Opera Omnia Luigi Einaudi

L’esperimento russo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/01/1918

L’esperimento russo

«Corriere della Sera», 12 gennaio 1918[1], 26 gennaio 1919[2], 2 febbraio 1919[3], 22 marzo 1919[4], 25 marzo 1919[5]

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 145-171

 

 

 

I

 

Narrano le storie che i rivoluzionari francesi andati al potere, fra l’altro, per reazione alle spese pazze e rovinose dell’antico regime, abbiano ben presto sorpassato tutte le cifre più elevate raggiunte durante la monarchia. Secondo l’ultimo bilancio di Necker, le spese pubbliche salivano a 531 milioni all’anno. La rivoluzione e le guerre rivoluzionarie costarono durante quattro anni e mezzo 1.582 milioni all’anno, oltre alle spese ordinarie. I giacobini avevano rimproverato alla monarchia le frequenti riduzioni di interessi e di capitale sul debito pubblico ed emisero poi quantità fantastiche di biglietti sotto il nome di assegnati. In settembre 1792 gli assegnati ammontavano già dai 400 originari emessi nel dicembre 1789, a 1.792 milioni ed ogni biglietto da cento valeva solo 72 lire in oro. In gennaio 1793 siamo a 2.826 milioni ed il prezzo precipita a 51; in luglio 1794 siamo a 6.082 ed il prezzo è di 34 lire; in gennaio 1795 gli assegnati sono 7.229 ed il prezzo è di 18 lire. La convenzione minaccia ammende e detenzioni ai colpevoli di non accettare i biglietti alla pari e 20 anni di ferri ai recidivi; ma col crescere dei biglietti il ribasso continua: nel gennaio 1796 ci sono 27.565 milioni di assegnati in circolazione, ma i biglietti da cento lire valgono solo 45 centesimi. Ben presto nessuno più vuole saperne dei biglietti che il Direttorio mette in giro appena usciti ancora umidi dalla macchina che tutta la notte a velocità forzata li ha stampati; ed il Direttorio non trova di meglio da fare se non dichiarare che i biglietti emessi non valgono più nulla, facendo così una bancarotta di 28 miliardi di lire ed emettendo in vece loro altri biglietti a cui si dà il nome di mandati territoriali. Ma questi non hanno miglior fortuna dei precedenti; in pochi mesi dall’aprile al settembre del 1796 se ne stampano per più di 18 miliardi; e poiché tutti li reputano oramai carta straccia, il governo dichiara di rifiutarli anch’esso in pagamento delle imposte.

 

 

La storia si ripete. in Russia durante il 1914 in media il governo emise 550 milioni di lire in biglietti al mese, durante il 1915 la quantità emessa crebbe a 560 milioni, nel 1916 a 720 milioni. Ma dal marzo all’agosto la emissione mensile balzò a 2.200 milioni di lire al mese. Oramai la quantità di biglietti in circolazione, che allo scoppio della guerra era di 4.358 milioni, già alla fine di ottobre giungeva a quasi 49 miliardi di lire. Una vera inondazione di carta! Qual meraviglia che i biglietti da 100 rubli equivalgano solo a circa 20 rubli e che molti temano di vederli precipitare a zero ed i contadini non li accettino in pagamento delle loro derrate!

 

 

Fossero almeno bene spesi i denari fabbricati con tanta furia che a Pietrogrado, non bastando più le macchine dell’officina carte valori, si dovettero requisire le macchine da stampa delle tipografie private! Una corrispondenza del «Times» da Pietrogrado ci fornisce particolari interessanti sulla cura del pubblico denaro da parte dei bolscevichi e ci fa rivivere colla mente ai bei giorni quando gli scioperati di Francia preferivano passare il tempo nei clubs rivoluzionari pagati ad un tanto per seduta sulla pubblica cassa o quando i più scalmanati giacobini, commissari presso gli eserciti, ritornavano dalla campagna di Svizzera e d’Italia chi con 350.000 lire, chi con 150.000, chi con 300.000, chi con 1.200.000 lire di bottino. I bottini russi non sono fatti all’estero; ma per essere compiuti esclusivamente alle spalle dei disgraziati contadini russi non sono meno significativi. Da cifre ufficialmente citate dal governo alla conferenza di Mosca dell’agosto scorso risulta che i Comitati rivoluzionari dell’alimentazione hanno assorbito da soli 1.250 milioni di lire, principalmente ripartiti in stipendi agli affiliati ai «Soviet» col bel risultato di inasprire la carestia nel paese. I Comitati agrari rivoluzionari, creati coll’intento di confiscare la proprietà fondiaria, avevano cominciato a confiscare a proprio profitto 350 milioni di lire. Il libro paga del Soviet di Pietrogrado da solo ammonta a 750.000 lire al mese, 21 milioni di lire all’anno. La lista civile dello Zar spodestato non costava di più.

 

 

L’imposte non rientrano più; nessuno vuol pagare, precisamente come accadeva sotto il governo del terrore quando su 300 milioni di contribuzione fondiaria del 1792 il tesoro all’1 febbraio 1793 non aveva ancora riscosso un centesimo. Come in Francia, minacciati di vedersi confiscate le loro derrate e pagati in carta di nessun valore, gli industriali ed i contadini si astengono dal lavorare. Si calcola per la Russia la diminuita produzione durante il regime rivoluzionario a 20 miliardi di lire. La nazionalizzazione delle Banche, la cessazione forzosa dei pagamenti, il saccheggio delle riserve auree della Banca di Stato Russa – per fortuna questa aveva depositato all’estero in garanzia di maggiori anticipazioni ricevute 5.800 milioni di lire d’oro, conservandone in cassa solo 3.300 – hanno distrutto ogni fiducia nell’avvenire. Il pubblico vede che i bolscevichi cominciano a portar via dalle casse della Banca di Stato in Mosca 1.500 milioni, che non si sa dove siano andati a finire e trema per i propri risparmi. Non si ha più interesse a produrre, non si ha più stimolo a risparmiare.

 

 

Quali le conseguenze? Che la disorganizzazione e la carestia diventano sempre più spaventevoli in Russia. Secondo le dichiarazioni di un ministro, la produzione della stoffa di cotone era già ridotta in agosto a pochi centimetri per testa di abitante. I contadini, finiti i loro abiti vecchi, non ne possono comprare di nuovi e devono contentarsi di cenci, come i trogloditi dell’età della pietra. Le provviste destinate ai soldati sono state da tempo assegnate agli sbandati. Ben presto né soldati, né sbandati, né civili avranno cibo.

 

 

La guerra, detta nefanda perché proclamata dallo Zar, costò milioni di morti e di feriti alla Russia; la carestia, provocata dall’insipienza di visionari improvvisatisi uomini di Stato, ucciderà, se non si trova modo di mettere un po’ d’ordine nel caos, decine di milioni di uomini. Sarà una carneficina orrenda, superiore a tutte quelle che si narrano delle carestie medievali, cinesi ed indiane. Il flagello della carestia era stato debellato e sembrava tramontato per sempre. Ma non bisogna mai dimenticare che la carestia era scomparsa perché in tutto il mondo l’agricoltore coltivava i campi, l’industriale comprava materie prime e le trasformava in prodotti finiti, le amministrazioni ferroviarie facevano correre i treni, i piroscafi trasportavano il frumento, il cotone ed il carbone ed i risparmiatori affidavano ai banchieri il peculio non consumato. E tutto ciò facevano solo perché esistevano Stati ordinati, vi era fiducia nell’avvenire, la sicurezza di disporre della cosa propria e dei frutti del proprio lavoro. Abolita questa fiducia, la macchina della produzione e della distribuzione si ferma: impera l’anarchia, con la carestia e la morte, cento volte peggiore della più feroce tirannide.

 

 

Gli attuali governanti della Russia, se anche hanno le migliori intenzioni, se anche vagheggiano una società ordinata, costituita su basi collettiviste, in cui la produzione e la distribuzione avvengano su basi a parer loro più eque delle odierne, dimenticano però che comunque si voglia giudicare quell’ideale, esso non si può raggiungere d’un colpo; ma con sapiente e graduale evoluzione, cercando di non rompere la macchina antica, che ancora funzionerebbe, in attesa della nuova macchina, tutta da creare. Non è facile trasformare senza distruggere; l’impresa richiede sapienza e pratica di governo, moderazione, adempimento degli obblighi contratti anche dai governi passati, conoscenza degli uomini. Ma bisogna passar di lì, se non si vuole provocare la catastrofe sociale, la morte di una forte proporzione dei più deboli e l’inevitabile reazione a pro’ di quell’audace, che sappia rimettere l’ordine nel caos.

 

 

II

 

Se si pon mente alle grandi linee, bisogna innanzitutto porre in dubbio che in Russia si sia organizzata una vera società comunista: i nove decimi della popolazione essendo ivi dedita all’agricoltura e l’effetto unico della caduta del regime zarista e dell’avvento dei Soviet essendo stata l’appropriazione e la divisione da parte dei contadini delle terre imperiali, ecclesiastiche e signorili. Si sarebbe così più profondamente affermato un movimento individualista che già da parecchio tempo tendeva alla distruzione del comunistico mir russo, da secoli dominante nella Russia propriamente detta; sicché la rivoluzione sociale odierna consisterebbe per i nove decimi della popolazione – quella agricola – nell’affrettare il processo di passaggio della terra dai signori feudali ai contadini e nel sostituire all’antico comunismo un nuovo individualismo a base di piccola proprietà e di istituzioni cooperative; mentre il comunismo si sarebbe affermato solo per le industrie, i commerci, i trasporti, le banche, a cui attende l’altro decimo della popolazione russa.

 

 

Anche così impostato – e per la mancanza di notizie sicure è consigliabile usare forme ipotetiche di linguaggio – ; anche così ridotto ad una piccola parte della popolazione russa, quella vivente nelle città e nei mercati, il problema del comunismo russo è di un altissimo interesse. Quali sono i suoi risultati? Ha aumentato o scemato il costo della vita? Le masse operaie vivono meglio o peggio di prima? A qualcuna di queste domande si può rispondere tenendo presenti alcune lettere che da Stoccolma e dall’Ucraina scrissero all’«Economist» di Londra corrispondenti i quali danno nello scrivere indubbia prova di perizia in cose economiche. La risposta alle domande poste sovra non è compiuta; ma nelle lettere vi sono tratti illuminanti:

 

 

Nel campo della produzione pare che fino all’1 novembre 1918 il governo dei commissari del popolo avesse nazionalizzato 513 aziende industriali, commerciali e di trasporto. Sono le principali aziende economiche del paese. Le altre pare che per ora siano state lasciate ai vecchi proprietari. L’effetto primo della nazionalizzazione fu la decadenza nelle industrie non nazionalizzate, i cui dirigenti temono di subire la stessa sorte. Secondo il giornale ufficiale dei Soviet, «Finanza ed economia popolare», il gettito della imposta sulle industrie, il quale era stato di 314.671.000 rubli nel primo semestre del 1917 fu solo di 91.775.000 rubli nel primo semestre del 1918. L’iniziativa privata è evidentemente scossa; poco si produce e quindi, scemando i redditi privati, scema il gettito delle imposte. A questa perdita hanno fornito un compenso i redditi delle imprese nazionalizzate. Non sembra. I bilanci dello Stato, che i Soviet pubblicano ora ad ogni sei mesi, hanno cifre enormi all’uscita – per il 1918 il totale delle spese era preventivato nientemeno che in 46.000 milioni di rubli, qualcosa come 121 miliardi di lire italiane! – ma assai più piccole all’entrata. Si parla di 2 miliardi di rubli spesi nel primo semestre del 1918 e di 800 milioni da spendere nel secondo semestre per trasformare ed adattare le imprese private nazionalizzate. La cifra più precisa sembra questa: che il supremo Consiglio dell’economia nazionale, il quale sovraintende alle imprese nazionalizzate, avrebbe speso o vorrebbe spendere nel secondo semestre del 1918 la somma di 1.674.903.000 rubli allo scopo di incassare dalla vendita dei prodotti ottenuti e da altre fonti (il bilancio ufficiale non è molto chiaramente compilato) la somma di 813.082.000 rubli. Che le previsioni, secondo cui il prodotto delle industrie nazionalizzate dovrebbe essere minore della metà della spesa sostenuta per avere il prodotto stesso, siano fondate sull’esperienza – lacrimevole esperienza – dei fatti è dimostrato da una cifra consuntiva che la ufficiale «Pravda» pubblicò di 7 fabbriche nazionalizzate che produssero merci ad un costo di 3.890.000 rubli e le vendettero per 2.950.000 rubli. Se si pensa che il costo fu sostenuto in un’epoca in cui il rublo aveva una certa potenza d’acquisto ed il ricavo fu incassato in un’epoca successiva, in cui il rublo valeva assai meno, si deve concludere che il governo dei Soviet in realtà incassò soltanto un  1/2 milione per merci che gli erano costate 4 milioni. Il che giustifica la disperata osservazione di un funzionario dei Soviet, Muchanoff, il quale lamentandosi della burocrazia e del «cancellierismo» imperversanti nelle industrie nazionalizzate avrebbe concluso che «la produzione loro raggiunge in media un valore da un terzo ad una metà del costo di produzione».

 

 

Le condizioni variano da industria ad industria. Pessimamente stanno quelle tessili. Ufficialmente fu dichiarato che 54 fabbriche situate nel distretto di Ivanovo-Vosnessensk, la cosidetta Manchester russa, hanno dovuto chiudere per mancanza di materie prime e solo il 3 per cento degli operai nella regione cotoniera ad occidente di Mosca trova lavoro. Dall’aprile in qua la Russia ha esportato parecchio lino nella Svezia e nella Danimarca; e tuttavia la sua industria del lino è ferma, a somiglianza di quella del cotone. Secondo un rapporto del direttore del dipartimento delle imposte indirette, su 232 fabbriche di zucchero delle provincie di Kursk, Voronesch, Tambov, Orel e Tula solo 40 rimangono aperte.

 

 

L’unica industria fiorente è quella del tabacco. Il bilancio del primo semestre 1918 prevedeva un aumento del 76 per cento nel gettito dell’imposta sul tabacco e del 287 per cento in quello dell’imposta sulla carta da sigarette. Secondo il già citato giornale ufficiale «Finanza ed economia popolare», «il consumo del tabacco è aumentato enormemente dopo il principio della rivoluzione ed, a causa della grande quantità di denaro che si trova nelle tasche del popolo, va ancora crescendo». Il corrispondente dell’«Economist», nell’ultima sua gita a Kronstadt vide marinai stracciati e macilenti; ma non trovò una sigaretta. I marinai avevano una gran fretta di cambiare i rubli di carta in roba solida; e non potendo comprare alimenti, scarpe, vestiti, comperavano sigarette e si facevano scorte di tabacco.

 

 

La produzione industriale va male, anche perché gli strumenti della circolazione dei prodotti non funzionano.

 

 

A causa della disorganizzazione dei trasporti, la Russia dei Soviet è separata in molte unità economiche indipendenti. Il citato Muchanoff osserva che i prezzi di un dato prodotto differiscono persino del 400 per cento a distanze di poco più di 10 chilometri. In un momento in cui la farina di miglior qualità si vendeva a Pietrogrado a 700 rubli al pud, poteva acquistarsi a Tver per 63 rubli; prezzi enormi amendue, poiché il più alto equivale a 111 ed il più basso a 10 lire al kg. Malgrado la differenza straordinaria non conveniva spedire farina da Tver a Pietrogrado per l’alto costo dei trasporti. Invece di trasportare le merci, emigrano gli uomini. I salari essendo cresciuti in misura più uniforme dappertutto, mentre i prezzi delle derrate sono diversissimi, gli operai tendono a spostarsi dai luoghi di prezzi alti a quelli di prezzi bassi. Ciò ridusse le industrie nazionalizzate di Pietrogrado a così mal partito, che i Soviet immaginarono di trovarvi un rimedio, proibendo agli operai di abbandonare le città senza speciale permesso: vero ristabilimento della servitù della gleba in pieno regime comunista.

 

 

È difficile impedire ai prezzi di salire, se la macchina da stampare biglietti continua ad essere la principale fonte di entrata del governo comunista. Al 29 ottobre 1917 la cifra dei biglietti emessi in Russia giungeva ufficialmente a 48.965 milioni di lire. Era una cifra enorme, paragonata ai 4.358 milioni del luglio 1914; ed era il frutto di tre anni e tre mesi di governo finanziariamente incapace dei regimi assolutista, provvisorio e kerenskiano. Ma quella cifra diventa una bazzecola di fronte ai 160 miliardi di lire a cui pare giungesse nel dicembre 1918 la circolazione cartacea russa. Mosca continua a stampare biglietti nella misura di 325 milioni di lire al giorno. Il governo dell’Ucraina è terrorizzato da questa fiumana di carta stampata a forma di biglietti che si rovescia sulla terra russa, che si infiltra nell’Ucraina, la quale ha il medesimo sistema monetario e non sa a qual santo votarsi per difendersene. Qual meraviglia se i contadini russi, ossia i nove decimi della popolazione, non vogliono più vendere le loro derrate a quel decimo, in seno a cui si svolge l’esperimento comunista, ed il quale non sa offrire in cambio merci e manufatti, la cui produzione va scemando, ma solo carta senza valore?

 

 

Sarebbe prematuro concludere su questi soli dati al fallimento definitivo del nuovo regime comunista russo. Si può tuttavia asserire fondatamente che il nuovo esperimento finora non ha scosso le conclusioni a cui la scienza economica era stata tratta dallo studio dei molti altri esperimenti di comunismo conosciuti nella storia; essere quel sistema uno strumento assai più imperfetto di produzione e di ripartizione della ricchezza dei sistemi rivali, a cui esso pretende di sostituirsi. Produce meno, funziona con maggiori attriti, distribuisce peggio la ricchezza. Senza dubbio, neppure il sistema economico vigente nell’Europa occidentale è perfetto. Occorre trasformarlo gradatamente: mettere in grado a poco a poco masse crescenti di lavoratori di partecipare ai vantaggi ed alla responsabilità della gestione delle imprese; importa che il meccanismo economico serva sempre più e sempre meglio all’innalzamento materiale e spirituale di tutti coloro che contribuiscono a farlo funzionare. Bisogna tendere all’ideale di un’immensa città giardino, in cui ogni uomo abbia la sua casa bella, il suo giardino-orto, la scuola, il tempio, la casa comune nelle vicinanze della fabbrica pulita, aerata, attraente in cui egli attende durante un numero di ore non deprimente alla produzione della ricchezza; ed in cui ogni uomo sia sicuro di avere cure ed opportunità di vita durante le malattie, gli infortuni, la vecchiaia. Ma, per raggiungere quest’ideale, fa d’uopo non rompere un meccanismo, che fu costrutto con sforzi di secoli e la cui scomparsa ci piomberebbe di nuovo per secoli nella barbarie e nella miseria. Importa invece perfezionarlo; attraverso ad inevitabili contrasti di idee, ma con la sostanziale collaborazione di tutti.

 

 

III

 

Il corrispondente da Stoccolma dell’«Economist» di Londra, il quale fornì già alcuni dati sommari sui primi bilanci del governo comunista, che furono riassunti da noi più sopra, comunica altri dati interessanti. Ecco il riepilogo dei tre ultimi bilanci preventivi, l’ultimo dei quali presentato dall’attuale commissario alle finanze, Nicola Krestinsky (in migliaia di rubli):

 

 

Spesa

Gennaio-giugno

1917

Gennaio-giugno

1918

Luglio-dicembre

1918

Ordinaria

13.196.137

13.038.511

26.276.199

Straordinaria

14.675.131

4.564.216

2.797.995

Totale

27.871.268

17.602.727

29.074.194

Entrate

2.852.727

12.730.194

Disavanzo

14.750.000

16.344.000

 

 

 

La caratteristica di questi bilanci è l’aumento enorme della spesa ordinaria, mentre le cifre della spesa straordinaria, la quale rappresenta le operazioni di guerra, vanno diminuendo. Notisi però che per il secondo semestre del 1918 le spese dell’esercito rosso di Trotzky sono segnate fra le spese «ordinarie» ed ammontano a quasi 8 miliardi di rubli, contro 644 milioni spesi nel primo semestre per lo stesso scopo. La piccola guardia rossa, su cui il governo dei Soviet poggia la sua forza, sta invero trasformandosi in un grande esercito di milioni di uomini, destinato a conquistare il mondo all’ideale comunista. I principali capitoli della spesa ordinaria di 26 miliardi sono i seguenti:

 

 

Guerra 7.737.013.000 rubli
Comunicazione 3.548.315.000
Alimentazione 3.152.686.000
Educazione 2.436.127.000
Consiglio supremo dell’Economia nazionale 1.674.903.000
Finanze 1.256.974.000
Lavori pubblici 1.050.807.000
Spese per la nazionalizzazione delle industrie 800.000.000
Benessere pubblico 640.166.000
Affari interni 618.531.000

 

 

Il capitolo per la nazionalizzazione delle industrie che nel primo semestre del 1918 era di 2 miliardi di rubli, cadde nel secondo semestre ad 800 milioni; non è detto per qual motivo.

 

 

È interessante vedere da quali fonti si ricavino le entrate ordinarie – non vi sono entrate straordinarie – con cui si dovrebbe fronteggiare l’immane spesa (in migliaia di rubli):

 

 

Gennaio-giugno

1918

Luglio-dicembre

1918

Imposte dirette

368.000

10.366.902

Imposte indirette sui consumi

410.235

393.285

Dazi doganali

175.683

119.959

Servizi pubblici

889.316

813.082

Demanio dello Stato

944.767

976.698

Rimborsi

50.449

50.223

Diversi

14.277

10.045

 

 

 

Lasciando da parte per un istante la grossa cifra di 10 miliardi di imposte dirette, si vede che la somma di tutte le altre è trascurabile in confronto alle spese. Tanto più che il preventivo pecca per esagerato ottimismo. invero, su 2.852.727.000 rubli previsti per il primo semestre 1918 si incassarono soltanto 539.600.000 rubli, ossia meno di un quinto. La cifra del consuntivo non è definitiva, perché mancano ancora i dati di tre province, i quali però non possono variare sensibilmente i totali. L’errore del governo comunista fu di avere supposto di incassare somme invariate da industrie soppresse o nazionalizzate. Nel primo semestre 1918 le tasse di bollo gittarono in confronto del primo semestre 1918 il 53%, la quota di partecipazione dello Stato nei proventi delle ferrovie private il 75%, l’imposta sui dividendi il 76% in meno. Ancor peggio, la nuova imposta sul reddito gittò solo 52 milioni di rubli, il nuovo monopolio dello zucchero 44.050.000 rubli e la nuova imposta sul tè, 43 milioni. È quindi probabile che dalle somme iscritte nei sei minori capitoli dell’entrata solo una frazione non rilevante sarà effettivamente incassata.

 

 

Quanto al grosso capitolo dei 10 miliardi, trattasi vero-similmente di una cifra chimerica. Il salto improvviso da 368 a 10.366 milioni di rubli è dovuto all’iscrizione in bilancio di un’imposta straordinaria di 10 miliardi di rubli decretata a carico della borghesia, che l’avrebbe dovuta integralmente pagare entro il 15 dicembre 1918. Ne sono esenti i poveri, e per poveri intendonsi, a norma del decreto, coloro il cui reddito non supera i 18 mila rubli all’anno. Se si pensa che 18 mila rubli equivalgono, alla parità dei cambi a 48.150 lire, si ha un’idea dello spaventoso deprezzamento della carta moneta in un paese dove per non essere considerati legalmente poveri fa d’uopo avere un reddito di 50 mila lire circa al minimo all’anno!

 

 

Non si sa come l’imposta straordinaria potrà essere estorta ad una borghesia, la quale è stata espropriata di tutto, persino dei mobili di casa. Ed è perciò probabile che il disavanzo si aggirerà almeno intorno ai 43-44 miliardi di rubli su una spesa preventiva di 46,6 miliardi. Su di che basti osservare: 1) che finora neppure in tempo di guerra si erano potuti contemplare disavanzi così sbalorditivi come questi, che oscillano fra i 110 ed i 120 miliardi di lire all’anno; 2) che l’intiero disavanzo, e quindi quasi tutta la spesa pubblica, si calcola ufficialmente debba essere coperto con l’emissione di nuova carta moneta. E così il governo comunista ricorre esclusivamente al pessimo fra i mezzi di finanza, a quello che per consenso universale ha per effetto necessario di rincarare la vita e, ove sia spinto ai fastigi russi, mai toccati nella storia, di rendere quasi insolubile il problema di procurarsi gli alimenti per le moltitudini non produttrici dirette e non partecipanti alla distribuzione dei biglietti freschi dai torchi governativi.

 

 

IV

 

La direzione del partito socialista ha creduto opportuno di riaffermare nelle sue recenti tornate che essa ritiene prossimo il momento in cui sarà matura la realizzazione integrale del socialismo e si potrà procedere al definitivo abbattimento del regime capitalistico. I capi del socialismo sono specialisti in profezie sull’avvenire del mondo e della società; ma, dopoché andò a male la celebre profezia di Federico Engels, sull’avvento del socialismo nel preciso anno 1890, si può rimanere scettici sul grado di successo che le nuove profezie sono destinate ad avere.

 

 

Siccome però la profezia odierna sulla maturità prossima del socialismo in Italia ha fondamento, fra l’altro, sulla realizzazione già avvenuta del socialismo in Russia, e siccome qui si tratta di fatti passati e presenti su cui si può ragionare, è lecita la domanda: sono davvero sicuri i capi del movimento socialista in Italia che il socialismo siasi realizzato in Russia? quali fatti essi possono addurre al riguardo in quali forme si è realizzato quel che si chiama socialismo russo? L’«Avanti!» ha pubblicato lettere e corrispondenze, con le quali si pretenderebbe dimostrare che il socialismo «è» in Russia; ma persino da quelle lettere e da quelle corrispondenze, da quelle del capitano Sadoul principalmente, risulta che si è realizzato un socialismo diverso da quello che era descritto nei testi del socialismo, nei decreti di Lenin e nelle aspirazioni del proletariato marciante alla conquista del potere economico. Si parla di difficoltà enormi che i «titani» del nuovo ordine sociale devono sormontare, della fuga della intelligenza russa, o di molta parte di essa, della disorganizzazione a cui va incontro l’industria per la mancanza di tecnici stranieri, dei compromessi a cui il Lenin dovette adattarsi per far funzionare la produzione. Vien fuori, dalle stesse fonti socialiste, che per ora non si tratta di un comunismo vero e proprio; ma di un qualche cosa di mezzo fra l’impresa privata e l’impresa di Stato, una impresa privata regolata e sorvegliata nell’interesse della società e dello Stato.

 

 

Tutto ciò dimostra come la«realizzazione» che si dice siasi verificata in Russia sia un che di vago, di impreciso, di niente affatto rassicurante per le sorti dell’esperimento comunista medesimo. E noi dovremmo ritenere maturo l’avvento del socialismo in Italia su così fragili fondamenta? Se i capi del socialismo sono in buona fede, essi avrebbero ragione di parlare più guardinghi, di non promettere alle folle l’immediata entrata nel paradiso terrestre, essi che tante volte hanno condannato il socialismo «utopistico», tante volte hanno affermato che il socialismo non poteva venir fuori in virtù soltanto delle predicazioni, o di leggi bene architettate o di piani bene costrutti; ma doveva «diventare», e cioè essere il naturale risultato di forze economiche irresistibili, l’ultimo portato di una evoluzione progressiva grazie a cui dalla piccola industria si sarebbe passati alla grande, alla grandissima industria, ai grandi sindacati, alla concentrazione dell’industria sotto una sola guida, sotto un sol padrone. Quando il capitalismo avrà una sola testa, scrisse Marx, sarà facile al proletariato tagliarla. Credono davvero i capi del socialismo nostrano che questa sia la condizione di fatto in Russia, in Italia? Badisi bene che noi poniamo il problema così, perché così lo hanno sempre posto i capi del socialismo cosidetto «scientifico», non perché noi crediamo che sul serio la storia si muova lungo quelle linee. Quella visione della storia aveva perlomeno una certa grandiosità, una certa logica.

 

 

Quella che non è logica è la condotta dei socialisti odierni, di coloro che dominano nella direzione del partito, se non sulle colonne della «Critica sociale»; essi vogliono la rivoluzione per la rivoluzione, il disastro per il disastro, la distruzione dell’ordine economico esistente a scopo di pura distruzione; e chiamano ciò «realizzazione del socialismo».

 

 

Finora, in Russia, ciò che sovra tutto è stato realizzato, ciò che si vede massimamente e ben da lontano è un enorme, gigantesco, spaventevole edificio di carta. I nostri economisti gridano alto, e non hanno torto, perché il governo italiano, per mancanza di coraggio sufficiente nel mettere imposte abbastanza dure, ha emesso 10 miliardi di lire di carta in più dei 3 che c’erano prima; e dicono che anche per questo i prezzi sono aumentati. E suppergiù così parlano e così si lamentano gli economisti francesi, inglesi e persino americani. Ma che dire della Russia, dove – se il governo zarista aveva portato la circolazione da 1.679 milioni di rubli alla fine del 1913 ad 8.951 alla fine del 1916, ed il governo successivo provvisorio e kerenskiano l’aveva cresciuta nientemeno che a 17.859 – gli aumenti vertiginosi precedenti scompaiono dinanzi ai 30 miliardi di rubli emessi dai bolscevichi soltanto dall’1 gennaio al 7 novembre 1918? Oggi, le emissioni bolsceviche devono giungere a più di 40 miliardi di rubli, cosicché, insieme con le emissioni precedenti, il totale dei biglietti circolanti in Russia deve arrivare ai 60 miliardi di rubli, circa 160 miliardi di lire italiane.

 

 

Questa è la vera, fantastica realizzazione del socialismo russo! Non occorre guardare al sol dell’avvenire per ricordare realizzazioni di questa fatta. Tutti i principi assoluti, quando non riuscivano a farsi pagar imposte dai sudditi, facevano denaro coniando moneta falsa, Ossia «rubando» gli averi a coloro che li avevano prodotti. Le emissioni dl carta-moneta sono un modo di mettere imposte sui contribuenti, ma il pessimo tra i modi: quello che meno fa pagare ai ricchi, ai provveduti e tutto il peso dell’organizzazione statale fa cadere su coloro che vivono di salario, di stipendi fissi, su coloro che non hanno, come i contadini, le derrate in casa, ma le debbono acquistare. Dovunque imperò il metodo di fabbricare moneta falsa, ivi imperarono la miseria, lo scontento, l’arresto della attività industriale. Non è significativo il fatto che proprio a questo strumento di sopraffazione abbiano ricorso su una scala mai più veduta nella storia i realizzatori del comunismo in un grande Stato moderno? La realtà si è che la società economica russa era immatura all’avvento di un nuovo tipo di organizzazione; la verità si è che i movimenti sociali debbono essere graduali ed intelligentemente preparati; che non si può distruggere d’un colpo la macchina esistente senza sospendere la vita del paese; e che i tentativi di risolvere violentemente la crisi di passaggio da un regime all’altro riescono a far indietreggiare la società a forme primitive, arcaiche, le quali danno un rendimento miserabile.

 

 

Tutto fa credere che la Russia contadina, dove le terre sono state individualisticamente spartite fra i coltivatori, non accetti la moneta di carta di coloro che detengono il potere nelle città ed hanno in mano l’esercito; sicché quelli e questo vivono di requisizioni operate colla forza. Vogliamo «realizzare» anche in Italia questo bell’ideale; e dopo aver assistito per quattro anni alle delizie del regime delle requisizioni e dei calmieri, perpetuarlo ed estenderlo in avvenire a tutte le cose necessarie alla vita? Son domande a cui, quando si parla di realizzazioni immediate, converrebbe rispondere.

 

 

V

 

Avevamo scritto che sarebbe stato utile conoscere quali «realizzazioni» si fossero veramente avute in Russia degli ideali comunisti, allo scopo di dare un giudizio serio del proposito della direzione del partito socialista italiano di volere attuare al più presto possibile, alla prima occasione favorevole, il programma del massimalismo comunista. Ciò non vuol dire affatto che a parer nostro l’attuazione di quegli ideali sia vantaggiosa alla società e che la massima felicità del maggior numero degli uomini sia conseguibile in una società collettivista. È probabile che il progresso della civiltà, l’elevazione delle masse, la fioritura delle forme più svariate ed alte di vita siano legate da un lato ad un’azione intelligente dello Stato nel tenere a freno gli egoismi individuali e di classe, nel tutelare gli interessi collettivi, nell’impedire una troppo grande disparità di punto di partenza fra gli uomini all’inizio della loro vita e dall’altro lato ad una sempre maggiore libertà di iniziativa, di movimento, di ricerca di idee e di prodotti nuovi lasciata agli individui, compatibilmente colla necessità superiore di non recar danno agli altri uomini.

 

 

Ma non è di ciò che si discorreva. Noi abbiamo dinnanzi ai nostri occhi un grande esperimento in corso. Un gruppo di comunisti ha conquistato il potere, ha proclamato la dittatura del proletariato. Uomini entusiasti, convinti, animati da una inflessibile volontà, da un odio tenace contro l’antico ordine di cose – vede l’«Avanti!» che noi non abbiamo bisogno di noverare fra le qualità dei capi la crudeltà, la corruzione, il desiderio puro del saccheggio e non indaghiamo neppure in che misura questi attributi siano proprii dei loro seguaci – dall’ottobre 1917, ossia da, un anno e mezzo tentano di realizzare la società «comunista». I socialisti italiani dell’«Avanti!» proclamano che l’esperimento, nonostante le difficoltà enormi degli inizi, va bene; e va tanto bene che essi non esitano ad additarlo all’imitazione immediata dell’Italia. Noi affermiamo che, prima di tentare un salto nel buio, i capi del socialismo italiano hanno il dovere morale di fornire, non a noi, ma ai loro seguaci, a coloro che essi vogliono trascinare a compiere l’esperimento, la dimostrazione che, così operando, essi sul serio miglioreranno le loro sorti e non cadranno in una miseria peggiore di quella che essi asseverano esistere oggidì. Quando si vuole andare contro ai canoni più sicuri della dottrina socialista; quando si vuole operare il passaggio immediato dal cosidetto capitalismo al socialismo cominciando non dai paesi capitalisticamente più evoluti, come l’Inghilterra, o gli Stati Uniti o la Francia, ma da quelli più arretrati, come la Russia, o ben lungi, come l’Italia, dal pieno sviluppo industriale, si ha l’obbligo di spiegare al proletariato perché si deve seguire un metodo così contrario alle regole dell’evoluzione storica insegnata dai profeti del socialismo. Si ha il dovere di spiegare chiaramente in qual modo si sia compiuto o vada compiendosi l’esperimento comunista in Russia: non riesporre le leggi ed i decreti di Lenin e dei suoi colleghi, ché leggi e decreti sono facilissimi a bandirsi – e ne sappiamo qualche cosa in Italia -; ma dichiarare le maniere reali in cui quelle leggi e quei decreti sono stati applicati; come funziona la produzione, come avviene la distribuzione della ricchezza, se le masse stanno meglio o peggio di prima.

 

 

Non basta dirci che l’intelligenza russa e la borghesia finiscono un po’ per volta per fare adesione al comunismo. Come potrebbe essere altrimenti, in un paese dove, per vivere e mangiare, bisogna adattarsi a diventare impiegati dello Stato? Non basta additare la compattezza crescente dell’esercito rosso. A parte ogni discussione sul suo modo di formazione e sulla sua composizione, non è probabile che l’iscriversi nell’esercito sia la maniera più sicura di risolvere il problema della vita per l’enorme numero di disoccupati che da fonti autorevoli, da quelle stesse ufficiali, è dimostrato esistere in Russia? Il punto importante da chiarire era: come vive la massa dei suoi impiegati e dei soldati? Come vive la massa dei contadini e degli operai?

 

 

I giornali socialisti non citano dati precisi, serii di risultati ottenuti con l’esperimento russo. Frasi vaghe, declamazioni propagandistiche. Noi avevamo citato i dati sulla più grossa realizzazione del bolscevismo russo, i 160 miliardi di lire di carta – moneta. Un ben brutto risultato del socialismo, che rincara la vita, distrugge la ricchezza, disanima la produzione. L’«Avanti!» risponde che le grandi emissioni di carta-moneta «sono la necessità del momento; sono il mezzo per sfuggire alla stretta dell’Intesa, ed, anziché una colpa del bolscevismo sono una vergogna della democrazia massonica anglo-latina».

 

 

Parole incomprensibili. Il fatto che l’Intesa anzi l’Europa non vende e non compra più nulla dalla Russia non può costringere questa a fare una finanza interna pessima, disastrosa per le moltitudini. Sta bene; la Russia in tempi normali (1913) importava attraverso le frontiere europee 1.146 milioni di rubli di merci, in gran parte materie prime per l’industria e manufatti (macchine, strumenti, carbone, coke, tessuti di cotone e di lana) ed esportava, attraverso le medesime frontiere 1.232 milioni di rubli di altre merci (principalmente cereali, burro, uova, carni, zucchero, legname, petrolio, canape, pelli). Attualmente questi scambi sono soppressi. A parte il fatto che la roba non esportata in cambio di quella non importata dovrebbe essere rimasta in paese, la cessazione degli scambi esteri ha certo prodotto un danno per l’economia essa. Ciò è innegabile; ed è un danno simile a quello che tutti i paesi belligeranti subirono durante la guerra a causa dei sottomarini. Ma finanziariamente ciò non implica la necessità di emettere cartamoneta. Le partite si pareggiavano prima negli scambi coll’estero; e se si esportava di più di quanto si importasse, ciò non implicava un’entrata di oro, perché le maggiori esportazioni servivano a pagare gli interessi dei debiti russi all’estero, che adesso i bolscevichi non pagano. L’economia russa si è chiusa in se stessa. In che modo la rinuncia – dannosa, ma non più di altre subite dagli altri belligeranti – al commercio estero può avere costretto il governo russo a crescere la circolazione cartacea interna russa alla cifra di 160 miliardi di lire? Forseché all’interno la massa di merci da scambiare è aumentata? Tutt’altro. I raccolti sono così scemati che è impossibile persino esigere l’imposta in natura decretata dal governo quando vide che le imposte in denaro non fruttavano più niente. Da un censimento agricolo preparato dai Soviet risulta che nelle provincie di Vladimir, Tula e Yaroslav la segala primaverile seminata nel 1918 fu solo il 43% della quantità normale e quella d’inverno del 39%. La diminuzione è generale, non solo sulle grandi, ma anche sulle piccole tenute. I contadini giurano di non voler produrre alcun sovrappiù e di volerlo bruciare se il raccolto è buono. La verità è che l’emissione di carta-moneta spinta a simili eccessi è un fatto interno; un mezzo di esigere imposte sui concittadini nel modo più disuguale che si possa immaginare. Altro che imposta progressiva sulle fortune! La decretarono, quest’ultima, i bolscevichi e ne avevano preventivato il gettito in 10 miliardi di rubli. Ma il gettito fu in alcune provincie appena il decimillesimo del previsto ed il compilatore del consuntivo 1918 dichiara che «non val neppure la pena di iscriverne il gettito in bilancio sotto un capitolo separato». La borghesia non può pagare, perché le è stato portato via tutto; e i contadini si difendono con le fucilate o con l’astuzia, nonostante i «comitati dei poveri» creati da Lenin nei villaggi per controllare i contadini più agiati. La emissione di carta-moneta è il frutto di una crescente incapacità interna a far funzionare il meccanismo economico, non il risultato di inesistenti pressioni esterne. Quando la produzione è così scarsa che i produttori non possono prelevare sul loro reddito una somma di denaro o derrate sufficienti per mantenere la classe dirigente dello Stato comunista, il suo esercito, i suoi commissari, è giuocoforza a costoro ricorrere alla forza od alle vie traverse. Una di queste è la emissione di carta-moneta, con cui si rincarano bensì i prezzi di tutte le cose, ma frattanto i governanti possono procacciarsene una parte per sé ed i propri seguaci.

 

 

Noi non sappiamo vedere come attraverso a questa prima realizzazione – che un tempo, quando si parlava di autocrati, si bollava con gli epiteti di moneta falsa, di furto organizzato dai tiranni ecc. – si possa giungere alle ulteriori realizzazioni della proprietà collettiva, dell’industria esercitata direttamente dai lavoratori. Ci sono i decreti di Lenin, i quali ordinano, sì, che la terra diventi cosa collettiva. Ma di fatto i contadini dopo essersi spartite le terre della Corona, del clero e dei nobili, se le godono e non si curano di nulla di quanto i decreti ordinano. L’unica paura che essi sentono è quella di vedersi portato via il grano dalle bande armate che vengono dalle città. Reagiscono nascondendo la roba prodotta o limitando la produzione al necessario per sé.

 

 

Per ora, gli scarsi dati che si posseggono mettono in luce un regresso spaventoso dell’economia verso forme antiquate e verso rendimenti meschini. I russi vivono nonostante questo regime; né è da farne meraviglia, perché gli uomini sono vissuti per secoli e per migliaia d’anni in condizioni terribilmente inferiori a quelle d’oggi. La mensa e la casa ed i vestiti dei più poveri uomini d’oggidì sono lussuosi in confronto a quelli dei signori del medio evo. Ma sarebbe duro che le realizzazioni del comunismo significassero per tutti, ricchi e poveri, regresso verso condizioni di vita quali eravamo abituati a ritenere possibili solo nel più oscuro medio-evo.

 

 



[1] Con il titolo L’anarchia economica e finanziaria in Russia. Raffronti rivoluzionari [ndr].

[2] Con il titolo I primi risultati dell’esperimento comunista russo [ndr].

[3] Con il titolo I primi bilanci comunisti russi [ndr].

[4] Con il titolo «Realizzazioni» [ndr].

[5] Con il titolo È colpa dell’Intesa se la miseria cresce in Russia? [ndr].

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