Opera Omnia Luigi Einaudi

L’industria elettrica ed i suoi prezzi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1934

L’industria elettrica ed i suoi prezzi

«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1934, pp. 615-618

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 302-305

Giacinto Motta, L’industria elettrica e i suoi prezzi (Discussioni accademiche), Società editrice riviste industrie elettriche, Milano, 1935, pp. 8-11

 

 

 

Il capo dell’Edison, on. Giacinto Motta, commentava l’articolo precedente nel fascicolo del novembre-dicembre 1934; ed all’autorevole commento facevo seguire alcuni appunti miei:

 

 

Sono assai grato al capo della Edison per la lucida illustrazione della sua tesi che egli cortesemente ha voluto inviare alla rivista. Se l’articolo di cui mi ero occupato nel precedente fascicolo, a tratti, per la nettezza vigorosa delle affermazioni, costringeva il lettore a chiudere gli occhi per riprendersi, la presente risposta fa sovratutto pensare. Si affollano quesiti, a cui si vorrebbe poter rispondere. Eccone, insieme con quello dei punti di raggiunto consenso, un breve elenco:

 

 

I. – Motta chiama uso del concetto dell’incidenza, quello che gli economisti dicono concetto della diversificazione o dei prezzi molteplici. Occorre avvertire che non di questo punto – pacifico e da me per l’industria elettrica esplicitamente rilevato al par. 15 – si discute ma di un altro: liberi gli elettricisti, come i ferrovieri, come i gestori di teatro di distribuire il ricavo totale dell’impresa fra le varie categorie di utenti a seconda della attitudine di costoro a pagare, il ricavo totale deve essere x ovvero x + y?

 

 

II. – Avevo riservato (al par. 7 del mio articolo) il punto della protezione doganale, di cui soffre l’industria elettrica per l’acquisto dei suoi materiali. Se perciò i costi dell’energia elettrica crebbero, crescerà il costo marginale futuro, il quale regola il prezzo dell’energia. Non vi è dissenso fra noi. Vi è solo l’augurio che gli elettricisti facciano, insieme con tanti altri (ferrovie di stato, armatori, commercianti, setaiuoli, proprietari di case, nove decimi degli agricoltori, dei professionisti, degli impiegati, degli operai) sentire alta la loro voce nelle assemblee delle corporazioni per dimostrare come, eccettuati casi rarissimi e noti e tenuto conto della gradualità della mutazione, l’apertura delle frontiere alle merci estere collimi con l’interesse generale. I più, che sono i danneggiati, reputano solitamente utile accodarsi ai meno, avvantaggiati dalla protezione doganale, perché sperano di ottenere “compenso” o di prender parte al banchetto. Pura illusione. I danni si rimbalzano, non si compensano. L’unica via di uscita è affermare la esistenza del danno e chiederne la fine.

 

 

III. – Nessuno di noi due capisce che cosa sia il “giusto” prezzo.

 

 

D’accordo. Adopero quell’aggettivo per disperazione, quando non so come fare per esprimere in termini volgari il concetto d’un prezzo che esisterebbe sul mercato se si verificassero tutte le condizioni solite a postularsi in ipotesi di perfetta concorrenza. Poiché anche un industriale di gran marca, come il capo dell’Edison, non lo gusta, mi farò coraggio a non adoperare più l’aggettivo equivoco.

 

 

IV. – Il concetto del costo di produzione passato è abbandonato a favore di quello del costo di riproduzione. Un solo limite pare posto al gran passo innanzi compiuto così sulla via della chiarificazione: se l’impresa deve sopportare oggi le conseguenze di variazioni «nelle condizioni monetarie e generali maturatesi all’infuori della sua propria azione diretta e specialmente maturatesi per volontà dello stato», essa ha diritto ad un risarcimento. Motta pare metta una riserva alla riserva: l’impresa deve essere stata “obbligata” ad assumere costi oggi sproporzionati alle nuove condizioni del mercato.

 

 

Motta non è solo nel sostenere la tesi del risarcimento. Sir Josiah Stamp, economista di cartello e presidente della maggior compagnia ferroviaria britannica, ha sostenuto una tesi somigliante, teorizzandola sotto forma di teoria del freno ai mutamenti economici. Il problema è grave; e meriterebbe d’essere discusso in tutta la sua ampiezza. Esiste un criterio e quale della “necessità” sociale di antivedere con impianti attuali la domanda futura? Quali industrie possono esimersi dalla necessità di far piani per l’avvenire? È possibile fare impianti adeguati solo alla domanda presente e non è dunque sempre necessario – poiché non si parla di obbligo legale, necessità pare sia sinonimo di assurdità di operare diversamente – guardare anche all’avvenire? Esiste, postulato e definito lo stato di necessità indennizzabile, una maniera d’indennizzo, la quale non produca danni maggiori di quelli a cui vuolsi riparare? Quali cioè sarebbero le conseguenze di provvedimenti, evidentemente non limitabili all’industria elettrica, che in qualche modo indennizzassero gl’imprenditori per le conseguenze di mutazioni economiche? Rivalutazione della lira e rivalutazione dell’oro non sono forse casi particolari del genere “variazione economica”?

 

 

Quali, accanto alle conseguenze dirette, gli effetti più vasti e più larghi del sistema dei risarcimenti degli effetti dannosi delle variazioni economiche e dei freni alle novità? Taluno, non Motta, vuole tassare le macchine nuove per salvaguardare gli impianti vecchi. La mente si perde nel contemplare l’avvenire del mondo frenato da indennizzatori, assicuratori, tassatori. La scienza economica parlò sempre di abbondanza come qualcosa di preferibile alla carestia. La “politica economica” sarebbe la teoria di quest’ultima? La variazione dovuta all’”azione diretta” dell’impresa può distinguersi da quella maturatasi fuori dall’azione medesima e per volontà dello stato? Chi operò in un dato ambiente giuridico ed economico non deliberò volontariamente di così operare? Non assume perciò la piena responsabilità del suo operato?

 

 

V. – Dissi che, se esiste monopolio, è opinione quasi pacifica che lo stato deve imporre un prezzo uguale a quello che esisterebbe se concorrenza ci fosse. Motta osserva che nell’industria elettrica non esiste monopolio. Non v’ha contrasto fra le due proposizioni.

 

 

La prova addotta dal Motta del non esistere monopolio elettrico è tuttavia perfetta? Basta osservare che gas, carbone, nafta ed altri strumenti di produzione di luce, calore e forza fanno concorrenza all’energia elettrica per dedurre l’esistenza di uno stato di concorrenza? Se la forza motrice a nafta è offerta, ad ipotesi, ad 1,20 e se l’identica forza da energia elettrica costa al margine 1 e si vende invece ad 1,20 – per definizione non può vendersi a più di 1,20, se con qualche espediente, che gli elettrotecnici dovrebbero bene sapere formulare, abbiamo ridotto ambedue le forze allo stesso comune denominatore per quanto riguarda comodità, costanza, periodicità, ecc., ecc., – che cosa sarà la differenza fra il costo marginale 1 ed il prezzo 1,20? Non una rendita dei produttori migliori di quello marginale, perché tutte le rendite di posizione, di abilità, ecc., sono già comprese nel costo marginale 1 (par. 17 del mio articolo). È impensabile forse il caso di un paese o di una zona straordinariamente prediletta da Dio, in cui il costo marginale della energia elettrica sia, suppongasi, 0,40, laddove il prezzo di concorrenza, determinato cioè dalla potenziale concorrenza del carbone, del gas, della nafta, ecc., sia 1,20? Esisterebbe o non esisterebbe, in questo caso, una situazione monopolistica a favore dell’industria elettrica? È dunque l’esistenza della concorrenza del carbone, del gas, della nafta un connotato per sé bastevole ad escludere l’esistenza di un monopolio elettrico?

 

 

Su un punto mi ritengo sicuro di conseguire il consenso dei lettori: le osservazioni “pratiche” o di “politica economica” di coloro che vivono l’industria hanno gran parte nel progresso dell’indagine teorica, assai più gran parte di quanta non immaginino i pratici medesimi, sempre paurosi di essere creduti capaci di far teoria. Esse stimolano l’indagine teorica perché suscitano il dubbio, unica e vera matrice della verità, costringono gli studiosi a porsi quesiti, a ritornare su principî noti ed a tentare di perfezionarli. Che cosa è concorrenza e che cosa è monopolio? Ci fa chiedere Motta. Perché gli studiosi italiani, che tanto hanno dato alla scienza anche su questo punto, oggi paiono lasciare ad inglesi e ad americani lo studio della concorrenza imperfetta o del monopolio a metà? I dubbi astratti che fa sorgere la dialettica vivida di Motta dimostrano che al di là delle astrazioni dell’economica pura ci sono problemi concreti di fondamentale importanza per l’economia del paese. Ma i problemi concreti non si risolvono se non passando attraverso al tormento delle pure astrazioni.

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