Opera Omnia Luigi Einaudi

Lettera nona. Perché gli americani combattono in Europa?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 29/08/1918

Lettera nona.
Perché gli americani combattono in Europa?
«Corriere della Sera», 29 agosto 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 111-125
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 956-964

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

L’intervento degli americani deve avere cagionato ai tedeschi una stupefazione più grande assai di quella da cui erano stati colpiti a causa dell’inopinato intervento inglese nell’agosto 1914. Per questo era pronta da mezzo secolo la spiegazione. Da Marx e da Treitschke in poi, il «borsellino» non era stato l’unico movente delle azioni dei cugini britannici? E perciò l’invidia inglese nel vedere riempirsi rapidamente anche il borsellino germanico era la vera ed unica ragione per cui l’Inghilterra era scesa in campo. Ma gli americani? Per qual matta frenesia si eran decisi a buttar dalla finestra i miliardi che la neutralità aveva loro fruttato per due anni e mezzo?

 

 

Dopo lunghe incertezze pare che ora la teoria si sia fissata nella patria della critica storica; e, se son vere le relazioni stampate per le gazzette, l’imperatore Guglielmo ne avrebbe comunicato ai popoli i risultati ultimi: causa dell’intervento sarebbe l’errore commesso dagli americani nell’eleggere a lor presidente un «professore», invece di un vero uomo politico. Un «uomo di stato» non si sarebbe così scioccamente lasciata sfuggire l’occasione magnifica di mettersi d’accordo con la Germania, per saltare addosso all’Inghilterra e, distruggendone la potenza navale, appropriarsi una buona metà dell’opimo bottino coloniale divenuto così disponibile. E, se vogliamo essere giusti, tutti coloro tra noi che in fondo al cuore conservano non poco disprezzo verso il «professore» italiano – o non era questo il saluto che all’on. Salandra indirizzava un antico presidente del consiglio? – il quale aveva rinunziato per vaghe idealità a far bottino di Nizza, Corsica e Tunisi, non sono ancora riusciti a capacitarsi della misteriosa ragione per cui gli americani del nord non abbiano seguito i consigli della Germania.

 

 

Bei matti e simpatici, pensano gli uni, da sfruttare, facendoci imprestare più quattrini che ci sarà possibile ed aiutare nel distribuire la carta d’Europa a nostra soddisfazione. Accorti mercanti, ribattono i furbi, i quali pensano che, dopo tutto, gli americani sono corsi in aiuto dei loro debitori, per salvarli dalla sconfitta e dal fallimento e metterli in grado di far fronte ai loro impegni.

 

 

Che l’invidia del rapido arricchimento tedesco sia stata la causa dell’entrata in guerra dell’Inghilterra è oramai una teoria coltivata soltanto dai tedeschi ed in Italia dai socialisti ufficiali e dai neutralisti costituzionali, soli superstiti zelatori della un tempo acclamatissima teoria del materialismo storico. Un calcolo spinse, è vero, gli inglesi nel paese di Fiandra; ma fu l’istesso calcolo che aveva spinto Elisabetta contro Filippo II, Guglielmo d’Orange contro Luigi XIV, Pitt contro Napoleone: il calcolo di chi preferiva di immolare subito vita e ricchezze pur di non correre in avvenire il pericolo di cadere vittima della potenza egemonica europea. Finché gli inglesi saranno capaci di sacrificare il quattrino presente alla ricchezza futura le nazioni non egemoniche conserveranno libertà ed indipendenza in Europa. Il giorno in cui, simili ai cartaginesi del tempo d’Annibale, essi pregieranno i loro traffici e lucri immediati più del bene sacro della libertà patria, sarà libero il campo al popolo sopraffattore per soggiogare prima l’Europa e poi schiacciare l’Inghilterra. Gli inglesi, dunque, combattono nelle Fiandre e sulla Somme e sull’altipiano d’Asiago per salvare se stessi, il loro impero e la libertà delle venture loro generazioni; e così combattendo, giovano ora, come giovarono nel ‘600, nel ‘700 e nell’800, alla causa della libertà europea.

 

 

Ma se questa è oramai verità incontroversa, quale è la ragione dell’intervento americano? Perché, contrariamente ai buoni consigli germanici, gli Stati uniti non hanno seguitato a lucrare miliardi, rimanendo neutrali, e non hanno colto l’occasione per stendere le mani – e si sa quanto lunghe sieno le braccia e le gambe dello zio Sam – sul Canada e sull’Australia, lasciando l’Africa e l’India alla Germania? L’enigma è tanto più misterioso quando si pensi che, per venire in Europa, gli americani hanno dovuto far gitto di tutta una loro tradizione secolare di politica estera. Rimonta questa tradizione al famosissimo discorso di addio pronunciato nel 1796 da Washington.

 

 

«La regola aurea della nostra condotta riguardo alle nazioni forestiere sia, pur estendendo con esse relazioni commerciali, di avere secoloro i minimi rapporti politici che sarà possibile. L’Europa coltiva interessi, i quali non hanno alcuna o tenuissima importanza per noi. Perciò essa è frequentemente impigliata in contese, le ragioni delle quali ci sono sostanzialmente estranee. Sarebbe perciò poco saggio imbrogliarci, con legami artificiali, nelle vicissitudini ordinarie della sua politica o nelle consuete combinazioni e collusioni delle sue amistà o inimicizie. La nostra situazione staccata e lontana ci invita e ci dà il mezzo di seguire una via differente. La nostra vera politica sta nel tenerci lontani da alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo straniero».

 

 

Fu, per citare solo l’applicazione più importante del messaggio d’addio di Washington, in ossequio ad esso che il presidente Monroe declinò nel 1823 l’invito del segretario britannico agli affari esteri, Roberto Channing, di cooperare con l’Inghilterra per opporsi ai tentativi della Santa alleanza di ristabilire il dominio spagnuolo sulle rivoltose colonie dell’America del sud. L’invito cadeva in terreno simpatico, poiché già allora l’ideale panamericano brillava dinanzi alle menti degli uomini di stato d’oltre oceano. Ma nonostante che i maggiori politici di quel tempo, e basti citare Jefferson, il grande presidente democratico, e Madison, il formulatore, con Hamilton e Jay, della costituzione, opinassero che l’Inghilterra fosse l’unica nazione al mondo con cui gli Stati uniti avessero comunanza d’ideali e nutrissero cordiale amicizia, fu più forte l’ossequio alla ammonizione washingtoniana, che Jefferson stesso nel 1801 aveva formulato taglientemente così: «Pace, commercio ed amicizia onesta con tutte le nazioni, alleanza con nessuna». E così fu che Monroe nel celebre messaggio del 2 dicembre 1823, respingendo l’offerta d’alleanza dell’Inghilterra, dichiarava che l’America non intendeva intervenire in Europa nella contesa tra la reazionaria Santa alleanza e le potenze liberali e nel tempo stesso affermava che il nuovo mondo era oramai chiuso a nuove colonizzazioni da parte del vecchio. Gli Stati uniti riconoscevano così che l’invito dell’Inghilterra ad opporsi ai tentativi della Santa alleanza di opprimere le rivoltose popolazioni del Sud America era giusto e nobile; ma vollero apertamente significare al mondo che essi si facevano paladini della libertà delle antiche colonie spagnuole, perché né essi volevano aver voce negli affari europei, né soffrivano che l’Europa la serbasse negli affari americani.

 

 

Se perciò il Wilson durò , traverso a molte incertezze, una fatica di quasi tre anni per persuadere gli americani a romper guerra con la Germania, fa d’uopo riconoscere che non era possibile offendere a cuor leggero una tradizione fondata su così solenni documenti e serbata inviolata per centoventi anni. E se finalmente la tradizione fu rotta e gli Stati uniti per la prima volta uscirono dal loro splendido secolare isolamento, ciò accadde perché il «teorico» presidente di oggi vide ergersi di nuovo sull’orizzonte un pericolo che da lungo tempo più non esisteva quando Washington formulava e Jefferson e Monroe ribadivano la teoria del «non Intervento». Nel 1790 erano passati 33 anni da quando la pace tra Inghilterra e Francia aveva ridotto il Canada francese allo stato di colonia inglese; e da 33 anni era cessata ogni ragione perché i coloni americani sentissero minacciata la loro libertà civile e la loro indipendenza nazionale da una potenza militare straniera. Finché quel pericolo durava, finché gli arditi ed intraprendenti capi militari francesi minacciarono di fondare un impero coloniale che dal San Lorenzo attraverso i grandi laghi ed al Mississipi poteva congiungersi colla colonia pur francese della Luisiana sul golfo del Messico, finché gli indiani trovarono aiuto e consiglio negli avventurosi guerrieri della francese Quebec, i coloni anglosassoni avevano guardato alla madrepatria come a guida ed a schermo. Fino allora nessuno pensava che l’America potesse fare a meno dell’Europa o straniarsi dalle contese europee. Quelle contese erano anche contese americane, perché l’istesso nemico minacciava la madrepatria in Europa ed i coloni in America. La cessione del Canada francese all’Inghilterra ruppe la solidarietà fra America ed Europa. Rimasti per un secolo e mezzo senza nemici immediati, liberi di espandersi liberamente sulle immense pianure del far-west, che sempre più si dilungava verso l’occidente, gli Stati uniti poterono illudersi di non avere nulla da spartire nelle contese della vecchia Europa. I vicini erano americani anch’essi, privi di ambizioni territoriali: canadesi viventi liberi nel seno della grande federazione dei popoli britannici: messicani, occupati nelle loro intestine discordie od intesi ai progressi materiali sotto la guida di un geniale «tiranno», il generale Porfirio Diaz.

 

 

Dal sogno dell’isolamento li scosse rudemente la diana di guerra del 1914. Forse, se a capo degli Stati uniti si fosse trovato un uomo politico ordinario, uno dei veterani delle battaglie elettorali tra repubblicani e democratici, gli americani non avrebbero visto nulla e si sarebbero contentati di trarre profitto dalla neutralità , vendendo ad amendue i belligeranti, al più alto prezzo possibile, i frutti del lavoro americano. Era la politica che oggi tanti ancora invidiano alla Spagna, la quale senza rischi arricchisce e vede la sua peseta salire al primo posto tra le monete del mondo.

 

 

Ma, per ventura somma di noi e sovratutto delle venture generazioni degli americani, a capo della repubblica c’era un veggente, uno scrittore di storie della sua patria, un erede non della lettera, ma dello spirito dell’azione dei suoi grandi predecessori, dei Washington, dei Jefferson, dei Lincoln. Egli vide che di nuovo gli Stati uniti erano minacciati a tergo da un nemico più formidabile di quello che da Quebec nella prima metà del secolo diciottesimo insidiava la vita delle tredici giovani colonie. Più formidabile, dico; perché il nemico d’un tempo era semplicemente ambizioso guerriero ardito cavalleresco: combatteva per la voglia di menar le mani e di acquistar gloria alla Francia, piantando su nuove città e su nuovi forti la bandiera dei fiordalisi. Ma non era mosso da un’idea, non era animato dallo spirito della propaganda, della evangelizzazione, della cattolicità. Il nemico d’oggi è più pericoloso, perché è un’idea incarnata in un popolo convinto della propria superiorità spirituale su tutti gli altri popoli, l’idea che il popolo «eletto» abbia il diritto di vivere libero, di avere il suo posto al sole senza dipendere dalla volontà di nessun altro popolo e senza venire con questi ad accordi ed a transazioni. Poiché nel mondo moderno dell’economia divisa, degli scambi rapidi e frequenti, la vita «libera», «autonoma» è una fallacia assurda, poiché ad ogni popolo, che non voglia sopraffare gli altri, è giuocoforza venire con gli altri a transazione e ad accordi, dare per ottenere, lavorare per gli altri per ottenere che gli altri lavorino per lui, poiché l’«indipendenza» assoluta è un mito irrealizzabile, dovendosi dipendere dagli altri per avere ciò che in casa non si possiede, per dare altrui ciò che in casa si ha di troppo, così per deduzioni logiche ferree il popolo che vuole essere «libero», che non vuol riconoscere di dover dipendere dagli altri per avere il proprio posto al sole, quel popolo deve aspirare al dominio universale. L’irrequietudine tedesca degli ultimi vent’anni, quel loro continuo lamentarsi, in mezzo ad inauditi trionfi economici, di non potere trarre liberamente il fiato, di non avere abbastanza posto al sole, di non potere vivere «da sé», senza dipendere da altrui, quelli erano i contrassegni caratteristici dell’idea peculiare che della «libertà» si fanno i popoli eletti da Dio. Questa libertà non si acquista se non quando un popolo solo acquista a mano a mano il dominio del mondo e diventa bastevole a sé, libero assolutamente di muoversi, perché, essendo il suo territorio esteso a tutto l’orbe, fuori di esso non esiste più nulla di cui si abbia bisogno e da cui perciò si sia dipendenti, di cui si sia schiavi, che tolga, anche in minima parte, il fiato e limiti il posto al sole.

 

 

È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata e senza freni: e da essa trassero origini le realtà e le immagini di impero universale che si chiamano impero d’Alessandro, impero romano, di Carlo quinto, di Luigi quattordicesimo, di Napoleone primo; tutti combattenti per la libertà dei popoli, che essi volevano raggiungere e che talvolta, come al tempo di Roma, effettivamente ottennero, trasformando il mondo conosciuto in un mondo di unica civiltà greco-latina. Wilson vide che bisognava soffocare l’idra rinascente in sul nascere. All’idea della libertà del popolo eletto egli e noi opponiamo l’idea della libertà che è vincolo, che è servitù, che prima di essere e per essere godimento, è sacrificio. Noi vogliamo essere liberi, ma vogliamo che anche gli altri siano liberi, e perciò noi riconosciamo che è sorte comune degli uomini di essere servi gli uni degli altri. Nessun popolo eletto e tutti i popoli fratelli nella servitù degli umili riti della vita materiale e nelle gioie delle conquiste ideali.

 

 

Venendo in Francia ed in Italia, gli americani sanno di combattere per se stessi ed insieme per noi ed anche per il nemico. Combattono per sé, poiché l’esperienza insegna come ai sogni di dominio universale non vi sia fatalmente alcun limite. I romani conquistarono la Spagna e l’Africa e poi la Macedonia e poi l’Oriente e poi l’Egitto e la Gallia nolenti, perché non era possibile ad essi far a meno di conquistare. E Napoleone non diceva di essere «costretto» a far guerra? e non era forse egli in gran parte sincero nel dir ciò, quando si pensi che sicurezza assoluta di vita non v’è per alcun stato, che per un popolo non v’è libertà assoluta se non quando tutti gli altri stati siano debellati e tutti i popoli costretti a servire? Gli Stati uniti combattono oggi la guerra per la libertà dell’Europa per non essere «costretti» a combattere fra cinquant’anni una guerra assai più dura e fiera contro la potenza che in Europa, senza il loro intervento, avrebbe forse ora conquistato l’egemonia. Mentre salvano noi dall’aggressione e dalla scomparsa del nostro tipo di civiltà, salvano se medesimi da una lotta più cruenta e forse perduta. Ma combattono anche per i nemici. Contro uno di essi, il più forte ed il solo degno, essi e noi combattiamo una lotta d’idee, la quale finirà il giorno in cui anche i tedeschi si saranno persuasi che la libertà non è dominazione, ma è servizio. Servizio reciproco, ma servizio. La guerra sarà vinta da noi quando i tedeschi si saranno persuasi che è un folle, un criminoso sogno il pretendere di essere sovranamente liberi; che fa d’uopo cercare quella libertà che è compatibile con la libertà degli altri, quel posto al sole che non ruba il posto che altri si è conquistato e vuole tenere per sé e dimostra, lottando, di meritare di tenere per sé.

 

 

Contro l’altro nemico, la guerra che si combatte è necessariamente una guerra di annientamento. Le voci di milioni di antichi sudditi austro-ungarici rifuggitisi nell’ospitale contrada nordamericana hanno persuaso il presidente Wilson e il suo popolo che l’impero austro-ungarico è una sopravvivenza arcaica degli stati di famiglia dei secoli scorsi. Utile baluardo contro il turco ed il moscovita, quel tipo di stato ha chiuso il suo ciclo. Non ha la forza di aspirare alla monarchia universale e di attuare in terra il verbo della libertà assoluta per il popolo eletto; e non può vivere se non comprimendo la libertà dei popoli a forza tenuti riuniti dagli odi e dalle discordie reciproche.

 

 

Noi italiani che, sovratutto, per ragioni di vicinanza e per la liberazione dei fratelli soggetti, combattiamo questa maschera di stato, siamo perciò gli alleati naturali degli Stati uniti. Ma importa non dimenticare mai la verità fondamentale: che gli Stati uniti sono nostri alleati perché e finché noi combattiamo per la libertà nostra ed insieme per la libertà altrui. Il pericolo per gli Stati uniti è lo spettro della monarchia universale. Lo spettro non svanirebbe se l’Austria, pur restituendoci Trento e Trieste, continuasse a vivere vassalla della Germania imperiale di oggi. Perciò gli Stati uniti non hanno interesse a combattere per noi per aiutarci soltanto a liberare i fratelli nostri o ad attuare le altre esigenze del patto di Londra; sì, hanno interesse ad aiutarci ad attuare i nostri ideali, in quanto essi siano compatibili con la superiore necessità della liberazione dei popoli oppressi dalla monarchia austro-ungarica, senza di cui questa, rimanendo fida vassalla della Germania, continuerebbe a consentirle nel futuro quell’egemonia medieuropea, che è un primo e gran passo verso l’egemonia europea. La ferrea logica vuole che, ove si voglia efficacemente tagliar la strada all’attuarsi dell’ideale della libertà assoluta dei dominatori del mondo, bisogna serrarsi uniti sotto la bandiera della libertà che è reciproco servizio. Noi non possiamo diventare veramente liberi se non guarentendo la uguale libertà degli altri. In difesa di questo principio sono scese sulla Marna e sul Piave le schiere americane ed in difesa di questo principio dobbiamo combattere pur noi, se vogliamo che i nostri fini di guerra non siano quelli stessi di dominazione e di sopraffazione per cui combattono tedeschi ed austriaci.

 

 

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