Opera Omnia Luigi Einaudi

L’imposta sui guadagni derivanti dalla guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1920

L’imposta sui guadagni derivanti dalla guerra

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 26-70

 

 

 

 

Il più importante tributo creato durante la guerra in Italia è quello che si dice, secondo i nostri testi legislativi, «Imposta e sovrimposta sui redditi realizzati in conseguenza della guerra». È un tributo il quale emerge fra gli altri, i quali vorrebbero essere permanenti, mentre invece si riducono ad imposte occasionali messe insieme per il momento con uno scarso carattere di continuità e spesso anche di costruzione logica. In mezzo a tutte queste improvvisazioni imperfette, che vorrebbero essere permanenti, l’imposta sui sopraprofitti determinati dalla guerra conserva volutamente un carattere provvisorio, pur essendo tuttavia venuta man mano assumendo un aspetto abbastanza logico e coordinato. Il testo attuale regolatore di questa imposta è frutto di perfezionamenti successivi, di guisa che rappresenta uno sforzo legislativo più serio di quello che non siasi compiuto per le altre imposte di cui ho già avuto occasione di parlare.

 

 

L’imposta sui sopraprofitti si può veramente dire sia stata la conseguenza di una irresistibile pressione dell’opinione pubblica. Non sarebbe stato possibile farne a meno. A guisa di un contagio, questa imposta, che aveva avuto la sua origine in Inghilterra, si diffuse nei diversi paesi d’Europa, in Germania, in Francia ed anche in Italia. Dai paesi belligeranti è passata a paesi neutri, dei quali parecchi l’hanno pure applicata; gli Stati Uniti anch’essi l’hanno accolta. Si può dunque dire che non ci sia paese belligerante e pochi neutri, nei quali si siano determinati profitti derivanti dalla guerra, che non abbia accolto questo tributo.

 

 

Il tributo in questione si ispira al concetto fondamentale che poiché la guerra è stata per molti cagione di gravi sacrifici, sarebbe stato sommamente ingiusto e anche impolitico vi fossero invece persone che in conseguenza della guerra godessero di alti profitti; l’imposta era quindi necessaria allo scopo di diminuire alquanto questi profitti eccezionali, di rendere meno stridente il contrasto fra coloro che dalla guerra erano stati avvantaggiati e coloro che economicamente ne erano stati danneggiati. Oltre a questa fondamentale, vi erano altre motivazioni: soprattutto quella di diminuire la massa di ricchezza a disposizione dei nuovi ricchi così da ridurre per essi anche la possibilità di consumare. La riduzione dei consumi era una esigenza necessaria per la condotta della guerra perché soltanto riducendo i consumi privati era possibile determinare nella massa dei beni prodotti in un determinato momento un margine il quale potesse essere dedicato alle spese di guerra; se invece i consumi privati non fossero diminuiti, il problema della condotta della guerra diventava un problema insolubile. La presente guerra, a differenza di quanto si immagina da molti, non è stata condotta distruggendo prevalentemente capitali, consumando cose le quali avevano già una forma determinata, bensì consumando dei beni via via prodotti in successivi momenti. Per poter dare allo Stato per la condotta della guerra la massa di prodotti necessari, era d’uopo che i consumi privati fossero diminuiti; e l’imposta sui sopraprofitti, si disse, portando via agli arricchiti una parte dei loro profitti, faceva sì che essi avessero meno mezzi di consumare e quindi restasse una maggior ricchezza disponibile per la guerra.

 

 

Anche a questo tributo non sono mancate obbiezioni; ma più che esporle in modo particolareggiato, riferirò alcuni commenti sommari che si possono leggere in scritti di economisti italiani su questo argomento (veggasi la bibliografia in fondo al corso). Il professor Cabiati, fra l’altro, osserva che talvolta produce maggior risultato economico la ricchezza in mano di una sola persona che non la medesima ricchezza quando sia disseminata in mano di mille persone. L’osservazione è rilevante, giacché una persona sola che possegga, a mo’ di esempio, un milione, difficilmente lo consumerà e lo conserverà invece a risparmio mentre invece la stessa somma dispersa fra mille persone sarà invece più facilmente consumata.

 

 

L’osservazione giova a limitare il valore di quanto io dissi in precedenza e cioè che l’imposta sui sopraprofitti di guerra dovesse avere per iscopo di diminuire la possibilità per i ricchi di consumare ricchezza. Il che è una di quelle verità che si possono dire di aspirazione; ma è pur vero che qualche volta lo spostamento della ricchezza dai ricchi ai poveri non giova a raggiungere quell’intento, se i poveri non sono disposti a risparmiare, poiché allora il risultato a cui si mira, quello di impedire il consumo della ricchezza, non viene raggiunto.

 

 

Un altro autore, il professor Bachi, osserva che la nuova schiera degli arricchiti determinata dalla guerra ha funzionato e funzionerà nel periodo post-bellico, come un fermento innovatore della società. I periodi che seguirono alle guerre sono stati spesso segnalati da un grande movimento industriale, determinato dal fatto che molti i quali prima vivevano negli strati umili della società e non avevano avuto il mezzo di far spiccare le loro naturali qualità organizzatrici, erano stati dai trambusti, dagli sconvolgimenti inerenti allo stato di guerra portati ai gradi superiori, dove avevan potuto mettere in luce ed utilizzare le loro ottime qualità; considerazione anche questa d’un certa importanza della quale è d’uopo tener conto nel limitare o ridurre entro più giusti confini quelli che possono essere considerati come risultati utili dell’imposta sui profitti di guerra.

 

 

Il professor Pantaleoni osserva: i sopraprofitti in fin dei conti saranno la parte più viva, più interessante del capitale mobile che si avrà nel dopo guerra. Assorbirli per mezzo di un’imposta vuol dire far passare questi sopraprofitti dalle mani dei privati, che li potrebbero utilizzare a pro dell’industria, nelle mani dello Stato, il quale non sarà in grado di utilizzare questi capitali col medesimo vantaggio.

 

 

Queste considerazioni pro e contro ci portano forse alla conclusione che dell’imposta sui sopraprofitti si sarebbe potuto fare a meno in una società ideale, in una società in cui, ad esempio, a capo delle amministrazioni dello Stato incaricate di fare la massima parte delle spese dell’amministrazione militare e degli approvvigionamenti civili, si fossero trovate persone molto esperte, capaci di contrattare vantaggiosamente; allora i sopraprofitti non si sarebbero avuti, almeno nella misura verificatasi, in quanto che i capi della amministrazioni statali grazie alla loro abilità nel contrattare avrebbero saputo stabilire prezzi tali da concedere soltanto il margine di profitto minimo, quello corrente sui mercati. Sarebbe allora venuta meno per l’opinione pubblica la ragione di chiedere imposte sui sopraprofitti. L’opinione pubblica si è mossa appunto perché si era accorta che lo Stato era incapace di contrattare, che, per sua inabilità nelle contrattazioni, aveva concesso prezzi così forti che i profitti ottenuti dai fornitori erano di gran lunga superiori ai profitti ordinari. Essa fu spinta a chiedere l’imposta come mezzo per ricuperare ciò che era stato dato in eccedenza ai privati. Ciò, ripeto, non sarebbe avvenuto in una società ideale. Se anche questa società ideale si fosse limitata ad un paese solo, questo paese avrebbe avuto vantaggio a non ricorrere all’imposta sui sopraprofitti e forse, tutto sommato, la condotta della guerra sarebbe stata per esso meno costosa. I capitali sarebbero stati invero indotti a venire dall’estero, dove erano taglieggiati dall’imposta sui sopraprofitti, nello stato immune dall’imposta stessa e in esso sarebbe sorta una forte concorrenza fra i capitali impiegati nelle industrie belliche, il saggio d’interesse sarebbe rimasto al minimo, le amministrazioni statali sarebbero state in condizioni di fare ottimi contratti spendendo assai meno di quello che in realtà avrebbero speso nel caso opposto, pur tenendo conto degli eventuali ricuperi ottenuti per via dell’imposta sui sopraprofitti.

 

 

Questa è un’ipotesi sulla quale tuttavia è inutile ragionare perché non vi è nessun paese che abbia raggiunto anche un grado modesto di perfezione a questo riguardo. Le lagnanze sulla incapacità della pubbliche amministrazioni a ben contrattare furono universali e dappertutto si verificò quel movimento dell’opinione pubblica che rese, per così dire, inevitabile istituire questa imposta.

 

 

Vediamo adesso come in Italia questa imposta sia stata costituita. Sarebbe assai interessante seguire i suoi passaggi successivi dalla prima formulazione grossolana e approssimativa all’ultima formulazione, quale oggi abbiamo; ma, data la brevità del tempo a mia disposizione, mi limiterò a dar un’idea di quello che è oggi l’imposta sui sopraprofitti, in seguito ad una serie di trasformazioni che si andarono operando nel suo assetto dopo le esperienze fatte dall’amministrazione. L’imposta sui soprafitti è arrivata alla forma attuale, in seguito a successive riforme che in Italia si poterono fare con abbastanza rapidità perché il governo non aveva bisogno di ricorrere al Parlamento. Fu uno dei pochi casi in cui la fucina dei decreti luogotenenziali funzionò con un certo successo. Mentre in altri campi si dovette lamentare un succedersi vertiginoso di decreti luogotenenziali che venivano a sconvolgere interessi privati, a turbare le transazioni ordinarie, a provocare malanni nuovi nell’aspirazione mai soddisfatta di rimediare a mali antichi, in questo campo la possibilità di poter correggere gli errori inevitabili del primo momento fu veramente utile. Negli Stati Uniti dove non fu possibile al potere esecutivo ottenere i pieni poteri e dove quindi anche durante la guerra fu necessario il consenso del congresso per modificare una legge preesistente, i perfezionamenti nella imposta sui sopraprofitti di guerra furono molto più difficili che fra noi, cosicché una Commissione di studio nominata dall’American Economic Association sul funzionamento delle imposte di guerra dovette concludere che se l’imposta sui soprafitti aveva dato risultati discreti, questi non erano dovuti alla maniera con cui la legge era stata congegnata, ma piuttosto all’abilità e al giudizio discreto degli uffici amministrativi nell’applicare la legge e anche alla lealtà dei contribuenti nell’osservare meglio che potevano le grezze, oscure e sotto molto rispetti dure e disuguali disposizioni legislative. Là è stato un ragionevole arbitrio dell’amministrazione che ha reso possibile di poter applicare la legge com’era originariamente, passando sopra a molte disposizioni inapplicabili o che avrebbero prodotto risultati dannosi. In Italia l’amministrazione poté far a meno di esercitare il suo arbitrio, perché il governo aveva facoltà di emettere continuamente nuovi decreti allo scopo di modificare disposizioni congegnate affrettatamente e che la successiva esperienza aveva dimostrato inapplicabili o troppo ingiuste. Mi tratterrò dunque a considerare la legge quale è oggi, dopo una serie di elaborazioni e di perfezionamenti.

 

 

L’oggetto dell’imposta sui sopraprofitti è costituito di redditi che commercianti, industriali e intermediari hanno ottenuto durante la guerra in più dei redditi antichi, sia che si tratti di redditi veramente nuovi o sia che si tratti dell’incremento sui redditi antichi. Questa definizione dà luogo ad un grave dubbio. Che cosa sono questi nuovi redditi o incrementi di redditi vecchi i quali sono stati realizzati in conseguenza della guerra? È possibile poter fare l’analisi dei redditi per determinare quali dei nuovi redditi o incrementi di redditi siano stati ottenuti per causa della guerra e quali per altre cause – incremento di produzione, nuove iniziative industriali, che si sarebbero avute anche in assenza della guerra? La ricerca della causa di un fatto è sempre cosa difficilissima. In questo caso poi, qualora si fosse realmente voluto fare caso per caso la ricerca dell’origine di un reddito, ci saremmo trovati di fronte a discussioni infinite perché mai contribuenti e finanza avrebbero potuto mettersi d’accordo. Il legislatore tagliò il nodo affermando una presunzione generale, essere cioè «redditi realizzati in conseguenza della guerra», fino a prova contraria, tutti quelli comunque verificatisi per aumento di produzione o di commercio o per elevamento dei prezzi. Basta che vi sia uno di questi due estremi perché si presuma che l’aumento dei redditi sia un nuovo reddito derivante dalla guerra. Trattandosi di presunzione, è consentita la dimostrazione contraria; ma questa deve essere data dal contribuente ed è difficilissima, per lo più impossibile, a darsi. È evidente che, partendo da questa presunzione, quasi tutti i redditi nuovi o incrementi di reddito si debbano considerare come derivanti dalla guerra, perché per considerarli come redditi non dipendenti dalla guerra sarebbe d’uopo supporre un incremento di reddito che si fosse ottenuto a produzione costante ed a prezzi costanti. Come è possibile avere un reddito maggiore di prima quando la produzione resta immutata e quando i prezzi non mutano? Evidentemente c’è una sola maniera di ottenere un reddito netto maggiore di prima in questa ipotesi ed è che la spesa di produzione sia diminuita. Se il caso si avvera, si può ammettere non si tratti di sopraprofitto di guerra, poiché effetto della guerra fu di accrescere, non di diminuire le spese di produzione. In questo unico caso si può ammettere non sia necessaria una prova contraria essendoci una presunzione plausibile che l’incremento non sia connesso alla guerra.

 

 

Tuttavia si potrebbe citare qualche caso in cui vi è una certa probabilità che l’incremento del reddito si sia verificato a produzione costante ed a prezzi costanti appunto per causa della guerra, in conseguenza della diminuzione di costo derivante dalla guerra stessa. Il caso, abbastanza sintomatico, dicesi si sia avuto presso certe imprese di assicurazioni contro gli incendi.

 

 

Si è verificato invero che i redditi netti di alcune imprese di assicurazione contro gli incendi sono aumentati durante la guerra sebbene le tariffe fossero rimaste invariate e gli affari non fossero cresciuti. Quale spiegazione di questo fatto abbastanza singolare si può portare questa: il reclutamento e la chiamata di operai nelle città per le lavorazioni belliche assorbirono dalle campagne, insieme colla grandissima maggioranza di onesti lavoratori, anche quei pochissimi che davano occasione ad incendi dolosi, la cui dolosità non è dimostrabile. Minori occasioni vi furono altresì di incendi accidentali o dovuti ad esplosioni d’ira e di odii famigliari. Diminuiscono così per conseguenza della guerra le spese di produzione; verificandosi un aumento di reddito anche a produzione costante ed a prezzo costante. Ma la singolarità stessa del caso che forse è unico e ancora è dubbio dimostra come il legislatore non abbia ecceduto in larghezza quando ha ammesso che in caso di produzione invariata a prezzi costanti non occorresse la prova contraria per dimostrare che non si trattava di sopraprofitto derivante dalla guerra.

 

 

Chiarito così qual è l’oggetto dell’imposta, vediamo come l’imposta cade su di esso. Il metodo anche qui è stato, dal punto di vista tecnico, corretto, a differenza di quanto si fece per l’imposta complementare sui redditi superiori alle 10.000 lire in cui si commise l’errore di applicare l’aliquota crescente su tutto l’intiero reddito, così da produrre dei salti notevoli nelle somme dovute d’imposta nel passaggio da una categoria all’altra di reddito per incrementi lievissimi di reddito. Qui invece la conformazione tecnica dell’aliquota fu corretta.

 

 

QUOTA DEL REDDITO

Per il periodo fiscale dal1 luglio 1914 al 31 dicembre 1915

Per i periodi fiscali successivi 1916-1917-1918 e 1919

Fino all’8% del capitale investito

esente

esente

Superiore all’8 ma non al 10%

12

20

Superiore al 10 ma non al 15%

18

30

Superiore al 15 ma non al 20%

24

40

Superiore al 20 ma non al 20%

35

60

 

 

Per gli affittuari agricoli le quattro aliquote rimasero sempre del 10, 20 e 30 per 100 rispettivamente.

 

 

Come dice la tabellina stessa, le aliquote del 20, del 30, del 40 e del 60 per 100 colpiscono non l’intiero ammontare del reddito, ma successive frazioni dello stesso reddito; cosicché, ad esempio, se un contribuente o una società ha un reddito che in un determinato anno si ragguaglia al 50 per 100 del capitale investito, di questo suo reddito occorre fare diverse quote: la prima, immune dalla sovrimposta sui sopraprofitti, la quale va fino all’8 per 100 del capitale investito; la seconda, dall’8 al 10 per 100, sarà colpita colla imposta del 20 per 100; la terza, che va dal 10 al 15 per 100 è colpita dall’aliquota del 30 per 100 e così via. Ognuna delle zone di reddito è colpita dalla sua propria aliquota del 20, 30, 40 e 60 per 100, ottenendosi il vantaggio tecnico che la progressione della imposta è in ragione dell’ammontare del reddito e cresce col crescere di quest’ultimo, senza ché vi siano mai salti improvvisi quando si passa da uno scalino di reddito a quello successivo.

 

 

Per gli intermediari non era possibile applicare il criterio relativo alla percentuale sul capitale investito perché essi non hanno un capitale o per meglio dire hanno un capitale personale, il cui valore di mercato non è valutabile. E allora si applicò un altro criterio: la percentuale dell’imposta cresce in ragione di decimi sull’ultra reddito.

 

 

QUOTA DEL REDDITO

Per il periodo fiscale dal1 luglio 1914 al 31 dicembre 1915

Per i periodi fiscali successivi 1916-1917-1918 e 1919

Fino a 1 decimo oltre il reddito ordinario…………………………..

esente

esente

Superiore a 1 decimo e fino a 5 decimi oltre il reddito ordinario…

5

10

Superiore a 5 e fino a 10 decimi c. s.

12

15

Superiore a 10 e fino a 20 decimi c. s. ……………………….

18

20

Superiore a 20 e fino a 30 decimi c. s. ……………………….

24

25

Superiore a 30 oltre il reddito ordinario…………………………..

35

40

 

 

Colui il quale ha un reddito maggiore di solo un decimo al reddito ordinario non paga la sovrimposta sui sopraprofitti; colui il quale ha un reddito superiore all’ordinario di più di 1 decimo ma non più di 5 decimi paga il 10 per 100 su questo decimo in più; e così via fino ad arrivare a quegli intermediari che hanno lucrato più di 30 decimi oltre il reddito ordinario e che pagano il 40 per 100 sull’eccedenza di questo reddito oltre i 30 decimi.

 

 

Aggiungasi senza entrare in troppi dettagli tecnici che tutto il sovrareddito oltre quello ordinario già tassato coll’imposta ordinaria di ricchezza mobile, essendo accertato a parte ai fini della sovrimposta sui sopraprofitti, doveva essere tassato altresì coll’imposta ordinaria di ricchezza mobile. Come conoscere un reddito e non tassarlo? Così fu che alla sovrimposta indicata si deve aggiungere sempre la imposta normale di ricchezza mobile, colle sue aliquote proprie.

 

 

La breve esposizione che ho fatto del congegno dell’imposta mostra la necessità di determinare i concetti di «reddito ordinario» e di «capitale investito», poiché l’imposta è tutta imperniata su questi due concetti fondamentali: Cos’è reddito ordinario e cos’è capitale investito? Vi fu nella nostra legislazione una certa oscillazione nel formulare questi due concetti. Originariamente si era detto: reddito «ordinario» è quel tal reddito il quale era stato accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile per il biennio 1913-’14. «Accertato» ai fini dell’imposta per quel biennio voleva dire reddito «ottenuto» in un periodo antecedente ancora, per lo più verso il 1911 e 1912. Quid per tutti i «nuovi» redditi per cui il reddito «accertato» in quel biennio non esisteva? Per essi il legislatore dovette stabilire la presunzione che il reddito ordinario fosse un reddito determinato con opportuni confronti sulla base di quello che era stato accertato ai contribuenti esercitanti la medesima industria e commercio e posti nelle medesime condizioni: si andava cioè per via di paragone. In ogni caso però il reddito ordinario non poteva per alcun contribuente, anche per quelli già tassati, essere calcolato in una cifra inferiore all’8 per 100 del capitale investito. Si presentò subito il quesito dei redditi i quali non erano nuovi del tutto né semplicemente vecchi; ma corrispondevano ad un incremento di investimento da parte del medesimo contribuente. Tizio aveva prima della guerra un capitale di 100.000 lire e otteneva un reddito, supponiamo, di 8.000 lire all’anno. Questo sarebbe stato il reddito ordinario, se non avesse accresciute le dimensioni della sua intrapresa. Ma se Tizio portò il suo capitale da 100 a 200.000 lire non sarà più corretto considerare come reddito ordinario quello di 8.000 lire perché questo reddito, corrispondente ad un capitale di 100.000 lire, non può più essere il reddito ordinario corrispondente a 200.000 lire. Perciò fu stabilito che per i nuovi capitali investiti da vecchi contribuenti si considerasse come reddito ordinario la medesima percentuale di reddito che era fruttata dai vecchi capitali già investiti; quindi se il vecchio capitale fruttava 8 o meno dell’8 per 100 i nuovi capitali si consideravano come ordinariamente fruttiferi dell’8 per 100. Se poi i vecchi capitali, per esempio, fruttavano già prima della guerra di più dell’8 per 100, ad esempio, il 20 per 100, allora il reddito ordinario per detto capitale era già del 20 per 100 del capitale investito; ed in conformità al concetto informatore della legge, la sovrimposta straordinaria colpiva solo le eccedenze di reddito oltre il 20 per 100. Ciò era logico. Ma la logica fu alquanto spinta quando si ammise che anche i nuovi capitali aggiunti ai primi si considerassero come fruttiferi del medesimo reddito ordinario; se il vecchio capitale otteneva il 20 per 100 si reputò che anche il nuovo fruttasse ordinariamente il 20 per 100. L’ipotesi era un poco azzardosa. Se si ammette che il capitale già investito frutti il 20 per 100, è giusto partire da questa base, perché l’imposta vuol colpire solo gli incrementi di reddito derivanti dalla guerra e lasciare immuni redditi anche alti quando questi si avevano già prima della guerra. Non sembra però corretto ammettere senz’altro che i nuovi capitali siano capaci di fruttare il 20 per 100, solo perché si aggregano a capitali che davano precedentemente questo frutto. In realtà non è sempre possibile ad un industriale aumentare il capitale investito nell’azienda e ottenere che l’incremento di capitale continui a fruttare la medesima percentuale. È probabile invece, che a partire da un certo punto non di rado la produttività netta dei capitali sia decrescente.

 

 

Un’ultima importantissima modificazione nel concetto del reddito ordinario fu quella che prese le mosse da una osservazione fatta da molti industriali e ripetuta anche da studiosi. Sta bene, si disse, che si consideri come reddito di guerra tutto ciò che supera il reddito ordinario di pace; ma come viene calcolato questo reddito ordinario o di pace? Secondo il testo originario legislativo il calcolo si faceva, come vedemmo, sulla base di un accertamento fatto prima della guerra, accertamento registrato sui ruoli della imposta di ricchezza mobile del 1913-14. Quale l’inconveniente pratico e l’ingiustizia che ne derivano? Questo: che prima della guerra i metodi di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile erano rilassati e si procedeva quasi sempre per via di concordati, di medie, di contrattazioni fra agenzia imposte e contribuente. Era raro il caso (limitato quasi soltanto a società anonime) che fossero tassati i redditi effettivi. Era noto e universalmente ammesso che i redditi su cui i contribuenti venivano tassati erano inferiori a quelli reali; ed era quindi frequente il caso che il contribuente il quale aveva in realtà 100.000 lire di reddito era tassato su sole 50.000. L’evasione poteva anche non produrre conseguenze fiscalmente dannose; nel senso che per una imposta ciò che sopratutto conta non è l’altezza dell’aliquota sibbene la perequazione dell’accertamento. Se supponiamo che la medesima regola rilassata fosse stata adottata per tutti i contribuenti, tutti sarebbero stati tassati sulla metà del reddito effettivo; e tutti sarebbero perciò stati tassati perequatamente, pagando tutti un’aliquota forte sulla metà del reddito. Non intendo con ciò lodare la rilassatezza negli accertamenti, che è invece grandemente biasimevole; ma solo segnalare la cagione per cui il fatto era guardato con una certa benignità. Comunque sia di ciò, si ebbe la conseguenza che l’imposta sui sopraprofitti venne necessariamente a cadere su ciò che non era reddito di guerra ma che invece era reddito preesistente di pace. In virtù  dei maggiori poteri inquisitori concessi alle agenzie delle imposte, queste vennero durante gli anni di guerra a conoscere molto più esattamente il reddito dei contribuenti di quanto non fosse mai accaduto prima. Mentre prima, per tornare all’esempio già fatto, non si riusciva ad accertare che 50.000 lire su 100.000, dopo si riuscì ad accertare tutte le 200.000 effettive di reddito ottenuto. Ciò fu un bene; probabilmente il vero risultato netto permanente dell’imposta. Siccome però l’imposta di guerra cade sulla differenza fra reddito ordinario «accertato» e reddito di guerra «accertato», l’imposta nuova considerò come reddito di guerra la differenza fra 200.000 e 50.000 e tassò come reddito derivante dalla guerra tutte le 150.000 lire di eccedenza sull’accertato, mentre invece il reddito vero di guerra era soltanto eguale alla differenza fra il vero reddito antico, 100.000, e il nuovo di 200.000 lire. L’imposta di guerra cadde così anche sulle prime 50.000 lire che non erano affatto connesse colla guerra. L’inconveniente di far pagare l’imposta di guerra su una somma che era viceversa reddito di pace poteva essere e fu da taluno considerato come una penalità non del tutto immeritata per la frode consumata dal contribuente nel periodo antecedente; penalità solo in parte meritata, perché come si può dire meritata una penalità quando l’amministrazione finanziaria medesima era complice della mite tassazione colla sua acquiescenza? E come si può ammettere che si istituiscano penalità senza dirlo chiaramente, come conseguenza imprevista di testi di legge non a sufficienza ponderati, per colpe passate e su alcuni soltanto dei contribuenti colpevoli? E non aveva il sistema scelto per effetto di stimolare fortemente il contribuente a resistere ai nuovi accertamenti, dandogli la convinzione di combattere per la difesa della giustizia ossia per salvare dalla sovrimposta di guerra ciò che invece era in realtà reddito di pace? Ben fece perciò il legislatore ad affermare recentemente il giusto principio che per il 1918 e 1919 i contribuenti hanno la facoltà di dimostrare che il loro reddito vero prima della guerra non era quello accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile per il 1913 e 1914. Nel caso che essi diano questa dimostrazione, per il 1918-19 l’imposta sui sopraprofitti cadrà soltanto sul di più oltre il reddito vero. Il principio è corretto in quanto che l’imposta sui redditi di guerra viene così a colpire soltanto ciò che è realmente reddito conseguente alla guerra; il contribuente è abbastanza punito della sua frode antica coll’essere indotto dal suo medesimo interesse a confessare il suo reddito permanente di pace, fornendo così al fisco la dimostrazione di essere in grado di pagare permanentemente l’imposta ordinaria di ricchezza mobile su un reddito effettivo maggiore di quello accertato nel 1913-’14. Il principio fu però applicato con esitanza ed in maniera non compiuta: se è corretto che i contribuenti siano tassati per il 1918-’19 soltanto su ciò che supera il reddito vero che essi dimostrano aver guadagnato prima della guerra, perché non dovrebbe ciò essere corretto anche per gli anni 1917, 1916, 1915-’14? Un reddito dimostrato vero non può esser vero soltanto per un anno e lo deve essere per tutti gli anni in cui si applica l’imposta. V’è contraddizione fra il considerare vera una circostanza in riflesso a certi anni e non tenerne conto invece in riflesso a certi altri. Ciò produce anche un’altra conseguenza perniciosa: che quei contribuenti i quali avrebbero potuto essere disposti a confessare i loro veri redditi preesistenti alla guerra per essere tassati giustamente nei riflessi dell’imposta sui sopraprofitti, oggi rimangono impensieriti perché quella loro confessione riferendosi indirettamente anche negli anni 1914-15, ’16 e ’17 dà in mano al fisco un’arma per tassarli ingiustamente. Il legislatore si è così arrestato a metà via, ha dato facoltà di dichiarare il vero ma solo per gli ultimi anni e non per gli anni precedenti e così ha reso quasi impossibile ai contribuenti che vorrebbero dichiarare la verità di farlo perché si esporrebbero al pericolo di dover pagare per i primi esercizi l’imposta di guerra anche su ciò che non è veramente reddito di guerra.

 

 

L’altro concetto da cui dipende l’assetto dell’imposta è quello del «capitale investito». Il nostro legislatore per capitale investito intende quello che da libri o atti regolarmente tenuti e compilati e da altre prove certe anteriori alla pubblicazione del regio decreto 21 novembre 1915 risulta come effettivamente impiegato nella produzione del reddito. La definizione è semplice e sembra sia chiara e tale da non dar luogo a controversie. Ricorderò tuttavia un punto che meritava di essere approfondito: che cosa accade per le società e in genere per gli industriali i quali hanno un capitale preso a prestito? Il capitale preso a prestito è o non è da considerarsi come capitale investito nell’azienda, produttivo di redditi, ossia quel capitale in base a cui si calcolano le percentuali? Questa è una domanda molto importante perché il congegno che ho delineato crea una contraddizione di interesse fra contribuente e fisco rispetto alla cifra del capitale investito. Il contribuente ha interesse diretto, vivissimo a gonfiare la cifra del capitale investito, perché quanto più grande è il capitale investito tanto più piccole diventano le percentuali di reddito e tanto maggiore è la probabilità che il suo reddito non abbia a superare o a superare di poco l’8 per 100; mentre invece se il capitale investito è piccolo allora è facile che il suo reddito superi l’8 per 100 e lo superi di molto e quindi una grossa parte di esso cada nell’ultima categoria dei redditi, superiori al 20 per 100 del capitale investito e debba pagare il 60 per 100 d’imposta sul suo ammontare. Il contribuente è interessato a far figurare quanto più grande è possibile il capitale investito, considerando come tale anche il capitale obbligazionario, o preso a prestito o avuto con ipoteche, cambiali, ecc.; perché crescendo il capitale investito viene a diminuire la percentuale di utile su di esso e quindi la percentuale dell’imposta. E si potrebbe con un certo fondamento sostenere che il contribuente è dalla parte della ragione, perché quando si dice «capitale investito nella produzione del reddito» non si esclude nulla di ciò che in realtà è investito a tale scopo; né si distingue fra capitale proprio del contribuente e capitale preso a prestito. Anzi la distinzione pare illogica, perché la responsabilità del proprietario dell’azienda non si limita al capitale proprio; ed è anche maggiore e più delicata rispetto ai creditori verso i quali è responsabile del rimborso di tutto il capitale preso a prestito con obbligazioni o cambiali o in conto corrente. Né l’imposta ha carattere personale e vuol colpire le diverse persone interessate nell’impresa; ma è reale e vuol colpire la maggiore o minore produttività dell’impresa come tale, astrazion fatta dalle persone che concorsero a fornire i capitali in essa investiti o dalle modalità giuridiche del conferimento. Si potrebbe quindi anche ammettere che tutto il capitale investito sia da considerarsi come tale anche se in parte è preso a prestito; tenendosi naturalmente conto in tal caso degli interessi passivi in detrazione e comprendendo questi nel reddito ordinario. Fa d’uopo riconoscere però come siffatto metodo sarebbe stato disforme da quello accolto nella legge di imposta sulla ricchezza mobile a cui i decreti sui sopraprofitti sempre fanno richiamo; nella quale degli interessi passivi si tiene conto per detrarli dal reddito proprio del contribuente, tassando i primi in categoria A (redditi di capitale puro) ed il reddito residuo in categoria B (redditi misti di capitale e di lavoro). Così si fa, per il calcolo del reddito imponibile, anche per l’imposta sui sopraprofitti; ed è logico che in tal caso non si debba far entrare le somme prese a prestito nella cifra del capitale investito. Scema così quest’ultima cifra, crescono le percentuali del reddito e cresce per conseguenza la percentuale d’imposta da pagarsi dal contribuente.

 

 

Una questione molto importante che è sorta dappertutto rispetto alla tassazione dei sopraprofitti è quella degli ammortamenti. Rispetto agli ammortamenti prima della guerra c’era giurisprudenza, una certa pratica amministrativa variabile da provincia a provincia, ma che si era in certo qual modo assodata; per esempio si ammettevano certe percentuali di ammortamento per le diverse specie di capitali: un tanto per cento per gli edifici, un tanto per cento per il macchinario, per i motori, ecc. È chiaro che le quote di ammortamento debbono essere considerate come una spesa se non si vuole tassare come reddito ciò che invece è spesa. L’imposta sui sopraprofitti pose però dinanzi nuovi problemi a questo riguardo. Erano sufficienti le vecchie percentuali, che di solito erano miti, del 2, 3, 4 per 100 colle quali si intendeva ricostituire il capitale in un periodo di tempo lungo, variabile dai 10 ai 50 anni? Bastavano queste percentuali di ammortamento rispetto ai capitali investiti nelle imprese aventi per iscopo forniture di guerra? Evidentemente no; in quanto che nuovi fatti sorgevano a rendere necessaria una modificazione delle antiche norme.

 

 

Tutti gli industriali furono costretti durante la guerra a comperare affrettatamente, ed a prezzi grandemente accresciuti in confronto agli antichi, macchinari per la produzione di armi e di munizioni, macchinari destinati, a guerra finita, ad essere deprezzati fino a valere poco più del materiale grezzo di cui sono composti. Ecco quindi la necessità di adottare periodi molto più brevi di ammortamento, ecco la necessità che il sopracosto straordinario, eccezionale dovesse essere ammortizzato nel breve periodo di tempo in cui il legislatore supponeva dovesse continuare la guerra. Questa necessità fu riconosciuta ed accolta. Si considerano infatti come passività deducibili tutte le svalutazioni e gli ammortamenti eccezionali di speciali impianti fatti per l’esecuzione di forniture di guerra, distinguendoli in tre parti: la prima è quella del sopraprezzo che a causa dello stato di guerra fu dovuto pagare per i nuovi impianti e per le trasformazioni eseguite negli impianti vecchi per la esecuzione delle forniture di guerra. Questo sopraprezzo si ammise fosse ammortizzato nello stesso anno dell’acquisto. Una seconda parte dell’ammortamento eccezionale è quella dovuta al sopralogorio. Gli impianti furono assoggettati ad una pressione produttiva molto più forte dell’ordinaria, furono affidati a maestranze meno esperte delle antiche, donde logorio più rapido, maggior facilità di guasti. Perciò si ammise che il sopralogorio fosse pure ammortizzato in un periodo di tempo brevissimo, nel periodo in cui il legislatore suppose dovesse continuare la guerra, ossia entro il 1919. Si divide quindi il sopralogorio in tante annualità quante rimangono, dall’anno dal quale si parte fino alla fine della guerra e in ognuno di quegli anni si può ammortizzare una di quelle annualità. Il sopralogorio, per presunzione generale, si intende sia eguale alla differenza fra il valore che il macchinario ha in inventario, detratto s’intende il sovraprezzo già ammortizzato a parte e il valore che si suppone l’impianto possa avere alla fine della guerra, ossia, come si esprime il legislatore, il valore attribuibile agli impianti e trasformazioni a guerra finita. Se non c’è modo di calcolare esattamente questo valore alla fine della guerra, si suppone esso sia eguale al 20 per 100 dell’effettivo costo totale. Il 20 per 100 ora detto costituisce la terza parte del valore degli impianti compiuti durante la guerra; e questa, siccome si suppone esistente ancora a guerra finita, costituisce la parte permanente del valore degli impianti stessi; e si ammortizza con le norme solite dell’ante-guerra. Trattasi di norme empiriche; ma tali che si possono considerare come abbastanza rispondenti allo scopo che il legislatore voleva ottenere, quello di non tassare come reddito ciò che era invece una spesa di ammortamento da farsi durante la guerra.

 

 

Oltre a queste deduzioni per ammortamento il legislatore ne concesse un’altra che già da lunghi anni gli industriali chiedevano ai fini dell’imposta ordinaria di ricchezza mobile, e cioè che fosse calcolata fra le spese di produzione le tasse di registro che l’industriale pagava per i contratti di appalto fatti collo Stato. La finanza partendo dalla dizione letterale della legge si era sempre rifiutata di concedere questa deduzione di spesa. Invece in regime di imposta sui sopraprofitti il legislatore aderì a che queste tasse potessero essere considerate come spese, come in realtà sono; limitando però la sua concessione alle seguenti condizioni:

 

 

  1. che i contratti di appalto fossero inerenti alla produzione del reddito;

 

  1. che della tassa il contribuente provi non essersi tenuto conto nella determinazione del reddito.

 

 

Man mano che la guerra andava avvicinandosi alla fine, un nuovo elemento prendeva sempre maggiore consistenza e doveva essere tenuto in considerazione e lo fu in effetto con un decreto recentissimo del 5 gennaio 1919. Questo elemento era la possibilità delle svalutazioni che la fine della guerra poteva produrre nelle esistenze di magazzino, ed in genere in tutto ciò che formava attività dell’azienda.

 

 

Il saldo utile di una qualsiasi azienda è una differenza fra partite attive e partite passive. Se fra le partite attive vi sono le esistenze di magazzino, che sono valutate ai prezzi gonfiati della guerra, risulta un saldo utile notevole che è tassabile, e fortemente, ai fini dell’imposta. Molte volte questo saldo utile non è realizzato, ma risulta soltanto da scritturazioni, e gli industriali si vedono davanti il pericolo di pagare l’imposta su redditi non ancora realizzati che sono soltanto la differenza fra cifre attive e cifre passive del bilancio.

 

 

Per ovviare in parte a questo danno il decreto luogotenenziale del 5 gennaio 1919 ordinò: «La imposta e sovrimposta accertata agli effetti dell’applicazione per il 1918 sugli utili che, giusta i bilanci costituenti le basi dei singoli accertamenti per l’anno stesso, risultino dalle Società ed Enti di cui all’articolo 25 della legge sull’imposta di R.M., accantonati a speciale riserva per far fronte alle svalutazioni che nell’anno 1919 potranno verificarsi sulle merci, valori e crediti, saranno quando le Società od Enti dimostrino di avere impiegato detta riserva per lo scopo per il quale essa fu costituita». Così per il 1918 gli industriali e le società industriali, i quali temono che le loro attività possano sgonfiarsi e scomparire e dar luogo magari a perdite invece degli utili che si erano immaginati, avranno diritto di mandare quegli utili ad una speciale riserva, anziché distribuirli. Se nel 1919 sarà accertato che quella riserva o parte di essa sarà stata adoperata per far fronte a svalutazioni effettivamente verificatesi nelle merci, valori e crediti, la finanza restituirà l’imposta pagata nel 1918 sugli utili che erano stati accantonati.

 

 

Norma provvida, la quale accoglie il principio da lungo tempo esposto dagli studiosi della legislazione ordinaria sui redditi mobiliari della compensazione fra redditi di un esercizio e perdite di un altro esercizio. Sarebbe però utile che, anziché applicarsi solo al 1918, pur non volendo rinvangare gli accertamenti del 1914-’15 e 1916, tenesse conto anche dell’esercizio 1917, tanto più che praticamente l’amministrazione finanziaria non ha ancora eseguito se non per casi specialissimi gli accertamenti per quell’anno e può benissimo darsi che in parecchi casi gli utili accertati per il 1917 siano destinati poi ad essere ingoiati da perdite che si verificheranno nel 1919 o magari si sono già verificate nel 1918. Sarebbe cioè desiderabile che gli accertamenti del reddito si facessero cumulativamente per tutti e tre gli esercizi. La divisione in esercizi è del resto una divisione artificiale, è una finzione nostra che ci riesce utile per regolare i conti delle amministrazioni private e pubbliche, per definire i rapporti della vita civile ed economica, ecc. In realtà la vita di una azienda industriale è una vita continuativa; il profitto e la perdita sono fatti che si possono più agevolmente constatare in una serie di anni anziché anno per anno. Nel caso nostro di una imposta che ha per iscopo di colpire i redditi ottenuti in conseguenza della guerra si dovrebbe, almeno astrattamente, colpire l’intiero profitto ottenuto in tutto il periodo di guerra cumulativamente preso, tenendo conto anche delle ripercussioni che la guerra potrà avere nel periodo successivo. La separazione in periodi è una finzione che può magari condurre a ingiustizie stridenti. Un contribuente, per fare un esempio, il quale abbia ottenuto nel primo periodo un reddito di 100.000 lire, nel secondo periodo abbia avuto una perdita di 100.000 lire, nel terzo un nuovo utile di 100.000 lire e nel quarto di nuovo una perdita di 100.000 lire in realtà ha ottenuto un reddito zero; eppure, sulla base della legislazione vigente, egli è tassato su 100.000 lire di reddito del primo e su altrettanto del terzo anno; nel secondo e nel quarto in cui ha avuto perdite, la finanza non lo tassa ma nemmeno gli rimborsa l’imposta che ha dovuto pagare negli altri anni. L’esempio ipotetico raffigura un caso estremo. Ma i casi intermedi debbono essere abbastanza frequenti. Sarebbe quindi logico che la tassazione avvenisse per tutto il periodo della guerra. Ammettiamo pure che praticamente ciò possa portare qualche inconveniente; ma indubbiamente per le tassazioni ancora da farsi, che sono quelle del 1917, del 1918 e del 1919, sarebbe opportuno fare una compensazione fra guadagni e perdite in guisa da tassare soltanto ciò che è reddito effettivo netto residuale.

 

 

L’imposta sui sopraprofitti è stata caratterizzata da norme che ai miei occhi hanno un valore superiore allo stesso valore fiscale dell’imposta come fonte diretta di entrata e come strumento di perequazione; essa è stata vantaggiosa perché ha introdotto nella nostra legislazione norme che non potranno più cadere; anzi dovranno essere in avvenire estese alle imposte ordinarie sul reddito. La prima di queste norme è quella relativa alle maggiori facoltà di indagine che l’amministrazione finanziaria ha acquistato. Mentre prima essa poteva prendere visione soltanto dei libri delle società anonime o in accomandita per azioni, adesso questa facoltà è stata estesa a tutte le altre forme di società e anche agli industriali e commercianti privati. È bastata questa maggiore facoltà di indagine data all’amministrazione perché si accertassero i redditi normali già esistenti prima della guerra in cifre notevolmente superiori a quelle che risultavano un tempo dai concordati intervenuti fra finanza e contribuente. Il vantaggio è serio e duraturo.

 

 

La nuova imposta ha pure introdotto una maggiore serietà per quello che si riferisce alle dichiarazioni dei contribuenti. La dichiarazione del reddito da parte dei contribuenti non è cosa nuova nella nostra legislazione; ma l’obbligo, in realtà, era stato scritto sulla carta ma non tradotto in atto. La nuova imposta sui sopraprofitti invece commina forti penalità per le omissioni (penalità eguale alla sovrimposta) e per le dichiarazioni difettose perché inferiori al vero (penalità uguale precisamente alla sovrimposta che avrebbe dovuto essere pagata sulla somma omessa). E queste penalità pare che non di rado siano state realmente inflitte.

 

 

Specialissime cautele furono poi prese nei riguardi dei contribuenti morosi. Invece della semplice pignorazione di beni mobili da eseguirsi in un momento in cui il contribuente aveva già provveduto a farli scomparire, invece della semplice messa all’incanto di beni che magari non esistevano, l’amministrazione fu dotata del potere speciale di far dichiarare in date contingenze il fallimento del contribuente moroso con tutte le conseguenze del fallimento, e di provocare talvolta il sequestro conservativo sulle attività del contribuente. Furono anche stabilite responsabilità molto rigide a carico di tutti coloro che potevano essere indirettamente obbligati al pagamento dell’imposta. Gli industriali, per esempio, furono dichiarati solidariamente responsabili per l’imposta dovuta dagli intermediari, di cui si servivano, sulle provvigioni ad essi dovute; cosicché l’amministrazione sapesse, in caso di insolvenza dell’intermediario, contro chi rivolgersi in linea sussidiaria. Per evitare che i contribuenti con cessioni frodolente delle loro aziende sfuggissero all’imposta fu dichiarata la responsabilità dei cessionari delle aziende commerciali ed industriali per l’imposta e sovrimposta gravante sui redditi di guerra dei precedenti esercizi, presumendo come cessionari coloro che continuavano in qualunque modo l’azienda già esercitata dal cedente ed elevando a criterio presuntivo di avvenuta cessione il semplice fatto dell’esercizio della medesima industria o commercio nei medesimi locali che prima erano occupati dal presunto cedente; così da mettere in grado l’amministrazione di esercitare la propria azione su qualcosa di tangibile nel caso si fosse fatta una cessione frodolenta. Furono anche sancite norme le quali stabiliscono la responsabilità per il pagamento dell’imposta e relative penalità degli amministratori delle società in accomandita per azioni in carica all’atto della messa in liquidazione delle società e nei 12 mesi precedenti e dei liquidatori togliendo così la possibilità di sciogliere frodolentemente le società allo scopo di far diventare inesigibile l’imposta.

 

 

È da credere che queste ottime norme rimarranno nella legislazione anche quando scomparirà l’imposta sui sopraprofitti e assicureranno una maggior giustizia e una maggiore equità nei rapporti fra contribuenti e finanza.

 

 

Dopo l’esposizione, qualche breve critica.

 

 

Rispetto agli ammortamenti si può osservare che il legislatore da un certo punto di vista è stato troppo ristretto, da un altro punto di vista troppo largo nel concederli. Ristretto nel senso che gli ammortamenti eccezionali di guerra furono concessi solo per gli impianti fatti «in contemplazione delle forniture di guerra». Lo Stato però, oltre i redditi connessi colle forniture di guerra, ha tassato anche i sopraredditi di guerra che si ottennero con imprese che non avevano nulla a che fare colle forniture; ora è ingiusto che lo Stato mentre le tassa, neghi a queste imprese il diritto agli ammortamenti straordinari che sarebbero a giusta ragione loro dovuti perché anch’esse possono essere costrette a fare impianti nuovi, a comperare macchine a costo cresciuto, ecc.

 

 

Da un altro verso il legislatore fu un po’ troppo largo nel calcolare gli ammortamenti; ciò che ebbe per effetto che gli industriali largheggiassero nel far impianti perché in molti casi i denari eventualmente risparmiati sugli impianti avrebbero dovuti darli allo Stato sotto forma di imposta. Accadde non di rado così che, coi denari che si sarebbero dovuti pagare allo Stato a titolo di imposta, si facessero impianti anche malfatti, a costo eccessivo, senza badare a risparmi. Inconveniente non piccolo perché provocò un aumento ulteriore nel prezzo dei materiali da costruzione e un impiego inutile di lavoro che avrebbe potuto essere meglio impiegato in lavori più necessari.

 

 

Un’altra imperfezione grave dell’imposta è che essa non tiene calcolo degli incrementi nello sviluppo delle imprese non dipendenti strettamente dalla guerra ma piuttosto dal progresso naturale delle aziende stesse. Suppongasi ad esempio una impresa industriale che si fosse formata nel 1910 e che nel periodo precedente alla guerra si trovasse nel periodo di formazione, di infanzia cosicché i suoi redditi fossero molto bassi. Viene la guerra; l’impresa vede i suoi redditi aumentare; ma aumentando per conseguenza della guerra o del suo naturale sviluppo? Potrebbe darsi che non la guerra, ma l’impulso precedente, la maturità sopravvenuta dell’impresa fossero la causa del crescente reddito. È vero che nella nostra legislazione è consentito al contribuente di dimostrare che, malgrado l’aumento di produzione e di commercio, il maggior reddito non deriva dalla guerra. In realtà la prova è difficilissima a darsi. Nella legislazione inglese si diede il carico ad una commissione speciale di valutare questi casi singolari, sì da valutare quale avrebbe dovuto essere lo svolgimento naturale dei redditi, astrazion fatta dalla guerra, per quelle categorie di industrie o imprese che si trovavano nel loro periodo formativo prima dello scoppio della guerra.

 

 

Ma forse l’inconveniente di maggior rilievo è dato dal congegno adottato per la misurazione dell’imposta per cui si tassa non il più del reddito, ma il di più della percentuale del reddito stesso sul capitale oltre una percentuale base. Questo inconveniente è stato perfettamente lumeggiato dal professor Seligman dell’Università di Columbia, il quale nella Political Science Quarterly del marzo 1918 scriveva: «Si può dire qualcosa a favore di una imposta progressiva sul capitale ma è difficile dire qualche cosa in difesa di una imposta la quale sia graduata progressivamente sulle percentuali variabili del reddito in confronto al capitale. Penalizzare lo spirito di invenzione e di intrapresa in una maniera assurda nel caso dell’imposta sul reddito e sul capitale, ecco la caratteristica unica della imposta sugli extra-profitti. In primo luogo, se è vero che gli extra-profitti sono talvolta il risultato, in parte almeno, dell’ambiente sociale, essi non di rado debbono essere attribuiti all’abilità ed allo spirito d’invenzione individuale. Mentre è perfettamente corretto che una parte dei profitti debba andare a favore della società, non si capisce affatto perché l’imposta debba essere graduata secondo il grado di capacità inventiva dimostrata. Ma v’è una considerazione ancor più importante da fare: quasi tutte le grandi intraprese sono cresciute da umili principii; ed è precisamente in questi umili principii che la percentuale dei profitti al capitale investito è massima. Il criterio scelto, perciò, è quello che meglio poteva proporsi lo scopo di frenare l’industria, di reprimere lo spirito di intrapresa nel suo bel principio e di conferire un vantaggio artificiale alle imprese grandi e fortemente stabilite».

 

 

Quale è il significato della critica dello Seligman? Che il sistema scelto porta a questo risultato: sono puniti o sovratassati quei contribuenti i quali riescono a far fruttare maggiormente il loro capitale. Se un contribuente è così poco abile che non riesce a far fruttare il suo capitale più dell’8 per 100 non paga imposta; un altro contribuente che colla sua abilità riesce dallo stesso capitale ad ottenere un reddito molto maggiore, paga l’imposta.

 

 

Si viene in tal modo a dare un premio a coloro che utilizzano poco i loro capitali, a coloro che con un determinato capitale riescono a far pochi affari, che col massimo sforzo ottengono il minimo risultato. Il principio fondamentale delle scienze fisiche e chimiche, della meccanica applicata, della scienza economica – la legge del minimo sforzo per ottenere il massimo risultato – viene addirittura capovolto. È poi anche probabile che l’imposta congegnata in questa maniera produca l’effetto di tassare di più le piccole in confronto delle grandi intraprese; in quanto che è più facile che una piccola intrapresa diretta da una persona che abbia capacità e spirito speculativo riesca con piccolo capitale ad ottenere un forte rendimento, essendo in essa il valore dell’opera congiunta al capitale; e allora è tassata coll’aliquota massima.

 

 

Sostanzialmente dunque l’imposta, per il modo tecnico come è congegnata, produce questi risultati: di multare coloro i quali sanno far rendere assai il capitale e di essere antidemocratica nel senso di favorire per solito le grandi intraprese e pesare fortemente sulle piccole intraprese. Questa ultima considerazione mi fornirà l’addentellato per venir a discorrere in seguito delle possibili trasformazioni dell’imposta, trasformazioni che sono chieste da varie parti in quanto si vuole che questa imposta, opportunamente modificata, duri e diventi un elemento permanente del nostro sistema tributario.

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