Opera Omnia Luigi Einaudi

Liberismo e liberalismo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1931

Liberismo e liberalismo

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1931, pp. 186-194[1]

A proposito di Benedetto Croce, Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono. Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche, Napoli, 1930, pp. 291-337[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 207-218

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 121-133[3]

Antologia degli scritti politici dei liberali italiani, Il Mulino, Bologna, 1962, pp. 196-206

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 143-154[4]

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1988, pp. XXXI-215

 

 

 

 

 

Nei tre capitoli della memoria[5] il Croce delinea il sorgere della religione della libertà in quel grande periodo tra il 1815 ed il 1848 che fu la matrice vera dell’Europa contemporanea; spiega come a quella si contrapponessero altre fedi, la cattolica romana, l’assolutismo monarchico, il democratismo e il comunismo, e chiarisce la distinzione tra il romanticismo teoretico e speculativo e quello pratico, sentimentale e morale. Nuocerebbe dopo avere indicato il tema della memoria, sunteggiarla; essendo impossibile dare, col sunto, l’impressione di quanta gioia dello spirito e di quanto stimolo a meditare dia questa, come ogni altra scrittura del Croce. Basta la notizia bibliografica per incitare a leggerla negli atti dell’Accademia napoletana e per far desiderare, a chi l’abbia letta ed agli altri che non abbiano a ciò agevolezza, che presto si compia la promessa, contenuta nel titolo, della nuova storia del secolo decimonono. Sarà narrazione la quale, muovendo di Francia, dirà quanta parte, a fare quella storia, abbiano avuto anche le altre nazioni europee e, chissà!, pur quelle fuor di Europa se, a formar l’Europa d’oggi, il Croce ritenga abbiano contribuito correnti spirituali sorte o ringagliardite o mutate fuor della breve cerchia europea.

 

 

 

Altra volta (in Dei concetti di liberalismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, in «La Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1928), ho preso occasione da scritture crociane per discorrere intorno a taluni concetti che mi parvero degni di approfondimento. Ritornerò stavolta su un punto già allora studiato, quello del rapporto fra i concetti di liberalismo in generale e di liberismo economico. Allora avevo negato che gli economisti dessero, come il Croce pareva intendere, valore di principio economico al «liberismo»; osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fine non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico, morale, religioso; ma la soluzione più conveniente non sempre è quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale od altro ancora. Soggiungevo solo che, di fatto ed in via tutt’affatto empirica, per lo più accade siano sbagliati o pretestuosi i motivi dell’intervento, sicché il liberismo economico spesso si raccomanda come ottima regola «pratica».

 

 

Nella nuova memoria il Croce abbassa ancor più il valore astratto del concetto di liberismo economico. Non solo esso è concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo; ma non pare neppure conservi l’antica posizione di «legittimo principio economico». Leggesi invero nel saggio odierno:

 

 

«Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide col cosidetto liberismo economico, col quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione di questi o quelli mezzi di produzione, né l’ha poi sempre rifiutata nel fatto, ché anzi ha attuato non poche socializzazioni; e solamente esso le critica e le contrasta in casi dati e particolari, quando cioè è da ritenere che la socializzazione arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento complessivo, che spesso non è neppure eguale». (p. 33)

 

 

Dove l’A. sembra identificare l’operare economico del «liberalismo» con quello che a me nella recensione citata, pareva essere il contenuto del «principio economico, il quale non è né liberistico né interventistico» né comunistico, e non afferma doversi seguire sempre la massima del lasciar fare e lasciar passare, ma l’altra della soluzione volta per volta più conveniente. Sebbene si sia così bene incamminati sulla via della chiarificazione dei concetti, non parmi si sia peranco giunti alla meta; cosicché non è forse inutile elencare i diversi significati che la parola «liberismo» può avere in economia, con alcuna chiosa sui rapporti di esso col «liberalismo».

 

 

Nel linguaggio corrente, adoperato soprattutto nelle scritture dei laici, si ritiene «liberistica» una maniera di ragionare che è invece puramente astratta ed è propria della scienza economica, perché scienza e perciò astrazione. Se l’economista scrive: «supponiamo che i permutanti agiscano in un mercato libero e che vi sia in esso concorrenza fra molti venditori e fra molti compratori», i laici ritengono che per aver posto siffatta premessa, l’economista sia “anche” un liberista pratico. Ma egli pone anche premesse diverse, come quando scrive: «supponiamo che sul mercato libero intervengano un solo venditore e molti compratori»; o come quando avverte: «supponiamo che, intervenendo sul mercato un solo venditore e molti compratori, il mercato non sia libero, ma regolato dallo stato secondo il criterio, ad esempio, del massimo utile collettivo». Nel primo caso, il ragionatore parte dalla “premessa” della libera concorrenza; nel secondo, da quella del monopolio privato puro; nel terzo, da quella del monopolio pubblico. Il ragionatore può nutrire fede liberistica o comunistica od altra ancora. Noi di ciò nulla sappiamo in sede di ragionamento scientifico, dove interessa soltanto porre adeguate premesse al rigoroso ragionare astratto e dedurre tutte le illazioni contenute nelle premesse. La premessa di mercato libero o di individui agenti per motivi egoistici non è un «principio» economico; è un puro strumento di ragionamento ed ha valore esclusivamente astratto. Tutta la scienza economica è un’astrazione pura; e non può non essere tale. Nessuno è in grado di dominare tutti i fattori della realtà, nella loro molteplicità e continua variabilità, ed è giocoforza costruire schemi astratti, manovrando un piccolissimo numero di fattori. Le generazioni successive di economisti si lusingano di potere via via crescere il numero dei fattori manovrati e di poterli manovrare con ragionamenti via via più delicati. Guai se non avessero questa lusinga! Guai se, trascinati dall’entusiasmo, non si illudessero talvolta di avere rasentato, mercé la scelta dei fattori ai loro occhi più rilevanti, la realtà! Lo scoraggiamento troncherebbe, durante la fatica, le ali alla fantasia divinatrice. L’hiatus tra lo schema astratto e la realtà rimane pur sempre incolmabile alla scienza; e solo il fiuto del politico, e la potenza visiva dello storico possono gettare un ponte fra di essi.

 

 

La ipotesi astratta liberistica dalla forma: «supponiamo che…» può passare alla formulazione precettistica, quando all’economista si chieda di risolvere un problema concreto sulla base di puri ragionamenti economici. Terribile pretesa, alla quale l’economista avrebbe ragione di sottrarsi, ben sapendo che il puro ragionamento economico non può risolvere il problema concreto. Tuttavia, il sentimento del dovere verso la cosa pubblica è spesso più forte, e moralmente dovrebbe essere sempre più forte, dei suoi scrupoli scientifici; ed egli si induce ad apportare il suo contributo, accanto e contemporaneamente al fisico, al chimico, al giurista, allo storico, al filosofo ed al politico, che nei problemi concreti tutti gli altri riassume, o dovrebbe riassumere, alla soluzione desiderata.

 

 

Di fronte ai problemi concreti, l’economista non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo; ma a volta a volta osteggia i dazi doganali protettivi, perché reputa che l’attività economica sia massima quando sia aperta senza limiti la via alla concorrenza della merce estera; è favorevole alle leggi limitatrici del lavoro delle donne e dei fanciulli, alla proibizione del lavoro notturno, al risarcimento degli infortuni sul lavoro, alle pensioni di vecchiaia, perché considera cotali freni e presidi legislativi mezzi efficaci a crescere la produttività operaia; è contrario alla socializzazione universale perché prevede che essa attenuerebbe l’interesse a produrre; ma vuole che lo stato consideri le ferrovie come industria pubblica, reputando dannoso alla collettività il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E così via, ogni problema darà luogo ad una soluzione sua propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza. Se la soluzione è liberistica essa si impone non perché liberistica, ma perché più conveniente delle altre. La convenienza di una soluzione, evidente sulla base di date premesse, viene meno quando la premessa muti. È noto che, per ragionamento puro economico, il protezionismo è preferibile al libero scambio, in determinate ipotesi di industrie nuove (Hamilton, Stuart Mill) o di svendita temporanea dovuta a sfruttamento di nuovi territori e di nuove invenzioni. Teoricamente, la questione è giudicata a favore della protezione temporanea; ma rarissimi sono gli economisti, i quali, dopo avere esposto il teorema, non soggiungano subito che la prudenza pratica consiglia di non applicare la conclusione astratta, essendo difficilissimo, per non dire impossibile, scoprire, fra le tanti postulanti, l’industria giovane la quale, sostenuta nei primi anni dai dazi contro la concorrenza estera, giungerà a vivere di vita propria; ancor più difficile scoprire quella che giova proteggere temporaneamente, perché la concorrenza straniera che oggi la ucciderebbe è destinata presto a svanire e conviene risparmiare al paese la perdita del capitale oggi impiegato nella industria nazionale, e poi, il costo della sua ricostruzione a pericolo passato; e quasi assurdo, finalmente, a tacer d’altro, che un’industria provvisoriamente per questi motivi protetta riconosca essere giunto per essa il momento della virilità od essere trascorso il nembo che la minacciava. Siamo sempre nel caso del liberismo per calcolo di convenienza; ma il calcolo è più complesso, ed è condotto sulla base di un più gran numero di fattori.

 

 

Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. «Liberisti» sarebbero, in questa accezione, coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro l’azione libera dell’individuo, a lui ispirata dall’interesse individuale, coinciderebbe sempre coll’interesse collettivo. Alcune frasi di Adamo Smith: «L’individuo fa senza tregua ogni sforzo per impiegare il proprio capitale nel modo più vantaggioso. Ben vero egli cerca il suo beneficio e non quello della società; ma le cure che egli pone nel cercare il proprio personale vantaggio lo conducono naturalmente o, meglio, necessariamente, a preferire per l’appunto quella particolare specie di impiego che è più vantaggioso alla società… Pur perseguendo il proprio interesse personale, egli lavora spesso a vantaggio della società in modo più efficace che se egli vi intendesse per espresso proposito… Ognuno pensa solo al proprio guadagno; ma nel far ciò l’individuo è condotto, come in molti altri casi, da una mano invisibile a raggiungere un fine a cui egli non aveva affatto inteso (Wealth of Nations, ed. Cannan, vol. I, pp. 419 e 421)» – hanno potuto far credere che la identificazione dell’interesse individuale e dell’interesse collettivo fosse un «principio» connaturato alla scienza economica. Troppi sono tuttavia i luoghi in cui lo stesso Adamo Smith ha insistito sulla opposizione di interessi fra classe e classe, fra i singoli e la collettività; troppi quelli in cui egli elenca le ragioni d’intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all’azione individuale od a questo contrastanti, perché sia lecito dare alle frasi di Adamo Smith nulla più che un valore storico – la «mano invisibile» ricorda la «divina provvidenza» o la «natura», delle terminologie varie usate al tempo suo – o contingente a problemi particolari del tempo da lui in quel momento discussi. Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo.

 

 

Non direi tuttavia che la concezione religiosa del liberismo sia priva di valore pratico. Ne può anzi avere uno grandissimo. Giova moltissimo che, di fronte all’andazzo di tutto chiedere allo stato, di tutto sperare dalla azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di poltronaggine l’interventista e di avidità il protezionista. Messa fuori causa la scienza, la figura morale del primo si erge nella vita pratica e politica di mille cubiti al disopra dei suoi oppositori. Senza di lui, lo stato non solo adempirebbe ai compiti che gli son propri ed integrerebbe l’azione individuale laddove l’integrazione è conveniente, ma, intervenendo nelle cose economiche ad istigazione dei furbi e degli sciocchi, farebbe il danno della collettività.

 

 

Esiste un nesso tra la concezione astratta, quella precettistica e quella religiosa del liberismo economico. Si giunge di solito al precetto liberistico per mezzo di un ragionamento astratto. Il credente nel liberismo arrivò alla fede dopo essersi persuaso, con molti o pochi ragionamenti astratti, che le soluzioni diverse da quelle liberistiche erano per tutti i problemi concreti a lui noti (qualche eccezione c’è anche per il credente, ma, per la sua minima importanza, presto egli la dimentica) dannosi alla collettività. Tutte tre le concezioni, inoltre, hanno questo di comune fra di loro: che esse si muovono nell’ambito dell’economia e non hanno un legame necessario con la visione liberale del mondo. Il liberista può essere fautore di un sistema di governo assoluto; del che l’esempio più famoso resta il liberismo doganale inaugurato in Francia da Napoleone III, col consiglio dello Chevalier, e contro le critiche del Thiers e di altri liberali, che poi lo disfecero al tempo della terza repubblica. E può accadere l’inverso: che il liberale sia anche liberista, come fu nel decennio tra il 1850 e il 1860 il conte di Cavour in Piemonte, contro l’opposizione dei reazionari, che erano anche protezionisti.

 

 

Ma v’ha un’ultima concezione del liberismo economico che io direi storica e che mi pare affratellata e quasi immedesimata col liberalismo, sì da riuscire quasi impossibile scindere l’uno dall’altro. Il Croce quasi lascia supporre che se fosse vero «che il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l’ordinamento capitalistico cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata… il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella abolizione (p. 33)». Ammissione che l’A. subito distrugge in una delle sue più belle pagine avvertendo che, quando così fosse veramente ed il comunismo arricchisce materialmente gli uomini, li impoverirebbe spiritualmente, riducendoli pari a quelli che Leonardo definiva «transiti di cibi». L’ammissione, anche subito negata, è tuttavia spaventevole troppo per non eccitare qualche dubbio. Che io porrei così: un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo? Può cioè esistere l’essenza del liberalismo, che è libertà spirituale, laddove non esista proprietà privata e tutto appartenga allo stato? So bene essere difficilissimo definire dove finisca la proprietà privata e dove cominci quella dello stato. Può invero concepirsi un comunismo in cui lo stato non possegga e non gerisca direttamente alcuna proprietà; l’attuale assetto economico russo essendo lontanissimo, ad esempio, dall’assorbimento giuridico di ogni proprietà nello stato. E, al contrario, può darsi un regime giuridico di proprietà privata, nel quale lo stato sia onnipotente ed i proprietari privati siano di fatto funzionari dello stato. Qui non si vuol discutere di parole, ma di sostanza. Della quale il succo è che, se comunismo esiste davvero, non possono esistere forze indipendenti da quella dello stato. Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei beni economici. La volontà unica potrà a volta a volta avere come strumento di azione organi burocratici di un’amministrazione unica accentrata o corpi autonomi o cooperative o persino società anonime concessionarie. Il mezzo scelto come strumento d’azione non monta. Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d’azione non abbiano una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato e del gruppo politico in cui lo stato si impersona. Se la volontà è unica, è possibile raggiungere gli ideali che lo stato comunistico si propone: massimizzazione della ricchezza materiale ovvero del benessere sociale definito nella maniera voluta dalla dottrina dominante, distribuzione a seconda del bisogno o del merito o di una data combinazione del criterio del bisogno e di quello del merito e di altri criteri ancora. Se le volontà sono invece parecchie ed indipendenti le une dalle altre; se, pur abolita formalmente la proprietà privata, la “cooperativa” o l’”ente autonomo” (il trust pubblico come lo chiamano in Russia) o la “società concessionaria” hanno un potere proprio, derivante dalla volontà dei soci o dei partecipanti al lavoro, la organizzazione collettivistica è morta. Esistono, al luogo suo, organismi vivi che intendono raggiungere fini proprî, vantaggiosi alla collettività particolare, e non coincidenti necessariamente coi fini ritenuti utili dallo stato per la collettività generale.

 

 

Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può non esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono tollerabili ideologie concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze indipendenti, le quali intendono necessariamente a distruggere ed a sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di quelle materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non può dunque tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e minerebbe a breve andare. Il comunismo può ammettere la critica tecnica; e, da quel che si legge negli scritti di osservatori avveduti, la critica tecnica è largamente ammessa ed anzi vivamente incoraggiata nella Russia bolscevica. La critica tecnica è invero inoffensiva; perché parte dalla premessa propria della ideologia attuale russa che scopo della vita sia la consecuzione della massima quantità totale di prodotto in una data unità di tempo. Non è ammessa e non è ammissibile la critica di principio, la quale sostenga che lo scopo della vita non sia quello suddetto; ma vi possano essere tanti scopi della vita quanti sono i corpi, i gruppi e le unità sociali. Questa è eresia; e ben lo avverte il gruppo dirigente, il quale sa che, ammessa la libertà per i gruppi legalmente riconosciuti, “enti autonomi”, “cooperative”, “repubbliche autonome” della U.R.S.S., di determinare da sé il proprio scopo della vita, inevitabilmente gli scopi si moltiplicheranno; i gruppi si scinderanno e la moltiplicazione degli scopi e dei gruppi giungerà sino alla famiglia ed all’individuo. Risorgerà la volontà dell’uno contro la volontà del tutto; l’uno ritornerà a concepire la vita ed i suoi scopi diversamente dagli altri uno e dal tutto. Finirà la cattolicità comunistica e rifiorirà la libertà.

 

 

Perciò il liberalismo non può (nemmeno per figura rettorica) assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta il Croce. Esso vi ripugna per incompatibilità assoluta. Non può esistere libertà dello spirito, libertà del pensiero, dove esiste e deve esistere una sola volontà, un solo credo, una sola ideologia. Se per libertà del pensiero non si intende solo quella di poter pensare e meditare dentro a se stesso; – ed anche la libertà di pensare con se stesso è mortificata in quelle condizioni – se essa implica la libertà di comunicare ad altri il proprio pensiero, quella libertà non può esistere nel comunismo. La libertà del pensare e dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico, con che non si intende, avvertasi bene, collegare il liberalismo con uno qualunque dei tre significati tecnici dapprima elencati del liberismo economico. La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. In altri termini e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di far dipendere la vita dello spirito dall’economia, lo spirito libero crea un’economia a se medesimo consona e non può creare perciò un’economia comunistica che è economia asservita ad un’idea, qualunque sia, imposta da una volontà, per definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se è libero, crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l’elemosina del vivere ad un’unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa. Devono, nella società libera o liberale, l’individuo, la famiglia, la classe, l’aggruppamento, la società commerciale, la fondazione pia, la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la consacrazione della propria vita legale da un organo supremo, detto stato; ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere di vita propria, coordinata alla vita degli altri ma non immersa nella vita del tutto e derivante dalla tolleranza dell’organo del tutto. Come le tante forze vive ed autonome debbano essere fatte coesistere; come esse debbano contribuire alla vita del tutto ed alla creazione dell’organo che impersona l’universale è altro discorso che ci condurrebbe lungi. Basti avere posto per fermo caposaldo che senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo. Può esistere una società comunistica, al tempo stesso nemica irreducibile del liberismo economico e del liberalismo.



[1] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[2] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[3] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[4] Tradotto in spagnolo con il titolo De los distintos significados de concepto de liberalismo económico y de sus relacíones con el liberalismo [ndr].

[5] Benedetto Croce, Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono. Memoria letta all’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli (Napoli, 1931. Un vol. di pp. 51, estratto dal vol. LIII, parte prima, degli Atti della Accademia sopradetta).

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