Opera Omnia Luigi Einaudi

L’emigrazione temporanea italiana

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/08/1900

L’emigrazione temporanea italiana

«Nuova Antologia», 1 agosto 1900

 

 

 

Attorno alla emigrazione italiana si è in questi ultimi tempi svolta una copiosa letteratura. L’opinione pubblica sembra occuparsi alquanto, se non altro per la novità della cosa, della «nuova grande Italia», la quale viene ultima a far compagnia alla Greater Britain e alla Grosseres Deutschland. La nuova e grande Italia è stata dai più intraveduta nelle comunità di emigrati nostri nell’America meridionale. Gli stessi nativi sono convinti che nell’Argentina si stia formando una nuova nazionalità. Il signor Rodriguez in un suo recente libro, Peligros americanos, stampato a Cordoba, così parla degli Italiani nell’Argentina: «Io prevedo per le colonie italiane il più brillante avvenire.

 

 

Nel colono italiano scorgo l’uomo sobrio, laborioso ed intelligente, che vive e fa fiorire la sua fortuna ove i Sassoni ed i Francesi morrebbero di fame. Io vedo che questi Italiani, i quali costituiscono più della quarta parte della popolazione argentina, sono più vigorosi dei coloni delle razze migliori. Tolto dal suo ambiente e trasportato in queste regioni, l’Italiano dimostra di appartenere a un popolo progressista, a mio parere, senza rivali». Queste parole confortano coloro che hanno fede nei destini dell’Italia nuova ed hanno come chi scrive, cercato di infondere nel paese la convinzione che solo nei campi immensi dell’estuario della Plata e nelle regioni temperate del Brasile possa costituirsi una nuova nazione italiana.

 

 

A questo grandioso intento dovrebbero essere rivolti i pensieri di coloro che hanno desiderio di operare nel nostro paese, organizzando Compagnie di colonizzazione, Società di commercio, impiantando scuole e lottando per la conservazione della lingua italiana nell’America latina. Mentre s’inizia quest’opera di espansione della nostra razza in un continente aperto alla conquista pacifica del lavoro e della intelligenza, noi non possiamo però dimenticare che per un complesso vario di cause non tutti gli emigranti ragionano come coloro i quali sognano la formazione della nuova grande Italia.

 

 

Si sa che la merce umana è la merce più difficile di tutte le altre a trasportarsi; e quantunque per molti la traversata dell’Atlantico sia oramai divenuta una abitudine quasi annuale, pure le fatiche, i rischi e i pericoli della colonizzazione agricola in un paese così lontano sono ostacoli abbastanza forti per distogliere gran parte della nostra emigrazione dall’uscire fuori dell’Europa. Vi si aggiungano l’amore del loco natio che induce gli emigranti a ritornare in patria per alcuni mesi dell’anno, e sovratutto l’attrattiva di salari relativamente facili ed alti in mestieri apparentemente più nobili dello scavare la terra, e si avranno così enumerati i principali fattori della nostra emigrazione temporanea nella Francia, nella Svizzera, nella Germania, negli Stati Balcanici, ecc.

 

 

Sono gli stessi fattori che fanno ristagnare tanta parte della nostra emigrazione nella città di Buenos Ayres o di Nuova York, e legittimano le lagnanze di vita stentata e grama che ogni tanto giungono di laggiù in Italia. Soltanto dopo un tirocinio più o meno lungo e dopo aver accumulato un piccolo peculio, gli emigrati forniti di maggiore energia ed iniziativa si decidono a tentar la via dell’interno, colonizzando la terra e divenendo proprietari liberi ed indipendenti.

 

 

Si tratta in fondo di una applicazione della legge del minimo mezzo. Molti che trapiantati d’un tratto dalla tolda del vapore in mezzo alla pampa argentina sarebbero periti miseramente per la mancanza di cognizioni, di capitali, di acclimatazione, riescono in seguito a fondare i nuclei di grandi colonie future, dopo aver passato attraverso al crogiuolo bonaerense che lascia precipitare a fondo i deboli e fa emergere soltanto i più forti nella lotta contro la natura deserta.

 

 

Lo stesso accade per la emigrazione temporanea nell’Europa. Essa è una scuola eccellente per molte centinaia di migliaia di operai e braccianti che partono dall’Italia abbrutiti, inabili, ignoranti, privi di qualsiasi sentimento di vita civile e politica, e ritornano in patria talvolta con qualche vizio in più e con parecchie idee balzane in capo, ma in massima meglio educati, con abitudini pulite e civili, forniti di una certa istruzione e maggiormente imbevuti del senso delle libertà private e pubbliche e meno disposti a subire, con rassegnazione fatalista, le violenze e i soprusi che prima sarebbero loro parsi inevitabili e necessari. A queste cose pensavo leggendo un breve libro di Emanuele Sella su L’Emigrazione italiana nella Svizzera (Torino, Roux, Frassati e C., 1899), nel quale si contiene una delle analisi più belle e compiute che si siano pubblicate finora del nostro emigrato temporaneo. Al libro precede una prefazione di Numa Droz, l’insigne statista che fu presidente della Confederazione svizzera.

 

 

Nella prefazione Numa Droz in poche parole lapidarie spiega quale debba essere la politica governativa verso la emigrazione italiana: «Pas de protectionnisme et une police impartiale e vigilante, voilà quelle est, a mon avis, la solution tres simple du probleme de l’immigration italienne en Suisse». In altre parole: Non si adottino provvedimenti di protezione dell’operaio indigeno contro l’immigrato italiano e si cerchi di educare questi al rispetto della giustizia, della persona e della libertà altrui. I fatti profusi a piene mani ed interpretati accortamente dal Sella nel suo libro ci permettono di dimostrare la massima di governo di Numa Droz con argomentazioni attinte alla natura e alla psicologia dell’emigrato nostro nella Svizzera.

 

 

Gli Italiani nella Svizzera sono andati crescendo continuamente di numero. Nel 1870 il censimento della popolazione li faceva ammontare a 18.000; ora essi superano molto probabilmente i 100.000. Quasi tutti sono emigranti temporanei. Partono dall’Italia alla fine dell’inverno per recarsi a prendere parte ai lavori edilizi che fervono da qualche tempo nella Svizzera; all’avvicinarsi della rigida stagione, quando l’arte muraria non offre più occupazione di sorta, essi riportano in Italia i sudati risparmi. Gli operai dell’arte edilizia formano il blocco più saldo della nostra emigrazione; accanto ad essi vi sono molti altri operai richiamati in Isvizzera da lavori colossali. Così la costruzione del tunnel del Gottardo e la relativa linea ferroviaria; così è ora il traforo del Sempione. Alcuni fanno gli agricoltori. Gli abitanti del Canton Ticino abbandonano le terre loro per andare a cercar fortuna in America: e i vuoti lasciati dalla loro partenza sono riempiti dagli Italiani.

 

 

Né manca un’emigrazione intellettuale, la quale si manifesta a tratti, quando cagioni politiche vi spingono molti fuorusciti dall’Italia. L’emigrazione intellettuale fu accentuata sovratutto prima del 1848 e si è rinnovata in occasione dei moti di Milano del 1898. In media gli emigrati italiani guadagnano abbastanza bene. I muratori, che sono di gran lunga i più numerosi, lavorano dieci ore al giorno e 7-8 mesi all’anno in media.

 

 

Sono pagati a Basilea da fr. 4.80 a 5 al giorno; a Zurigo da fr. 4.80 a 5.80; a Lucerna da fr. 4.30 a 4.50; a San Gallo da fr. 4 a 5. I manovali guadagnano 30-40 centesimi all’ora; i falegnami, gli imbianchini, i gessatori, i fabbri-ferrai, gli scalpellini e gli operai di tutti i mestieri inerenti all’edilizia da fr. 4.50 a 5 e sino a fr. 6 al giorno. Nella Svizzera sono numerose le segherie e molti Italiani vi sono impiegati a trasformare le foreste di pini che nereggiano sui monti secolari in materiale da costruzione. Anche qui il salario si aggira intorno alle 5 lire. Nel Canton Ticino, intorno a Biasca, un 2000 scalpellini lavorano a preparare lastre per finestre, terrazzi, ecc. Essi faticano 11 ore al giorno; il salario varia dai 2.50 agli 8 franchi al giorno, con una media di 4-5 franchi.

 

 

Ben visti dal popolo svizzero, attivamente ricercati dagli imprenditori di spettacoli pubblici sono i musicisti italiani. Rappresentanti di quello che una volta era quasi l’unico tipo dell’emigrazione nostra, i musicisti sono ben pagati e guadagnano facilmente le 10 lire al giorno. Un gruppo speciale di Italiani è dato dagli operai adibiti ai lavori del Sempione, di cui tanto si è occupata la stampa in quest’anno. Anche qui i nostri operai guadagnano discretamente.

 

 

Il salario degli sterratori è in media da fr. 2.80 a 2.90, il salario dei manovali è di fr. 3.40 – 3.90 e quello dei muratori si aggira intorno ai 4 franchi. I minatori guadagnano di più; i loro salari non scendono sotto ad un minimum di fr. 3.60 e possono salire sino a fr. 5.50. Le miserie degli operai del Sempione sulle quali tanto si è impietosita l’opinione pubblica da noi, sì da promuovere sottoscrizioni e da spingere la società Dante Alighieri all’azione, non derivano dunque dal basso prezzo dei salari.

 

 

Esse sono l’effetto di quell’agglomero inevitabile che si verifica nei primi tempi in che una folla di persone si riversa su un villaggio di campagna, disadatto ad alimentare ed a ricoverare tante persone. Le Ditte imprenditrici del tunnel hanno fatto molto per costrurre case-baracche, refettori, cucine e rivendite per i loro operai.

 

 

Ma gl’Italiani si sono precipitati con tanta furia e in così gran copia sui luoghi dove speravano trovare lavoro, che si è originato un certo squilibrio fra la domanda e l’offerta di alloggi e di generi alimentari, squilibrio che non poteva non tornar dannoso ai nostri operai. Il Sella racconta alcuni fatti che paiono davvero inverosimili. Fra le altre abitazioni di Italiani egli ha visto una stanza al piano terreno dove dormivano da 8 a 14 persone, due per letto. Le finestre erano mal chiuse. La camera alta m. 1.90, grande circa 20 metri quadrati.

 

 

Di sotto c’era una stalla. Quando la si spazzava, la stanza superiore era inondata di odori pestilenziali. Di sopra c’era una latrina. Le infiltrazioni passavano l’assito superiore. Il muro a sinistra entrando era ricoperto di muffa con qualche traccia di salnitro. Il muro di fronte era per metà in sfacelo. La calce era stata distrutta dalla umidità. Le pietre si levavano facilmente. Per questa stanza il locatario paga la enorme somma di 20 franchi mensili ed ha l’obbligo di ripararla. Ora si stanno costruendo molte case e si prevede che presto verrà rimosso lo sconcio delle abitazioni scarse e malsane; i magazzini di vendita aperti dalla Ditta imprenditrice hanno già fatto ribassare il prezzo dei generi alimentari.

 

 

Il fatto che gl’Italiani diventano ognora più numerosi in Isvizzera e sono ivi meglio pagati di quanto non siano da noi, dimostra che l’emigrazione nostra è grandemente proficua all’Italia e alla Svizzera ad un tempo. è utile all’Italia perché sfolla il mercato del lavoro e permette che si instauri fra la mano d’opera sovrabbondante ed il capitale scarso per cause naturali ed artificiali un equilibrio più favorevole al conseguimento di un massimo benessere individuale e sociale.

 

 

È proficua alla Svizzera per le opposte cagioni. Mentre da noi scarseggia il capitale e sovrabbonda la popolazione, nella Svizzera il capitale è disponibile in copia per tutte le intraprese private e pubbliche e difettano invece relativamente i lavoratori.

 

 

La emigrazione nostra pone riparo a questo difetto di squilibrio. Accade qualcosa di simile a ciò che si verifica quando si mettono a contatto due vasi comunicanti: l’acqua del vaso dove il livello è più alto si riversa nel vaso dove il livello è più basso finché l’equilibrio sia raggiunto. Grazie agli Italiani gli Svizzeri hanno potuto utilizzare certe porzioni del proprio capitale che altrimenti sarebbero rimaste inutili; ed oramai, come dimostra molto bene il Sella e come riconosce apertamente nella lettera- prefazione Numa Droz, i tre milioni di Svizzeri non potrebbero fare a meno dei centomila Italiani che lavorano e faticano sul suolo ingrato della Confederazione. Come questo accada è cosa chiara. I capitalisti non impiegano il proprio denaro se non quando le ultime porzioni del capitale impiegato abbiano almeno una produttività uguale al loro costo.

 

 

L’imprenditore svizzero di case, quando l’immigrazione italiana non era ancora incominciata, e il salario del muratore indigeno era, supponiamo, di 7 franchi al giorno, si decideva a costrurre case soltanto finché il valore della casa costrutta fosse stato eguale al costo del lavoro e dei materiali impiegati. Siccome il costo del lavoro era alto, le case dovevano avere altresì un grande valore, il che non poteva darsi ove se ne fossero costrutte troppe. Il capitale quindi che si poteva impiegare nell’arte edilizia era limitato dalla quantità e dal costo della mano d’opera indigena. Sopravvenuti gl’Italiani, i salari furono ribassati a 4 e 5 franchi al giorno. Gli stessi imprenditori di prima possono ora costrurre un numero maggiore di case; perché l’accresciuto numero e il diminuito costo della forza-lavoro permettono di impiegarla proficuamente anche se per la maggiore offerta di case il prezzo sul mercato, a parità di altre circostanze, venga a diminuire.

 

 

Quel che si dice dell’industria edilizia, si può ripetere per qualsiasi altra industria. Grazie agli Italiani si costruiscono case, traforano montagne, si compiono lavori di sterro, si esercitano alberghi per mezzo di un capitale che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato od avrebbe emigrato all’estero.

 

 

Tutto ciò fa si che il prezzo delle cose necessarie alla vita venga scemato d’assai; che i salari antichi abbiano una maggiore potenza di compra e che in massa si accresca il campo d’impiego della popolazione operaia nella Svizzera. Rimangono certamente danneggiati dalla immigrazione nostra quei 100.000 circa operai svizzeri appartenenti ai due o tre mestieri ai quali gl’Italiani muovono concorrenza. Ma è un carattere inevitabile di tutte le benefiche trasformazioni sociali che il passaggio da uno stato ad un altro non si possa scompagnare dal danno di una minoranza. Chi per togliere questo danno volesse impedire la trasformazione sociale, e nel caso nostro chi, per impedire il ribasso dei salari nell’arte edilizia svizzera, volesse ostacolare l’immigrazione italiana, ragionerebbe come i ludditi i quali infrangevano i telai meccanici perché facevano concorrenza ai telai a mano.

 

 

Il rimedio migliore che si possa suggerire agli operai svizzeri non è già di adottare provvedimenti protezionistici contro i nostri immigranti, ma di adattarsi il più rapidamente possibile alla trasformazione sociale, benefica per la intiera società, emigrando all’estero o trasferendosi verso impieghi superiori ove la concorrenza italiana non si fa sentire, e che sono resi accessibili dalla cresciuta produttività del capitale.

 

 

Gl’Italiani però non devono rimanere inoperosi dinanzi alle proteste che la loro concorrenza fa sorgere da per tutto. Essi devono cercare di sopprimere a poco a poco tutti quei motivi i quali giustificano l’avversione della popolazione operaia indigena, e che possono dare una parvenza umanitaria ad una lotta di concorrenza contro il ribasso dei salari. Gl’Italiani debbono cioè rendere ognora più difficile il ripetersi di fatti dolorosi come quelli di Aigues Mortes, del Brasile e di Zurigo nella stessa Svizzera.

 

 

Si è molto parlato della criminalità degli Italiani all’estero; dopo il delitto Luccheni la criminalità degli Italiani è diventata nella Svizzera un argomento di moda ed ha servito a radicare sempre più nel convincimento di tutti l’idea che gli Italiani siano un popolo delinquente per eccellenza. L’opinione è in gran parte infondata. I delitti commessi dagli Italiani sono forse più emozionanti dei delitti commessi dagli Svizzeri ed attraggono per questo motivo forse di più l’attenzione pubblica. Ma non è vero che siano più numerosi degli altri.

 

 

Cifre precise non sapremmo addurre a questo proposito, se non questa che a Ginevra le condanne degli Italiani nel 1897 furono solo 109 e la maggior parte per reati lievi. Si aggiunga che, mentre nel 1890 su 437 permessi di soggiorno rilasciati ad Italiani, le condanne al correzionale furono 10; nel 1897 quando vi furono 2520 permessi rilasciati, cioè all’incirca sei volte più che nel 1890, le condanne degli Italiani avrebbero dovuto essere, seguendo la stessa proporzione, 57; e non furono che 17. Il che dimostra come la criminalità italiana diminuisca anche in mezzo ad una popolazione adulta maschile quale è quella che dà il massimo contributo alla nostra colonia. Molto rimane però, senza dubbio, da fare onde elevare gli immigrati italiani al livello degli operai indigeni.

 

 

Gli operai svizzeri rappresentano l’aristocrazia del lavoro; gli operai italiani rappresentano la democrazia del lavoro. Al contatto degli operai indigeni gli italiani si sentono istintivamente diversi e tendono a rimanere isolati. Essi sono in generale refrattari a imparare la lingua che spesso, specialmente quand’è il tedesco, arrivano a mala pena a capire; ed avendo abitudini di vita differenti, si accentrano in quartieri ed in luoghi di ritrovo speciali.

 

 

Ecco che cosa dice un opuscolo socialista intorno ai caratteri fisici e morali degli Italiani: «I nostri stracci, i nostri costumi di gente senza esigenze, di zingari che si contentano di rosicchiare porco salato, o peggio, formaggio, o peggio ancora, cipolla e pane, che si adattano a cacciarsi di notte in tre, in quattro, in dieci dentro la medesima stamberga, ci hanno procurato all’estero una triste nomea».

 

 

È sempre la stessa refrattarietà alle raffinatezze e ai comodi della vita civile che in tutto il mondo si eleva come una barriera insormontabile contro gli operai italiani. Essi sono pregiati e ammirati come operai; gli imprenditori vanno a gara a servirsene; gli operai indigeni li guardano con invidia; ma, nonostante tutto ciò, sono pur sempre veduti con sospetto perché privi del sentimento di dignità della propria persona, perché vivono appartati nei quartieri più luridi della città, perché non partecipano alle Associazioni di resistenza dei lavoratori del paese. È tuttavia doveroso osservare che, per un lento lavorio di permeazione, a poco a poco quegli operai italiani che sono più intelligenti e che più a lungo rimangono nella Svizzera, vanno migliorandosi e tendono ad uniformare le loro abitudini alle abitudini del popolo civile in mezzo al quale si trovano. Questo innalzamento viene favorito dalle qualità mirabili della mente e del braccio italiano.

 

 

Gli impresari, gli ingegneri e tutti coloro che vivono a contatto degli operai italiani affermano che essi godono di una attitudine molto pronunciata ad applicarsi spontaneamente ai lavori più svariati e diversi da quelli a cui essi di solito attendevano. L’operaio inglese ha fama di essere uno dei più «skilled» del mondo; ma stenta a guadagnarsi da vivere se deve applicarsi ad un mestiere diverso da quello da lui seguito fino dall’infanzia.

 

 

Ecco come il Sella descrive questo fenomeno per gli operai del Sempione: «Ci sono alcuni individui che compiono automaticamente una data operazione; ci sono altri individui che hanno una dote speciale, una pieghevolezza dello spirito che permette loro di perfezionare il lavoro in modo che un maggior risultato sia ottenuto con uno sforzo minore. Alcuni calzolai, alcuni falegnami, alcuni sarti a Brigue sono stati adibiti a lavori meccanici; gli operai italiani sanno più facilmente di operai di altre nazionalità cambiare ed imparare diversi mestieri; i muratori italiani sono i migliori muratori. In ogni pietra che smuovono o che collocano sanno risolvere un complesso problema di economia, di tempo e di energia, un problema di estetica e di solidità. Questo fatto nasce dalla percezione nitida dell’ordine delle cose esistenti; nasce dall’intelligenza e non dai muscoli soltanto».

 

 

Forse dal sentimento della propria abilità a compiere i lavori più diversi, e dalla coscienza di essere capaci a guadagnarsi da vivere in qualunque modo, nasce negli Italiani quasi una ripugnanza ad inscriversi nelle Associazioni che stringono come in una morsa di ferro le classi operaie della Svizzera. Gli Italiani ascritti al Gewerkschaftsbund, la colonna vertebrale dell’organizzazione operaia nella Svizzera, sono ancora pochi, e poche le Società italiane di resistenza. Per questa ed altre ragioni quasi tutti gli scioperi iniziati da operai italiani finirono male.

 

 

Deboli e poco attive sono del pari le Società italiane di mutuo soccorso e di beneficenza che vivono nella Svizzera. Anche in suolo straniero sembra che gli Italiani conservino le antiche abitudini di discordia e di campanilismo. Le Società si moltiplicano come i funghi; da una sola ne nascono due, tre, quattro, appena alcuni soci diventino malcontenti per non essere stati nominati presidenti, segretari, cassieri. Vivacissimi e rigogliosi sono stati soltanto i Circoli e le Associazioni politiche. Ma anche qui si tratta di una vita splendidamente effimera. Nascono quando nella Svizzera abbondano i rifugiati politici; si dileguano appena i fuorusciti abbiano potuto ritornare in Italia.

 

 

Nel 1898 si ebbe una fioritura di Circoli e di giornali repubblicani, socialisti ed anarchici; ma come sorsero d’un tratto, così d’un tratto rapidamente decaddero, senza aver mai esercitato alcuna influenza degna di nota sulla massa operaia immigrata. Su di essa nessuna propaganda ha esercitato finora una grande influenza; e nessuna azione di elevamento sociale proveniente dalla madre patria ha potuto aver luogo. Forse per la tenuità dei mezzi con cui si è tentato di venire in soccorso agli Italiani della Svizzera, e specialmente del Sempione. Ma fors’anco questa sterilità dell’azione collettiva deriva dal non aver saputo fare appello ai sentimenti più profondi dell’anima operaia, e dall’essere il processo di elevamento di un’intera classe sociale un processo lento e spontaneo. Volerlo accelerare è opera talora possibile, ma sempre difficile.

 

 

L’operaio italiano è per natura ribelle all’associazione, e tanto più vi sono ribelli gli operai emigranti che sono quasi sempre dotati di una certa maggiore iniziativa che non quelli rimasti alle lor case. Lo spirito d’associazione non si manifesta se non sporadicamente, ed assume certe forme caratteristiche, come nello ubriacarsi la domenica cantando e vociando a squarciagola tutti insieme nelle osterie dei quartieri popolari delle città della Svizzera. Origine questa di molti guai e sovratutto della triste nomea di accoltellatori che ci siamo guadagnata in così gran parte d’Europa.

 

 

Lo spirito d’associazione si manifesta in un altro modo fra gli operai italiani: nel riunirsi in otto o dieci in una sola stanza, dove tutti insieme a scopo di risparmio si dorme e si mangia. L’affitto viene a costar meno caro ed uno degli associati, a turno, provvede a far cuocere le vivande della compagnia. È una forma embrionale di cooperazione, simile alle artele russe. Ma è una cooperazione la quale per nostra disgrazia non va scompagnata dall’affollamento soverchio in una sola stanza, dalla poca pulizia; ed è un altro fra gli incentivi che inducono gli Italiani a tenersi lontano dagli Svizzeri ed a condurre un tenore di vita grossolano ed incivile.

 

 

 

Le notizie e le osservazioni brevemente esposte, e quelle altre che si possono leggere nel libro del Sella, possono forse aver persuaso che la nostra emigrazione nella Svizzera non è poi quella gran disgrazia che molti si immaginano leggendo i melanconici commenti dei giornali ai fatti di Zurigo od alla situazione degli operai al Sempione. Dal punto di vista economico l’emigrazione è indiscutibilmente un bene, come già dimostrammo, sia per l’Italia sia per la Svizzera. Sotto l’aspetto civile e politico non è dubbio del pari che, per quanto gl’Italiani abbiano la tendenza a rimanere segregati, pure sullo spirito loro non può non riuscire benefica una dimora più o meno lunga nella Svizzera. Ivi essi imparano a pregiare ed a stimare un bene di cui in Italia si apprezza poco l’importanza: il rispetto che da uomini liberi e civili si deve alla altrui ed alla propria persona.

 

 

Di fronte alla ostilità degli Svizzeri per degli esseri sudici, vestiti di stracci, che mangiano aglio e cipolle e dormono a mucchi accovacciati in luride tane, i nostri operai provano in sulle prime come un senso di amor proprio offeso e di sprezzo che li induce a mantenersi ancora più appartati di prima. Ma questo periodo di segregazione è di breve durata. A mano a mano che gli operai nostri si innalzano nella gerarchia sociale, e aumentano i loro guadagni, i rimpatrii diventano meno prolungati e diminuisce il bisogno di tesaurizzare per la famiglia lontana o per allargare il microscopico campicello abbandonato al paese natio. Accade allora che l’operaio rinuncia per un inverno a fare ritorno in patria e chiama a sé la famiglia o si ammoglia con una figlia di altri immigrati o con una donna del paese.

 

 

Quando si è giunti a questo punto è scomparso l’operaio vestito di stracci ed è spuntato l’operaio semisvizzero che veste e dimora e mangia come un buon piccolo borghese, avente forse degli orizzonti limitati, ma imbevuto fino al midollo del sentimento di rispetto verso la legge e verso sé stesso. È certo che la trasformazione ora descritta si compie soltanto per una minoranza di operai, per quelli che hanno abbandonato le antiche abitudini vagabonde ed hanno saputo conquistare una posizione fissa, piccola o grande, nella famiglia svizzera. Ma anche per gli altri che vanno e vengono continuamente dall’Italia alla Svizzera e viceversa, non sono piccoli i benefici di una dimora più o meno lunga nella vicina Repubblica. Se non altro essi imparano ad apprezzare la diversità dei sistemi tributari vigenti nella Svizzera e nell’Italia.

 

 

Uno dei motivi per i quali i legislatori ricorrono così largamente alle imposte indirette sui generi di consumo è la facilità grandissima di poter percepire la imposta quasi inavvertitamente commista insieme con il prezzo dei generi consumati. Quando in Italia si compra un chilogramma di pane o di zucchero, il consumatore medio ignora di solito quanta parte del prezzo corrisponda ad un’imposta pagata al Governo. I partiti democratici hanno già fatto molto per infiltrare nel grosso pubblico la nozione dei gravami sopportati a cause delle imposte indirette; ma si tratta d’una nozione teorica, imparata soltanto da coloro (e sono pochi relativamente alla massa) i quali leggono i giornali od ascoltano le conferenze degli oratori appartenenti ai partiti estremi.

 

 

L’operaio il quale emigra nella Svizzera tocca invece subito con mano gli effetti sensibili delle imposte indirette. La lira da lui guadagnata con tanta fatica in Italia dimostra subito di avere una potenza acquisitiva molto minore del franco da lui ottenuto in Svizzera con relativa facilità. Il latte costa solo 20 centesimi al litro; il petrolio 15 centesimi invece di 70; il pane 35 invece di 45 centesimi; la carne di vitello, di montone e di bue 1,20 invece di 1,50; lo zucchero 0,45 invece di 1,50; il caffè da 2 a 2,40 invece di 3 – 4 lire come in Italia. La esperienza dei prezzi miti lo induce a riflettere sui motivi per i quali in Italia si paga tutto più caro che in Svizzera; e di qui è breve il passo alla conclusione che sarebbe una bella cosa se in Italia si potesse indurre il Governo a diminuire le imposte, apparentemente inavvertite, sui generi di consumo popolare.

 

 

Se in Italia si giungerà in avvenire a mitigare le imposte indirette, una non ultima causa della diminuzione sarà stata la conoscenza diffusa dagli emigrati reduci in patria di paesi dove le imposte sono tenui e dove la gente può con una lira comprare una quantità ben maggiore di pane, zucchero, petrolio, ecc., di quanto non sia possibile da noi. Rallegriamoci dunque delle tendenze migratorie dei nostri contadini e dei nostri braccianti. In un paese dove le classi dirigenti hanno così poco l’abitudine di viaggiare all’estero, la corrente continua di emigranti che si riversa fuori della patria apporta a noi in ritorno una parte di quelle idee e di quelle ricchezze che rendono la vita più bella nei paesi che ci stanno dintorno.

 

 

Questa emigrazione temporanea nei paesi europei non rappresenta certo un ideale; essa non può essere lo scopo supremo che le masse italiane sovrabbondanti si debbono proporre per raggiungere la massima felicità propria, dei loro discendenti e della loro patria. Se non uno scopo la emigrazione temporanea è un utilissimo mezzo per insegnare agli Italiani quali sono le grandi vie maestre della ricchezza e della potenza sia all’interno che all’estero.

 

 

Abituati a vedersi rimunerati in proporzione della propria operosità ed iniziativa gli Italiani imparano ad aver fiducia in sé stessi e a non aspettare la fortuna dalla provvidenza governativa. Usi a vivere con larghezza in virtù dei bassi prezzi dei generi di consumo, essi imparano a giudicare al suo giusto valore il sistema fiscale e doganale vigente in Italia e il giudizio sfavorevole li sprona ad agitarsi per ottenerne il miglioramento. Saliti di uno o di parecchi gradi nella gerarchia sociale, essi cominciano a guardarsi d’attorno, e si accorgono che il mondo è grande e non si limita all’Italia e all’Europa.

 

 

Se in Italia od in Europa la loro sorte non può essere diversa da quella di operaio più o meno ben pagato, ma sempre dipendente dai cenni altrui, non dappertutto è così. Nell’America meridionale è ancora possibile diventare proprietari di terreni, pastori, industriali e commercianti indipendenti. Nella Svizzera i Ticinesi abbandonano la lavorazione delle loro sterili terre agli Italiani e vanno a tentare la fortuna nell’Argentina. Spesso vi riescono; ed è a sperarsi che l’esempio fortunato spinga ad imitarli gli stessi Italiani che ora li stanno sostituendo nella Svizzera. Se anche alcuni terreni del Canton Ticino dovessero rimanere incolti il male non sarà grande. In questo modo l’emigrazione temporanea avrà giovato a costituire una razza di lavoratori temprata alle fatiche, adusata alle avversità della vita, ed abituata ai viaggi ed ai paesi nuovi.

 

 

Quando molti fra gli Italiani saranno passati a traverso al crogiuolo della migrazione temporanea ed avranno posto i germi del rinnovamento civile, economico e politico della vecchia e piccola Italia, la formazione, già iniziata, di una «nuova e più grande Italia» riceverà un impulso straordinario. Siamo già ora il principale fattore della prosperità economica dell’America latina. Diventeremo allora un fattore potente della trasformazione politica e morale di quelle Repubbliche, congiungendo insieme la genialità latina ed il senso d’indipendenza, di ordine e di libertà che sembrano ora il retaggio dei popoli anglosassoni.

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