Opera Omnia Luigi Einaudi

L’educazione «popolare»

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/01/1903

L’educazione «popolare»

«Corriere della Sera», 4 gennaio 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 9-16

 

 

Decisamente l’Italia cammina a passi da gigante sulla via del progresso. Sono ancora recenti alcune vittorie dei partiti popolari nelle elezioni politiche ed amministrative ed è già meravigliosa l’influenza che i vittoriosi hanno saputo esercitare sugli affari del paese. Chi scrive non vuole tratteggiare tutta l’opera assidua di penetrazione nel governo della cosa pubblica che rapidamente è seguita al trionfo della politica popolare in alcuni grandi centri; soltanto vuole attirare l’attenzione su uno dei lati più curiosi di codesta conquista: quella della scuola.

 

 

Nella scuola si formano i futuri cittadini ed elettori; ed è naturale quindi che subito i «partiti popolari» abbiano veduto fosse necessario sostituire ai «vecchi ciarpami» della educazione religiosa e borghese i nuovi insegnamenti che i tempi mutati comportano.

 

 

Quali siano i nuovi insegnamenti noi possiamo per fortuna sapere in modo autentico leggendo tre volumetti che i signori Moro e Ferrari, insegnanti amendue e direttore didattico il secondo nelle scuole municipali di Milano, hanno licenziato di recente alle stampe[1]. I tre volumetti, uno dei quali ha già raggiunto in breve spazio di tempo la seconda edizione, sono destinati, come libri di lettura, agli alunni delle classi inferiori e superiori nelle scuole elementari serali e festive ed hanno il santissimo scopo di apprendere agli operai «come si deve agire per divenire uomini onorati e stimati da tutti».

 

 

Antonio Sormanni, un vecchio lavoratore che nei suoi giovani anni, quand’era soprannominato «sbarazzino» ha visto le vittorie dei partiti popolari ed ha aiutato il padre disoccupato ad attaccare sui muri delle case i manifesti elettorali, vi racconta nel primo e più interessante volumetto la sua storia, «alle volte pietosa e commovente, alle volte gioconda e serena».

 

 

Non si può negare che, inframmezzati al racconto, non si incontrino abbastanza spesso saggi ammaestramenti e buoni consigli ai futuri operai. Il carattere distintivo del libro non consiste tuttavia in questi insegnamenti ottimi di morale pratica ché esso, come si rileva dal suo titolo medesimo, Vita sociale, vuole avere una significazione ed un’importanza nuove di fronte alla «vecchia» morale dei soliti libri di lettura per le scuole elementari. Con quei vecchi precetti si fa tutt’al più l’uomo buono, ma non si educa il cittadino «cosciente», il quale – come insegna il Decalogo civile promulgato dal comune di Reggio Emilia nella solennità del primo maggio – «non odia, non offende, non si vendica mai; ma difende il suo diritto e non si rassegna alla prepotenza» (II, 163). Allo scolaro, futuro cittadino cosciente, conviene dunque innanzi tutto conoscere i malanni e le prepotenze della vita sociale odierna; ed i signori Moro e Ferrari provvedono a questo bisogno con descrizioni minute e precise delle torture dei carusi siciliani (vol. II, p. 55), dei piccoli schiavi bianchi condannati a lavoro inumano nelle vetrerie (I, 27), degli emigranti che laceri e scalzi abbandonano la patria diletta per lidi lontani (III, 129), dei facchini curvi sotto pesi enormi (III, 171), dei contadini sfruttati dai padroni, ai quali debbono mandare i capponi migliori, conservando per sé unicamente «quell’intima soddisfazione che si può provare soltanto in una casa dove regni l’accordo e l’affetto» (II, 63 e 65).

 

 

Quest’intima soddisfazione sembra però poca cosa agli scolari delle classi serali italiane, annoiati dal lavoro notturno (III, 6), umiliati dal sistema delle mance (III, 21), torturati dal cottimo (III, 90).

 

 

Occorrono perciò riforme sociali e politiche a togliere tutti questi malanni. Non basta osservare lo statuto, il quale sancisce la libertà di associazione e di sciopero. Occorrono leggi ed istituzioni nuove. Ad esempio leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul lavoro notturno, ecc. Nel comune per fortuna adesso «hanno vinto i partiti popolari» (I, 78) e quindi si potrà procedere, appena scadranno i contratti colla «Union des gas» e colla «Edison», alla municipalizzazione del gas e delle tramvie, e così «il comune guadagnerà di più, i consumatori potranno ottenere qualche economia ed i cittadini l’alleggerimento di qualche tassa» (I, 80). Alcuni comuni più progrediti, Como, Spezia, Padova, ecc., hanno già cominciato a dare «il lodevole esempio» e se questo principio si estendesse «si potrebbe fare una corsa in tram con cinque centesimi e, quel che più importa, mangiare del pane eccellente pagandolo metà di quanto costa oggigiorno» (III, 108).

 

 

Al giovane operaio dà noia il dover interrompere il lavoro a causa del servizio militare; importa perciò a lui patrocinare il principio della «nazione armata» frequentando il «tiro a segno, che è destinato a propagarsi per tutta Italia, rendendo inutile l’esercito permanente, troppo dispendioso» (III, 139).

 

 

Verrà giorno in cui questi, che ora sono sogni, diventeranno realtà, in cui «il sole della civiltà splenderà alto, magnifico, ristoratore per tutti» (II, 67); verrà giorno in cui «di tutti i popoli si farà un popolo solo» (III, 167), in cui gli italiani, scomparsa la «triste ed antipatica distinzione di italiani del nord e di italiani del sud», si sentiranno tutti fratelli, tutti uniti e concordi «per combattere le sante battaglie del lavoro e della propria rigenerazione economica e civile». Allora, quando il sole della civiltà sarà alto, gli uomini osserveranno il settimo comandamento del decalogo civile di Reggio Emilia: «Ricordati che i beni della terra sono frutto del lavoro; goderne senza far nulla è come rubare il pane a chi lavora» (II, 163).

 

 

Per affrettare l’avvento di quel giorno radioso non bastano i desiderii. Occorrono le opere. Non basta avere il culto degli eroi che guidano il proletariato sulla via faticosa della sua elevazione; non basta battezzare col nome di «Filippo» i proprii figli e comprare il «Tempo» (I, 43) per leggervi i fattacci di cronaca od i resoconti degli scioperi redatti in istile socialistico. Bisogna iscriversi alle «camere del lavoro», dove si trovano un «ufficio di collocamento» che è «l’unico mezzo di trovare un’occupazione sicura e lucrosa» (I, 34, 35, 75) ed un «ufficio di consulenza legale» dove ci sono avvocati che fanno riammettere al lavoro gli operai licenziati a torto (I, 34). La camera del lavoro è una «civile e modernissima istituzione, che riunisce in una sola immensa famiglia l’innumerevole stuolo dei lavoratori». Per mezzo di essa «chi vive del lavoro, sia delle braccia come del pensiero, può trovare il modo di manifestare i proprii bisogni e le proprie aspirazioni, di rivendicare i proprii diritti» (III, 82). Tanto è vero che i comuni «civili e liberali» accordano alle camere del lavoro la loro protezione; e quello di Milano, ad esempio, concede «oltre all’uso di un vasto caseggiato, anche un sussidio di diecimila lire all’anno». Alla camera del lavoro tutti gli operai debbono portare il proprio contributo di operosità. Nessun operaio deve vivere «appartato dai suoi compagni di lavoro» e si debbono lodare ed imitare quelli che si sacrificano «a portare alle loro società, alle loro sezioni il contributo della propria attività per il bene comune» (II, 35). In mezzo ai compagni si apprende la religione della solidarietà; ed il giovane «sbarazzino» Antonio Sormanni vi apprende infatti come bisogni scrivere le lettere per i compagni analfabeti, senza accettare il soldo offerto in compenso, perché «fra compagni di lavoro bisogna aiutarsi a vicenda, con solidarietà, in modo da contraccambiare favore per favore, senza curare esageratamente il proprio interesse personale» (I, 35). Vi impara altresì, egli garzone di armaiuolo, come gli convenga una volta rilasciare 50 centesimi sul suo settimanale di tre lire e mezza «per lo sciopero dei muratori, per solidarietà con quei poveri diavoli» (I, 46). Per lui questa è una novità, di cui spera di «rifarsi con le mance», pauroso tuttavia della solenne ramanzina che gli toccherà dal padre, al vedere mancanti i 50 centesimi; ma, giunto a casa, si consola perché il padre gli dice: hai fatto bene! e comprende allora «che la solidarietà fra operai, specialmente nel momento del bisogno, è uno dei doveri principali de lavoratori» (I, 48). Né più se ne scorda, poiché quando, giunto oramai agli anni maturi, il principale rimette ai suoi dipendenti l’opificio e lui, l’antico «sbarazzino» diventa il direttore della nuova cooperativa di produzione, giura prima di ogni altra cosa di non dimenticarsi mai «che i suoi doveri sono pari a quelli di tutti gli altri suoi compagni, coi quali deve dividere, anche per l’avvenire, le gioie e le fatiche del lavoro» (I, 128).

 

 

I doveri della «solidarietà» si sentono, osserva a ragione il nostro «sbarazzino», sovratutto nei momenti del bisogno, ad esempio, di sciopero. Allora il compiacimento di aver dato i 50 centesimi per la santa causa, interessa lo scolaro delle classi serali allo sciopero, «come se anch’egli vi avesse preso parte» (I, 48). Allora egli compra il «Tempo» per conoscere chiaramente la causa e l’intento dello sciopero, e vi impara «in quale miseria siano obbligati a vivere tanti disgraziati muratori» con 645 lire all’anno e conclude: «È giusto, è santamente umanitario il pensare a loro; e l’aiutarli a raggiungere un miglioramento economico, è un dovere per tutti quanti hanno in cuore un sentimento di giustizia e comprendono le esigenze ed i bisogni della odierna società» (I, 50). Compreso di sì nobili sentimenti, egli va al comizio dei muratori scioperanti che si tiene al castello e vi assiste al giudizio sommario che la folla pronuncia su due crumiri. Uno è lodato per aver fatto causa comune cogli scioperanti, l’altro che «tradendo la causa comune, spinto unicamente dal sentimento del guadagno, si è rimesso al lavoro» è bollato come «un traditore, degno di essere messo alla berlina». E probabilmente anche il nostro scolaro si unisce alle voci che vogliono sapere il nome del traditore; e saputo che si chiama Luigi Carsonni, anch’egli, come gli altri, avrà gridato: «Abbasso! abbasso! in modo assordante» (I, 57). è naturale che lo sciopero finisca con la vittoria degli operai. Anch’egli «prova un intenso piacere» al sapere che «avevano ottenuto un aumento sullo stipendio minimo, una diminuzione delle ore di lavoro ed il riconoscimento della loro lega di resistenza» (I, 57). Non sempre le cose vanno così bene negli scioperi, di cui i signori maestri delle scuole municipali di Milano amano raccontare le vicende ai loro scolari; ma non mai gli operai hanno la peggio. Qualche volta, bontà loro, fanno qualche piccola concessione alle ditte, pur di ottenere causa vinta sulle domande più importanti; ed in tal modo dimostrano «di essere ragionevoli ed animati da spirito conciliativo» (III, 97).

 

 

Per essere animati da codesti spiriti conciliativi e moderati, bisogna che gli operai si istruiscano e vadano a scuola. La scuola deve essere l’ideale della gioventù; ma non la scuola del curato, dove si imparano soltanto sciocchezze, come questa: che «la terra dovrà sempre essere lavorata dalle braccia dei contadini e bagnata col sudore della loro fronte» (II, 70).

 

 

Utili cose insegnano le visite ai musei; ed il nostro «sbarazzino» dopo una rapida corsa nei saloni del museo del risorgimento nazionale sa chi erano Garibaldi, Antonio Sciesa e Felice Orsini; e, se gli rimasero ignoti i nomi di Cavour e di Vittorio Emanuele, si è entusiasmato in compenso dinanzi alle memorie delle guerre dei piemontesi (come ognun sa, il regno d’Italia non era allora peranco costituito) e dei prussiani contro l’Austria nel 1866 (I, 94). Tornato a casa, i saggi ammaestramenti del padre lo fanno ritornare in se stesso dai bollenti entusiasmi guerreschi di cui s’era acceso nel museo poiché il padre, mandandolo a comprare dei fiammiferi, si lagna che ben presto una nuova tassa ne farà rincarare il prezzo, ed aggiunge: «Più di tutto sono le spese militari che assorbono la massima parte dei denari dello stato. Anche una piccola riduzione potrebbe per ora dare i mezzi agli altri ministeri di aiutare la popolazione, alleggerendola alquanto dei pesi dei tributi, dai quali ora è gravata. Basterebbe trasformare la cavalleria, non richiamare alcune classi, che hanno già prestato il servizio militare, diminuire gli anni di ferma e che so io» (I, 202). Quel «e che so io» avrà certo aperto dei vasti orizzonti di pensiero al giovinetto operaio, tanto più che nell’anno successivo le lezioni dei suoi maestri lo mettono in grado di fare un confronto fra l’Italia – dove esistono il militarismo e che so io cosa d’altro (ad esempio la lista civile) o dove le statistiche del governo insegnano che nel Veneto una famiglia di cinque lavoratori guadagna, tra padre, madre e figli, appena 365 lire all’anno (II, 79) – e l’Australia, dove l’esercito è ridotto al minimo, la monarchia è lontana ed in compenso si è ottenuta già da tempo «la legge delle otto ore di lavoro ed ogni anno al 21 aprile, si celebra da quei lavoratori tutti il grandioso avvenimento» (II, 110).

 

 

Le macchine sono ciò che dà maggiore speranza all’operaio di ridurre la giornata di lavoro e di aumentare le paghe. Adesso le macchine sono ancora troppo care perché se ne possa fare largo uso, ad esempio, nelle campagne; ma l’inconveniente, assicura il maestro, «sarà facilmente riparato quando i comuni o le leghe apposite si provvederanno di esse, per conto della comunità, e si potrà adoperarle dietro tenue compenso» (II, 73). Queste parole del maestro sono ascoltate con quella «religiosa attenzione» con la quale non si ascoltano più le prediche del curato; e con la medesima religiosa attenzione il nostro allievo va in un comizio ad imparare verità così limpidamente esposte come la seguente: «La vita sociale ha elevato e modificato il consumo della produzione» (I, 90). La genialità innata ai giovani operai italiani fa loro comprendere a prima vista la verità che si nasconde in questa proposizione, il cui significato può rimanere nascosto solo alla mente ottusa degli economisti di mestiere; ed è proprio la loro incapacità ad elevarsi al disopra degli interessi meschini della classe borghese che costringe gli economisti a scrivere tanti grossi e difficili volumi sulla traslazione delle imposte, quando bastano due parole al babbo, illuminato dalla coscienza del proletariato, per risolvere la questione in modo definitivo: «È vero che i ricchi pagano le tasse direttamente, ma poi si rimborsano di queste aumentando i prezzi dei prodotti e tenendo basse in proporzione le paghe a chi lavora per loro. Così, alla fine dei conti, chi paga realmente le tasse sono i lavoratori ed i consumatori, fra i quali predominano i poveri» (I, 101).

 

 

All’università popolare i futuri operai apprendono le verità più difficili. Ivi, a quanto sembra, ci debbono essere dei professori di economia politica, i quali intendono rivoluzionare la scienza, riportandola ai tempi anteriori ad Adamo Smith, e rimettendo in onore le dottrine della bilancia del commercio tanto disprezzate a torto dagli economisti borghesi. Infatti gli allievi vi imparano che «quanto minore è l’importazione e maggiore la esportazione in uno stato, tanto più la ricchezza nazionale è in prospere condizioni» (I, 100).

 

 

Ben a torto le università popolari sono ritenute dunque il focolaio dello spirito rivoluzionario. Al contrario esse amano conservare intatto il fuoco sacro della scienza medievale, che la scettica borghesia volterriana ha tentato invano di spegnere. Oggi quella scienza imperitura risorge ed i nuovi professori di economia politica, a scherno ed onta degli economisti asserviti al vitello d’oro, insegnano – nelle aule gremite di operai avidi di essere illuminati dal sole novello che risplende sull’orizzonte che «il denaro non è una merce, sebbene i banchieri, coi giuochi di borsa, lo considerino tale» (I, 106).

 

 

Dopo apprese le quali sublimi verità, a noi non rimane che nasconderci il viso dalla vergogna ed aspettare che una nuova scienza «popolare» sia sorta ad offrirci i mezzi di penetrare nei segreti della «vita sociale». Quei segreti noi, sommersi nelle tenebre della ignoranza borghese, non riusciremo mai a conoscere. Forza è ritornare sui banchi della scuola serale in un comune dove imperino i partiti popolari. Al contatto del popolo, la nostra coscienza, ottenebrata dagli interessi di classe, si schiuderà alla luce del nuovo verbo. Come Cristo diceva «Pace fra gli uomini di buona volontà» così oggi i due apostoli del novello Verbo dicono nella prefazione dei loro libri: «L’avvenire è dei volonterosi».

 

 



[1] A. Ferrari, A. Moro, Vita sociale. Letture per gli alunni delle scuole serali e festive. Tre volumetti. Luigi Ronchi editore, Milano 1902.

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