Opera Omnia Luigi Einaudi

Le speranze del Mezzogiorno

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/02/1911

Le speranze del Mezzogiorno

«La Voce», 16 marzo 1911, pp. 535-536

 

 

 

Dunque, il Mezzogiorno povero ed isterilito dal disboscamento e dalla malaria risorge, e risorge pure nelle sue regioni più desolate come la Basilicata e la Calabria. Tutti i commissari della grande inchiesta sul Mezzogiorno, a cui gli storici futuri ricorreranno con reverenza sacra per descrivere le origini della nuova Italia, annunciano la lieta novella. Il marchese Cappelli, viaggiando coi suoi colleghi della Sottogiunta attraverso gli Abruzzi e il Molise, ad un punto disse il sentimento che tutti provarono, ripetendo, in un impeto di gioia, la biblica frase: «Videro gli occhi miei il principio della redenzione del popolo mio». Il popolo del Mezzogiorno si redime dalla servitù della miseria e dell’ignoranza. Ma non per opera del governo, delle leggi fabbricate dai parlamentari e per virtù fattiva delle classi dirigenti. Si redime e si innalza per virtù propria. Come ha scritto Lorenzoni, «son della terra faticosa i figli» che l’aiutano alle ideali cime; sono gli oscuri contadini che, emigrando, conquistano alla patria i mezzi di rifarsi.

 

 

Una grandiosa rivoluzione accade invero nel Mezzogiorno ad opera della emigrazione verso la Tunisia, l’Argentina, sovratutto verso gli Stati Uniti: rivoluzione economica, sociale, politica ed intellettuale. Tutti i volumi dell’inchiesta recano i documenti di questa evoluzione, insospettata dai politicanti e da essi spregiata come tutte le cose di cui non posson per alcun pretesto arrogarsi il merito. I due volumi del Lorenzoni sulla Sicilia, ampi, solenni, documentati, entusiasti, sono il poema delle nuove speranze della patria. Il volume di Francesco Nitti sulla Basilicata ha avuto maggior fortuna, perché Nitti è unilaterale, violento, suggestivo, perché egli raggiunge efficacia e forza di suggestione con la tenacia e la violenza nella ripetizione di un’idea fissa.

 

 

A Nitti non bisogna chiedere l’ordine sistematico nella trattazione, la compiutezza dottrinale nelle dimostrazioni statistiche e storiche, la finitezza dello scrittore che vuol convincere schierando in bell’ordine tutti i suoi argomenti e debellando ad uno ad uno tutti gli argomenti avversari. Egli è di un’altra razza di scrittori: afferra il lettore con la ripetizione insistente, attraverso a dimostrazioni svariate, a narrazioni vive di colloqui, a quadretti di paesi e di persone, di alcune poche fondamentali idee. Ma tante volte le ripete e tanto vi insiste su, che quelle idee e quelle parole rimangono fisse nella mente del lettore e questi, giunto alla fine, non può più scindere il problema del Mezzogiorno dalla forma che Nitti gli ha dato e dalle parole con cui Nitti lo volle spiegare.

 

 

Quelle parole sono tre: disboscamento, malaria, emigrazione; e tante volte sono ripetute quelle parole e dimostrati quei concetti che davvero è impossibile resistere alla convinzione che disboscamento e malaria siano state le due massime cagioni di male nell’antico reame di Napoli e l’emigrazione sia stata e sia per essere ancor più il magico strumento di redenzione di quelle terre.

 

 

Bisognerebbe dilungarsi per colonne e colonne per far balzare netta l’idea della rivoluzione verificatasi nelle cose e nelle anime da quando l’umile gente lavoratrice cominciò ad abbandonar la patria, dove la terra isteriliva, dove il sole bruciava, dove i signorotti tiranneggiavano i poveri con patti angarici e dove imperava la febbre d’aria. Citerò alcune deposizioni più caratteristiche.

 

 

Nessun giudizio dell’emigrazione si udì dai contadini che non fosse di entusiasmo e quasi di reverenza. A Taverna un contadino diceva: «Da qui partono per l’America giornalmente. Dovrebbero portare il ritratto di Cristoforo Colombo come Gesù Cristo. Prima dell’emigrazione la mercede era di 1 lira, adesso di 1,50 e di 2 lire e spesso non si trovano contadini disponibili». Un contadino di Monteleone, dopo aver descritto come si viveva male prima dell’emigrazione, esclamava: «Gli americani hanno portato il paradiso». Ormai si direbbe che nelle classi umili si nasce con l’idea di andare in America. Interrogando qualche fanciullo su quel che si proponesse di fare, la Commissione si è sentito rispondere: «Quando sarò più grande me ne andrò in America».

 

 

È una fiumana, a cui nulla resiste. Ma è una fiumana generosa, che lascia dietro a sé un limo fecondo. I contadini rimasti, trovandosi in pochi, hanno rialzato la testa. Nel medio evo erano le grandi pesti che, diradando gli uomini, aumentavano il valore dei sopravvissuti e costringevano i signori a far loro migliori condizioni di vita. Così accade ora nel Mezzogiorno in conseguenza dell’emigrazione. Non sono cresciuti soltanto i salari, spesso più che raddoppiati; sono mutati i rapporti antichi di umiltà, di servilismo dei contadini verso le classi alte. «Sopra il ciuccio un poco per uno», diceva il contadino della Basilicata, un poco i signori ed un poco i contadini.

 

 

Adesso sono i contadini che vanno comodamente sopra l’asino, mentre il proprietario spesso va in rovina. Gli antichi proprietari, sovratutto quelli medi e piccoli, che vivevano con poche migliaia di lire di rendita e si occupavano della politica locale, adesso, per il rialzo dei salari, hanno visto le rendite diminuire, mentre i prezzi dei beni di consumo e le esigenze della vita crescevano. Costoro, in schiere sempre più numerose, incapaci di far fronte alle avversità, salvo i grandi proprietari, che possono contentarsi di redditi minori o hanno l’ardimento di trasformare industrialmente l’azienda, si arrendono e vendono la terra. Per fortuna loro, la vendono bene; perché mentre la tendenza dei fitti delle terre è verso la diminuzione, i prezzi di vendita tendono a crescere. Gli alti salari spiegano il ribasso dei fitti; mentre il ritorno degli emigrati (i cosiddetti americani), vogliosissimi di comperar terra, spiega il rialzo dei prezzi di vendita.

 

 

Per ora sono i fondi piccoli e medi vicini ai borghi abitati, che sono messi sul mercato; ma verrà col tempo la volta dei fondi più lontani e più grossi a mano a mano che la colonizzazione progredirà. Quel passaggio della proprietà fondiaria dai signori ai coltivatori che da secoli prosegue in Piemonte per l’agire indisturbato di forze naturali, che fu opera, almeno in parte, in Francia della grande rivoluzione, quel passaggio si è iniziato nel Mezzogiorno ad opera della emigrazione. Il segretario della lega dei contadini di Paola diceva: «Per effetto dell’emigrazione si va creando la piccola proprietà coltivatrice: i contadini che tornano dall’America e portano 5000, 10.000, fino a 20.000 lire, comprano, in generale, terra e la coltivano direttamente. Ora le loro terre sono meglio coltivate di quelle dei proprietari e danno proporzionalmente un reddito più che doppio».

 

 

Un proprietario di Paola, ex deputato ed esperto e sereno conoscitore dei rapporti locali: «L’emigrazione ha giovato al paese: senza di essa noi saremmo rovinati. Se le terre si possono vendere e bene, si deve solo all’emigrazione. Ordinariamente i contadini comprano piccoli fondi che migliorano notevolmente. Qualche volta si riuniscono ed acquistano anche grandi proprietà, che poi si frazionano. Qui l’interesse del denaro prima era enorme, fino al 36 per cento: ma ora i contadini trovano facilmente il denaro a mite interesse e spesso anche gratuitamente… Prima dell’emigrazione i contadini erano veri schiavi; ora sono ben diversi e le condizioni ed i patti angarici tendono a modificarsi». Un contadino di Amantea: «Se non fossi vecchio andrei anch’io in America; i giovani che vanno tornano galantuomini (borghesi, signori) e si comprano le terre dei proprietari».

 

 

Talvolta l’emigrazione, mentre eleva i contadini, salva pure dalla rovina le classi alte, che erano indebitate e possono rifarsi, vendendo una parte dei loro terreni e coltivando più intensivamente il resto. Accennando a questo fenomeno, così diceva il consigliere provinciale di Amantea: «Quando i contadini comprano la terra, in generale coltivano meglio e più intensamente: delle nude rocce sono ridotte a veri giardini… L’emigrazione ha avuto per effetto non solo di aumentare il valore della terra, ma anche di spingere i proprietari a migliorare i loro sistemi di coltura. Moltissimi proprietari sarebbero andati in rovina. Ora han potuto, vendendo una parte della terra, soddisfare i debiti, e coltivare più proficuamente la terra loro rimasta. Prima, la mia famiglia aveva dei terreni incolti; ma ora, pei mutati sistemi di coltura, ha trovato tornaconto a coltivarli».

 

 

Coloro che invocano a grandi grida il credito di Stato, le casse di prestanza agraria e altre simiglianti inutilissime e spesso perniciosissime cose, riflettano a quello che accade nel Mezzogiorno, dove pure l’usura infieriva di più e per cui si era sentito persino il bisogno di scrivere nelle leggi l’obbligo per il proprietario di anticipare sussistenze e scorte al contadino.

 

 

Nei paesi di antica emigrazione, dove gli americani sono già di ritorno, l’usura sta scomparendo da sé. A Rionero in Vulture, dove si ebbe a deplorare uno dei più grossi fallimenti di banche popolari (ecco gli effetti del credito artificiosamente importato), un agronomo esperto diceva alla Commissione: «L’usura agraria è oramai scomparsa per effetto dei capitali degli emigranti. Il denaro non manca per i coltivatori che hanno l’abitudine di restituire». Onde a ragione Nitti mordacemente conclude che coloro che più chiedono il credito allo Stato sono spesso anche coloro che non hanno l’abitudine di restituire.

 

 

Mutano siffattamente i rapporti tra le classi sociali che, se oggi si volesse, con gli stessi criteri di alcuni anni or sono, fare una legge sul credito – e sarebbe legge funesta, mentre quella d’oggi è legge morta – in molti paesi si dovrebbe disciplinare il prestito dei contadini ai proprietari. Diceva il sindaco di Tiriolo: «Spesso gli emigrati, che ritornano, prestano ai proprietari ad alto interesse, che qualche volta giunge al 15 per cento. La ragione di sì alto interesse è sovratutto nel fatto che i proprietari, nelle condizioni in cui si trovano, non offrono garanzia sicura».

 

 

Mutano anche le condizioni edilizie ed igieniche delle grosse agglomerazioni urbane. Prima dell’America, delle case dei contadini poteva ripetersi, salvo che il tetto era stato coperto di tegole, la descrizione che il Galanti ne aveva fatta nel 1782: «Le case del contadino, in quasi tutte le terre baronali, non sono che miserabili tuguri, per lo più coperti di legno o di paglia ed esposti a tutte le intemperie delle stagioni. L’interno non offre ai vostri sguardi che oscurità, puzzo, sozzure e squallore. Un letto tapino, insieme col porco e coll’asino, formano per lo più tutta la fortuna di lui. I più agiati sono quelli che hanno il tugurio diviso dal porco e dall’asino, per mezzo di un graticcio, impiastricciato di fango». Nei paesi dove non ha ancora agito l’emigrazione, le condizioni non sono tuttora cambiate.

 

 

Orridissimo a vedersi il Sasso di Matera, dove scavate nel masso sono parecchie centinaia di case, di uno, due, tre vani. Queste case sovrapposte spesso le une alle altre come in un imbuto, ricevono aria e luce soltanto dalla porta. Le pareti in generale umidissime, nella più parte non hanno alcun rivestimento: veri covi trogloditici, devono forse rassomigliare ad abitazioni selvagge di antichi progenitori, di epoca anteriore alla nostra civiltà. Se l’aria non penetra dalla porta ed è quindi scarsa e poco mossa, un costume orrendo viene ad aggravare questa situazione per sé stessa senza confronti.

 

 

Data la scarsezza di concimi e d’altra parte la mancanza di ogni fogna, si vuole utilizzare dagli abitatori di quegli orridi antri tutte le deiezioni, anche le umane. Allora, nello stesso covo, per lo più dietro il letto maritale, si scava un fosso, e vi si accumulano per mesi tutti gli escrementi. Tentando di entrare in qualcuno di quegli antri è difficile frenare il vomito ed il disgusto vince, e forza a retrocedere. Anche qui l’impulso al rinnovamento è venuto dagli americani. I quali, appena tornati, hanno voluto fabbricarsi la loro bella casetta, linda, tutta bianca di calce o rossa di mattoni. In alcuni borghi le case degli americani stanno a sé e fanno un contrasto vivace e spiccato con le tane delle vecchie vie. Pagano spesso prezzi fantastici per il terreno, 5, 10, 20 e persino 30 lire al mq.; e spesso non sanno costruire bene la casa, sicché mancano taluni accessori igienici indispensabili. Ma il progresso è già grandissimo; e col progredire del tempo e della colonizzazione, i contadini si persuaderanno a costruire un po’ fuori dell’abitato, dove la terra è meno cara, ed a costruire meglio.

 

 

Molto male si disse dell’emigrazione quanto al lato morale; dissoluzione delle famiglie, per la lontananza del capo, immoralità delle donne rimaste sole, molte nascite illegittime. In realtà questi son casi sporadici. Quasi dappertutto i legami famigliari si mantengono strettissimi nel Mezzogiorno; e l’onestà delle donne è assai rigida. Se il livello morale è rimasto nel complesso sano ed elevato, è nato, come cosa nuova, il bisogno dell’istruzione. Anche qui l’emigrazione ha cominciato a chiedere e a volere l’insegnamento scolastico. Il legislatore italiano ha creduto d’intervenire con leggi, che non voglio discutere se buone o cattive, se efficaci più o meno di altri mezzi che si sarebbero potuti adoperare, a diffondere l’istruzione nel Mezzogiorno, partendo dall’ipotesi che le classi dirigenti non ne volessero sapere e che il popolo ne ignorasse il valore. Come al solito il legislatore è arrivato in ritardo.

 

 

Dopo l’emigrazione, i contadini hanno cominciato a reclamare l’istruzione. I contadini tornati dall’America si dolgono di non saper leggere e ne mostrano i danni. Gli americani hanno fatto in questo senso la più larga propaganda, e certo quella più creduta, contro l’analfabetismo. L’ufficiale sanitario di Tricarico diceva: «Le scuole sono frequentate a causa degli americani, che raccomandano ai figli di andare a scuola. E gli americani non si contentano delle cinque classi elementari; fanno andare i figli anche a scuole private».

 

 

Un contadino di Montescaglioso, dopo aver detto delle difficoltà trovate in America e dei suoi risparmi, aggiungeva: «Noi quando torniamo paghiamo la terra troppo cara. Non abbiamo chi ci consiglia. Io non so leggere e scrivere. Per fare qualche cosa buona ci devono istruire. Se no che facciamo?». Dinanzi alle quali prove di mutato spirito pubblico verso l’istruzione, carità di patria vorrebbe farci sperare che si sia scelta la via buona quando con le leggi recenti si volle concentrare vieppiù la lotta contro l’analfabetismo nelle mani dello Stato, togliendo ogni iniziativa ai municipii proprio nel momento in cui questi dovevano cominciare a sentire l’influenza delle nuove classi desiderose di istruzione.

 

 

Giova sperarlo, quantunque tutto ciò che si sa dell’azione nulla o nefasta dello Stato nel Mezzogiorno persuada allo scetticismo più profondo. L’inchiesta è tutta una dimostrazione dell’inutilità irrimediabile delle leggi e della potenza mirabile delle forze spontanee. Abbiamo visto che il risorgimento del Mezzogiorno si impernia tutto sull’emigrazione. Di fronte a ciò, che cosa valgono gli empiastri che i politicanti e i ciarlatani amano mettere innanzi? Voglio riferire un parallelo sapiente, destinato a divenire classico, che il Nitti fa tra il proprietario individualista ed il proprietario sociale.

 

 

Non si potrebbero meglio dimostrare il vaniloquio e la inanità di tante miracolose provvidenze legislative: «Vi sono molti proprietari che lottano, tentano, osano; è la soluzione individualista. Vi è il proprietario, diciamo così, sociale: si occupa molto del credito, ha delle idee sull’azione dello Stato, preferisce che esso monopolizzi i concimi chimici, vuole che il deputato sia agrario. I risultati dell’azione individuale si vedono; quelli della sociale si gridano. Abbiamo in tutti i nostri viaggi trovato il proprietario individualista ed il proprietario, diciamo così, sociale.

 

 

Il primo vive in generale sulla terra od almeno per la terra; si occupa poco dello Stato e teme solo le imposte nuove. Tenta per conto suo, organizza come meglio può la produzione, non crede o non dà importanza al credito agrario e tratta, per convenienza economica, meglio che può i lavoratori. Il proprietario sociale vive poco in campagna, si occupa molto di politica, è apostolo dei benefici del credito, deplora sempre l’azione presente dello Stato, attende uomini politici con nuovi orizzonti. Segni caratteristici: in generale ha debiti».

 

 

L’augurio più fecondo di bene che possa farsi al Mezzogiorno è che si moltiplichi la razza dei proprietari individualisti, sia tra i reduci d’America, elevatisi col proprio sforzo perseverante, sia tra i vecchi galantuomini, sospinti dal timor della rovina ad una vita operosa. Le masse sane, lavoratrici, non mancano; difettano ancora i condottieri; ed il tempo, l’esempio altrui, la dura necessità soltanto li possono far nascere. Già gli uomini della borghesia nuova stanno sorgendo. Vi son figli di proprietari meridionali, i quali non vanno più a studiare nella facoltà legale di Napoli, perché sono insofferenti della vita faziosa e miserabile che dopo li attenderebbe,

 

 

Si recano, questi pochi, alla scuola di ingegneria industriale di Napoli, vengono fin quassù, nei Politecnici di Torino e di Milano o nella Università commerciale Bocconi. Si indovina in loro qualche volta lo studente povero, che lavora per vivere, durante gli anni di studio, che non sempre può venire a lezione, perché urgono le necessità della vita.

 

 

Fanno costoro, per studiare, sacrifizi oscuri che valgono bene le fatiche degli studenti e delle studentesse delle università d’America, di cui i giornali narrano come s’alloghino nelle vacanze a prestar servizio come camerieri e governanti nei grandi alberghi balneari e montani. Da qualcuno di questi studenti ebbi, quando scrissi sul Corriere della Sera le cose che oggi qui ripeto, lettere commoventi di ringraziamento per avere io detto agli uomini del Nord che nel Mezzogiorno pulsa una vita nuova. Bisognerebbe fecondare questi germi di risurrezione delle classi dirigenti. Fu perduta una magnifica occasione quando, per la cecità dei politicanti meridionali, si pretese di ricostituire l’Università di Messina, comoda per la coltivazione dei professori ed inutilissima per l’elevazione morale e materiale del Mezzogiorno!

 

 

Una reazione benefica si va però disegnando nell’opinione pubblica contro questi politicanti, i quali vorrebbero far salvare il Mezzogiorno dalla torpida, inetta, invidiosa burocrazia romana. Il Mezzogiorno non sa che farsene delle provvidenze governative, dei benefici che vengono dall’alto e corrompono il carattere umano. L’opera dello Stato deve essere sovratutto negativa. Lo Stato non deve ingombrare la strada ai volenterosi con costruzioni giuridiche inutili di contratti agrari, di enfiteusi e somiglianti vanità. Come dice Nitti, Cristoforo Colombo credeva di trovare l’India e scoprì l’America; ed assai più umilmente la Commissione d’inchiesta era andata a vedere se si dovesse con opera di legge mutare i rapporti fra proprietari e contadini ed ha trovato l’America, che tutti i rapporti sociali plasma a nuovo e tutti gli ostacoli infrange. Di fronte a questa forza nuova, che vale legiferare su rapporti che la gente sa mutare senza uopo di aiuto?

 

 

Lo Stato non deve distruggere le fonti della ricchezza con le troppe tasse e con i troppi regolamenti. Di fronte alle tasse elevate, molti americani, che erano ritornati, sono ripartiti, forse per sempre. Lo Stato non deve fare dei piani ridicoli di colonizzazione interna per redimere le terre incolte che mai non esistettero se non nella fantasia dei politicanti. Lo Stato non deve pretendere di sostituirsi esso con l’elemosina pubblica, colle Banche cosiddette del lavoro, con il trapiantamento delle popolazioni del nord nelle terre del sud, all’opera lenta e grandiosa che può soltanto essere compiuta, per virtù propria, dalle razze acclimatate da secoli e trasformate attraverso al crogiuolo americano.

 

 

Lo Stato non deve ascoltare i consigli che gli vengono da Edoardo Pantano, uno degli uomini più nefasti al Mezzogiorno fra quanti oggi vivono in Italia, di incanalare i risparmi degli emigranti, secondo un piano cosiddetto organico e grandioso, alla conquista del latifondo. I contadini sanno conquistare da sé la terra; ed il latifondo da sé si spezza, dove il frazionarlo risponda a convenienza economica. Far compiere da istituti – grandiosi quanto si vuole – di Stato ciò che deve essere opera spontanea e faticosa degli uomini è compiere un atrocissimo delitto contro la formazione del carattere meridionale, è ritardare di un secolo la risurrezione d’Italia.

 

 

Ciò che l’uomo conquista col proprio sforzo nobilita ed eleva, ciò che si ottiene in dono degrada ed abbrutisce. Invece di profondere milioni a creare nuove e sempre pestifere clientele politiche, la cui natura non muterà anche se manderanno al Parlamento dei politicanti radicali o socialisti invece dei sedicenti conservatori d’adesso, invece di fare ciò che è inutile o dannoso, invece di ingerirsi in ciò che è meglio che la gente impari a far da sé, lo Stato faccia ciò che gli individui isolati non sono stati finora capaci di fare:

 

 

  • renda giustizia a tutti ed instauri il regno della sicurezza personale per chi vuol lavorare, per chi osa dai grossi borghi abitati recarsi a dimorare nelle campagne disabitate e malsicure. Qual pazzia è quella da cui son presi i saltimbanchi e gli azzeccagarbugli che sono oramai tutte le classi dirigenti d’Italia, di far fare allo Stato il navigatore, il ferroviere, il prestatore di denari a mite interesse agli immeritevoli che chiedono e persino a coloro che nulla pretendono (proprietari delle Romagne), il venditore di zolfo e di agrumi; mentre si trascurano in modo indegno, vergognoso quelle che furono mai sempre dello Stato le funzioni essenziali: tenere a segno i malviventi e impartir giustizia rigida ed imparziale a tutti? Contro questo andazzo che rende l’amministrazione pubblica manutengola e complice dei peggiori elementi sociali, dispensiera di favori agli inetti è d’uopo insorgere con tenacia e violenza;

 

  • ricostituisca la terra, con colla colonizzazione e con sussidi inutili, ma col rimboschimento diretto dei territori più elevati, regoli con bacini e serbatoi di montagna il deflusso delle acque ed intraprenda poi le bonifiche delle paludi malariche della pianura. L’opera sua sarà tanto più feconda se si riuscirà a vietare alla burocrazia, orgogliosa di aver salvato il monte, di scendere al colle, dove l’albero crescerà da sé, per tornaconto economico del contadino, purché non gli sia fatto venire in odio dalla tirannia dei regolamenti;

 

  • istituisca scuole, dove le giovani generazioni siano addestrate all’uso degli strumenti, con cui l’intelletto si eleva e si formano le utili capacità sociali.

 

 

Sovratutto lo Stato distrugga l’opera sua del passato. Nitti – e mi rincresce di non poterlo ricordare per l’ultima volta a titolo di lode – ottenne nella recente discussione parlamentare sul caro dei viveri un successo folle non per la mezza verità che disse, ma per l’altra mezza che tacque.

 

 

Quando egli proclamò che il programma del vero uomo di Stato era di «non fare» nulla, fu applaudito freneticamente non per la verità indubbia da lui affermata contro conservatori e socialisti, contro camorristi del sud e protezionisti del nord: essere necessario che lo Stato si astenga dal fare molte delle malvagissime cose a cui oggi attende e dalle maggiori e più nefaste imprese a cui si appresta. No. Non le verità sono applaudite dai politicanti; ma le menzogne che nelle verità si nascondono. Nitti fu applaudito perché il «non fare» il male per l’avvenire implicò nel pensiero dei politicanti il «non distruggere» ciò che di male si fece in passato. Era la sanatoria concessa ai difensori del dazio sul grano, ai siderurgici, ai zuccherieri, a tutti i trivellatori del pubblico denaro, a tutti gli sfruttatori del contribuente.

 

 

Costoro pensarono che la formula esposta, fra tanto unanime consenso, dall’argutissimo collega non avrebbe impedito di ottenere quanti favori avrebbero desiderato in avvenire ed avrebbe giustificato tutti i latrocinii del passato. Perciò plaudirono. Non solo di «non fare», amico Nitti, ha bisogno il Mezzogiorno, ma anche di «disfare» il mal fatto. Questa sarà l’opera grande degli uomini di Stato del domani, se verranno. Tu ti illudi se credi che il Governo sia capace, anche quando tu sarai a capo del ministero cosiddetto dell’economia nazionale, di compiere l’opera, che ti sta tanto a cuore, del rimboschimento e della ricostituzione della terra distrutta nell’aspra montagna. Non bastano i milioni a raggiungere l’intento.

 

 

È d’uopo che gli uomini nuovi, che l’emigrazione ha suscitato nel Mezzogiorno, abbiano il tornaconto a ricreare la terra e a trasformare le culture. L’abolizione del dazio sul grano servirà soprattutto a far scomparire la massima vergogna dell’agricoltura nostra: le troppe terre coltivate. È merito grande del Valenti di avere, con la sua statistica agraria, dimostrato due verità: che in Italia non esistono terre incolte e che in Italia troppe sono anzi le terre coltivate.

 

 

Quando il coltivatore non sarà più spinto a coltivare a grano – coltivar male ma pur coltivare – le terre divenute disadatte, per la tenuità dello strato vegetale o per l’arsura della state, il Mezzogiorno avrà trovato la sua salvezza. Risorgerà il bosco, rifioriranno le verdi distese dei pascoli; ed il censimento del bestiame ci ridarà le meraviglie antiche di greggi innumeri. Solo l’abbattimento dell’edificio protezionista, burocratico, paterno, creato nell’ultimo trentennio dalle clientele politiche e dai gruppi economici parassitari potrà rassodare così la grande rivoluzione meridionale che l’emigrazione ha compiuto.

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