. Il provvedimento attribuiva ad un comitato interministeriale la facoltà di regolare, fra le altre, la materia della tutela del pubblico risparmio. Senza un minuto di ritardo, nello stesso giorno nel quale il provvedimento, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, entrava in vigore, il comitato interministeriale si radunava e deliberava sul nuovo ordinamento da darsi alla materia.

 

 

Questo il secondo fatto intervenuto a determinare la cosiddetta restrizione del credito. Il primo era una circolare che rinfrescava la memoria di una legge antiquata. Il secondo fatto era la determinazione della nuova norma intesa a meglio regolare una materia che di regolamento aveva d’uopo. Vedremo un’altra volta quale sia il nuovo ordinamento dato alla materia del rapporto tra depositi e gli impieghi bancari e se adesso si possa davvero muovere il rimprovero di avere anche di un centesimo indebitamente ristretto il credito alla produzione.

 

 

 

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