Opera Omnia Luigi Einaudi

Lettera prima. I verdetti della «Grande Vergine»

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/07/1917

Lettera prima.
I verdetti della «Grande Vergine»
«Corriere della Sera», 3 luglio 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 13-21
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 445-449

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Il giornale ufficiale del giolittismo non vuole sostituirsi alla «storia» ed attende dalla «grande Vergine» il suo «terribile verdetto, senza appello». Pare che attenda un verdetto «di giudizio per la purezza delle intenzioni, di rispetto, perché ha dimostrato un alto e puro patriottismo». E sembra anche che il verdetto «senza appello» della «storia» debba esprimersi «limpido come la luce del sole» nell’ottobre del 1918, quando l’attuale legislatura avrà compiuto il ciclo della sua vita politica ed il paese nei comizi mostrerà il suo pensiero.

 

 

Questo appello alla «grande Vergine» non poteva essere più in carattere. Nessuno meglio di un discepolo di quel primo ministro che, forse unico tra i presidenti italiani del Consiglio dal 1848 in poi, ha saputo mantenere immacolata la verginità del suo spirito da ogni contatto con la scienza scritta sui libri, poteva tracciare dei compiti della «grande Vergine» un quadro così nuovo e singolare. Che si sappia, la «storia» da cui si attendono verdetti non è quella scritta dagli storici di professione. Questi verranno fra cent’anni, od al più presto fra ottant’anni, quando saranno aperti agli studiosi gli archivi dello stato – ancor oggi non si possono in Italia leggere i documenti posteriori al 1830! – ed ho l’impressione che del verdetto dei futuri storici dell’anno 2000 importi poco ai giolittiani frenetici di vedere riconosciuto «in modo solenne il puro patriottismo di uno dei nostri più rappresentativi uomini politici» dagli elettori italiani dell’autunno del 1918. Tanto più che v’è il pericolo che gli storici del 2000 abbiano a dare un giudizio assai duro del periodo di storia politica che corse fra l’80 ed il 1910 e di cui gli uomini rappresentativi furono Agostino Depretis e Giovanni Giolitti. Tra i documenti noti, ve ne sono due che gli storici del 2000 consulteranno sicuramente e sono: Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello e l’Inchiesta sulle banche di emissione, e son due documenti che non deve far molto piacere di vedere compulsati ai figli spirituali di Agostino Depretis e di Giovanni Giolitti.

 

 

No. L’appello alla «storia» non è rivolto alla storia che sarà scritta quando gli avvenimenti d’oggi potranno essere studiati sul serio. La storia sono «gli avvenimenti immediatamente successivi a quelli che si sono compiuti dall’agosto 1914 ad oggi». Sono i fatti del domani che, essendo diversi da quelli d’oggi, se ne costituirebbero giudici. Il generale Monk, il quale, riportando gli Stuardi a Londra, si erge giudice di Cromwell; Napoleone, che condanna la rivoluzione francese; le elezioni del 1918, le quali daranno – spera l’organo ufficiale del giolittismo – la maggioranza ai giolittiani ed ai socialisti e condanneranno così la dichiarazione di guerra all’Austria e le giornate di maggio. Ho riflettuto a lungo sul significato logico del verdetto della «grande Vergine» e mi sono dovuto convincere che le cose stanno proprio così come le ho dovute porre. Fa bisogno di dire che questa è una concezione da farmacia di villaggio o da caffè di provincia, appena appena degna di essere apprezzata in quel caffè di villaggio piemontese dove certi nostri «rappresentativi uomini politici» trascorrono tra una partita ai tarocchi e l’altra al bigliardo alcune delle ore tristi del loro «martirio»? V’ha bisogno di dire che il ritorno degli Stuardi non ha sminuito affatto la grande figura di Cromwell; e che l’epopea napoleonica non ha mutato in nulla l’importanza storica della rivoluzione francese? L’avvenimento del domani può essere una conseguenza ed uno svolgimento del fatto di oggi; ed è esperienza comune che gli avvenimenti storici si svolgono ad ondate, a corsi e ricorsi, come diceva Giambattista Vico. I fatti del dopo guerra saranno certamente diversi da quelli della guerra; e saranno diversi i giudizi ed i pensieri degli uomini. Come i fatti ed i pensieri d’oggi, anche quelli di domani dovranno essere spiegati, non lodati o condannati, dagli storici dell’avvenire; ma immaginare che, perché diversi, essi possano costituire un «verdetto» sui fatti e pensieri di prima, può cadere in mente soltanto a chi non abbia colla storia altra dimestichezza che quella che si acquistava un tempo nelle scuole elementari quando si studiava la storia del popolo d’Israello e si vedeva Iehova affaccendato a punire le colpe dei re sacrileghi e del popolo eletto.

 

 

I «compendi di storia sacra» devono essere davvero l’ultima Thule della sapienza storica dell’annunciatore di verdetti, se si bada al quadro «idillico» che in un numero precedente lo stesso scrittore ha tracciato della storia del popolo degli Stati uniti. Sorto in mezzo ad un «Eden», vissuto in un’«Arcadia», ottimista per temperamento, conduttore di guerre «umanitarie» per l’abolizione di un «errore» (lo schiavismo), plagiario nei messaggi bellici di Wilson dei testi pacifisti di Emanuele Kant, entrato in guerra per essere stato disturbato nei suoi piani di fare armonicamente denaro vendendo merci a tedeschi e ad inglesi, il popolo americano crede che bastino i messaggi i discorsi le dimostrazioni e le bandiere per vincere la guerra.

 

 

Il quadro deve avere riscosso molte lodi nel caffè di provincia, dove gli uomini di stato, i quali furono prima «professori», devono godere assai scarse simpatie. Che le dichiarazioni di guerra dell’Italia e degli Stati uniti siano state fatte da due professori, da due intellettuali, è una circostanza che non sarà mai dimenticata dalle «scarpe grosse» ma «pratiche», a cui la parte giolittiana è fermamente convinta spettare il governo del mondo. Disgraziatamente, la prima dichiarazione di guerra, di cui le altre furono le conseguenze, non fu forse fatta da un intellettuale, da un filosofo, il Bethmann-Hollweg, ed i professori tedeschi firmatari del celebre «manifesto» non certificarono forse che essa aveva per sé il verdetto della storia?

 

 

Ignoro quel che dirà la storia dell’atto di Wilson; ma immagino che difficilmente potrà negare che i messaggi del presidente americano discendano in linea retta dai grandi documenti della storia nordamericana: Washington, Jefferson, Lincoln non avrebbero parlato diversamente. Quei documenti non possono essere scambiati per manifestazioni idilliache di un popolo vissuto sempre in un Eden, salvo da chi abbia appreso la storia nordamericana sui romanzi di Maine-Reid. Essi sono documenti dello spirito di sacrificio di un popolo che ha sempre lottato per il raggiungimento di scopi ideali. Chi immagina che le guerre si possano fare solo per rubare i territori altrui, o per impadronirsi di miniere o di colonie o di tesori, non può capire il perché Wilson sia disceso in guerra. Cotesta gente «furba» pensa che gli americani avessero guadagnato abbastanza alle spalle nostre e si siano decisi a venirci in aiuto per salvare i loro crediti, e soggiunge, con spirito caritatevole: «questo è ottimismo di un popolo a cui la vita fu sempre facile ed è sicuro della propria stella. Noi che non siamo ottimisti, la pensiamo diversamente e staremo a vedere come la andrà a finire coi crediti nordamericani». Così si ragiona dai filosofi giolittiani della storia moderna.

 

 

Gli italiani che ricordano, rammentano una ben diversa storia: la emigrazione dei puritani dall’Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, le lotte diuturne e secolari con gli indiani e coi francesi del Canada, la lunga, incerta, angosciosa guerra dell’indipendenza, la salvezza miracolosa da ripetuti pericoli di annientamento della neonata confederazione, le movimentate guerre marittime, in cui la marina francese, acquistando per un momento la preponderanza sulla flotta britannica, salvò dal disastro Washington, la terribile guerra di secessione, di cui nessuna forse rassomiglia di più alla guerra presente, per numero di uomini combattenti – fa bisogno di ricordare agli esumatori di idilli nordamericani che 4 milioni di uomini combatterono nella guerra del 1861-65 e che 500.000 uomini vi trovarono la morte? – e per le cifre per quei tempi colossali della spesa sostenuta.

 

 

E rammentano che ben lungi dal credere di possedere la «costituzione Perfetta», i nordamericani sono forse il popolo che abbia durato più fatica per emendare la propria costituzione. Per un emendamento si fece la guerra di secessione; e tutti gli altri costarono lotte acerbissime degli uomini migliori del paese contro le forze del privilegio e dell’interesse particolare. Wilson, dopo Lincoln, è il rappresentante più alto delle qualità migliori del popolo nordamericano. Professore e rettore della sua università ne trasformò il governo, vi infuse uno spirito nuovo e la rese uno dei centri migliori di ricerca e di influenza intellettuale sul nuovo continente. Governatore di New Jersey si rese temibile ai capi partito e sgominò le vecchie e tenacissime consorterie che si erano impadronite della cosa pubblica. Presidente della confederazione, mantenne la promessa di riforma delle tariffe doganali e della legge bancaria. L’atto bancario di Wilson fu definito più grande nelle sue conseguenze mondiali che non l’apertura del canale di Panama; e chi conosce il valore delle forze che si opponevano all’atto doganale e all’atto bancario sa che per trionfare su quegli ostacoli faceva d’uopo possedere una volontà dura e ferma come quella dei due o tre grandi presidenti che gli Stati uniti vantano, uomini non inferiori in nulla ai maggiori statisti dell’Europa del secolo XIX. Dire, dopo ciò, che i messaggi di Wilson sono roba da Eden e da Arcadia è dire cosa che, se è lontana dal vero, si confà però egregiamente alla levatura intellettuale di coloro che per consolarsi del martirio sofferto passano il tempo nei piccoli caffè a giocare a tarocchi od al bigliardo.

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