Opera Omnia Luigi Einaudi

L’Italia a Ginevra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/09/1924

L’Italia a Ginevra

«Corriere della Sera», 11 settembre 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 844-848

 

 

 

Le manifestazioni dei delegati italiani a Ginevra meritano di essere seguite attentamente dall’opinione pubblica, sia per il contributo positivo che esse danno, sia per la visione generale del problema che da esse risulta. Il contributo positivo è certamente grande. Di fronte a MacDonald ed Herriot i quali sono sovratutto due uomini politici, Salandra e Schanzer, i quali sono, oltre che politici, giuristi eminenti, hanno introdotto nella discussione il punto di vista giuridico. Senza dubbio la politica dà la sostanza, mentre il diritto dà la forma; ma nessun principio politico può trasformarsi in azione, senza che la formula giuridica l’abbia investita e l’abbia trasformata in norma imperativa.

 

 

Se l’Italia riannodandosi alle grandi tradizioni del Risorgimento, che si impersonano, come ben ricordò Salandra, nei due nomi di Mancini e di Sclopis, riuscirà ad imprimere all’opera grandiosa di cui si sono incominciate a gettare le fondamenta a Ginevra, il suggello giuridico, essa avrà collaborato al raggiungimento del risultato non meno e forse più di qualsiasi altra nazione partecipante alle assise ginevrine.

 

 

Detto così il nostro apprezzamento sul contributo principale che i delegati italiani hanno il merito di dare alla discussione dell’arbitrato e della sicurezza, giova augurarci che essi vogliano altresì far propria con entusiasmo la causa alla quale, più di ogni altro, essi sono chiamati, per la natura del loro ingegno e la tradizione del loro paese, a dare la veste formale. Qualche dubbio a tale proposito potrebbe sorgere dalla lettera di taluna loro recente dichiarazione. Quando si legge, ad esempio, che Salandra dichiarò il voto sulla mozione concordata MacDonald-Herriot essere stato dato all’unanimità soltanto perché nulla decideva, può nascere il dubbio che il primo delegato italiano sia soddisfatto della mancanza assoluta di significato del voto, quasiché in tale modo sia allontanata la possibilità di una decisione positiva. È quando il secondo delegato Schanzer insiste nel suo discorso per mettere in luce i pericoli dei trattati particolari, la inutilità di patti nuovi di mutua garanzia, l’onerosità di nuovi meccanismi di pace, la necessità di non risolvere parzialmente il problema, ma di dare ad esso una soluzione unitaria, anche qui può nascere l’impressione che il delegato italiano si sia appressato al problema con spirito scettico. I dubbi sono certamente infondati, poiché le contemporanee dichiarazioni di voler collaborare all’iniziativa dell’arbitrato e del disarmo, dimostrano che le parole caute dei delegati italiani non devono essere interpretate nel senso che essi ritengano assurda o quasi impossibile la meta propostasi, ma intendano soltanto mettere in luce tutti i punti meritevoli di essere discussi affinché più sicuro sia il passo sul cammino da percorrersi, e se pure più lento, risulti immancabile il raggiungimento dello scopo.

 

 

Due sono i punti concreti su cui sembra che la delegazione italiana abbia specificatamente richiamato l’attenzione della Società delle nazioni: i trattati particolari e la natura delle questioni da assoggettarsi ad arbitrato.

 

 

Intorno ai trattati particolari l’on. Schanzer ha sostenuto che i trattati particolari non possono formare oggetto di garanzia da parte della Società delle nazioni, né possono costituire parte integrante di un trattato generale. Probabilmente l’on. Schanzer ha voluto con ciò affermare ovviamente che gli altri stati aderenti alla Società delle nazioni non possono restare garanti della esecuzione dei trattati speciali, sia pure approvati dalla Società medesima, che piaccia a taluni di essi stipulare a mutua difesa.

 

 

Così tuttavia non si tocca il fondo del problema dei trattati speciali. Questi sono stati concepiti come un modo di dare agli stati minacciati da aggressione, quella sicurezza che il semplice arbitrato per se stesso non può dare. Finché la Società delle nazioni non sia diventata un superstato, con esercito proprio e finché quest’esercito non sia superiore di forze a quelle di qualunque aggruppamento dei singoli stati sovrani – e noi siamo lontanissimi da tale meta, se pure questa è una meta – si porrà il problema: come potrà lo stato debole difendersi dagli assalti di uno forte deciso a passare sopra alle regole internazionali? Sia lecito, rispondono i difensori dei trattati particolari, a due o più stati di manifestare con un pubblico trattato il loro intento di difesa, di chiarire al consiglio della Società delle nazioni come il patto particolare non abbia in sé nessuna caratteristica aggressiva, e di farlo registrare perciò presso la segreteria della Società medesima. Non forse l’on. Salandra nella grande seduta dei discorsi dei primi ministri, affermò che di non pochi trattati particolari registrati presso la Società delle nazioni «di carattere territoriale, politico ed economico» l’Italia aveva il vanto di essersi fatta iniziatrice in questi ultimi anni?

 

 

Al postutto, il privilegio degli stati contraenti trattati particolari, non è, come sembra ritenere lo Schanzer, quello di poter muovere guerra senza il consenso della Società delle nazioni mentre gli stati privi di trattati, dovrebbero prima chiedere questo consenso. La differenza consiste invece, o può essere ridotta a consistere, come in sostanza afferma il progetto americano, in ciò che, affermato prima, dalla corte permanente di giustizia, lo stato di aggressione, possano gli stati stretti da trattati particolari senz’altro difendersi colle armi contro l’aggressore, mentre negli altri casi ogni stato dovrebbe procedere alla difesa con le sue sole forze, e correre il rischio del ritardo nella stipulazione di trattati con gli altri stati i cui interessi fossero comuni. Il problema non facile potrà essere certo ponderatamente esaminato, ma non sembra possa essere un ostacolo alla stipulazione di un trattato di arbitrato e di sicurezza. Lo scopo degli ideatori del sistema di trattati speciali è in se stesso lodevole: quello di dare un premio, non fosse altro che di pochi giorni nell’inizio della difesa agli stati i quali avessero reso pubblici i loro trattati reciproci, e si fossero acconciati a stipularli secondo norme ritenute opportune da un corpo in cui tutte le nazioni sono rappresentate; un premio alla pubblicità dei trattati, alla loro subordinazione ad intenti di pace. È un avviamento alla attuazione dei sistemi di arbitrato. Le modalità possono essere discusse, ma la necessità di trovare la soluzione non è contestabile.

 

 

Parimenti non è contestabile la necessità di trovare una via per rendere l’arbitrato una cosa seria. Finché si discute quali questioni possano essere assoggettate ad arbitrato, si rimane lontanissimi dalla meta. Le guerre si sono sempre scatenate col pretesto che il contrasto sorto fra due stati, non era uno di quelli i quali potevano essere sottoposti ad arbitrato, ma toccava invece l’esistenza e l’onore degli stati interessati; e poiché arbitro di che cosa sia un problema interessante l’esistenza e l’onore di uno stato non può essere un’autorità superiore allo stato medesimo, l’arbitrato falliva nel momento in cui diventava più necessario. Se si vuole raggiungere un risultato effettivo, giuocoforza è rendere l’arbitrato generale in tutti i casi, anche in quelli per cui potrebbe ritenersi in gioco l’esistenza o l’onore dello stato. Può darsi che a una soluzione non si arrivi, ma ogni sforzo deve essere fatto, alfine di spostare la discussione da questo che è un punto morto, non suscettivo di risoluzione, allo studio dei mezzi con cui si possa attribuire alla corte suprema di giustizia, tale autorità e tale imparzialità, che nessuno stato possa mai dubitare che la sua esistenza ed il suo onore possano essere ingiustamente conculcati da una sentenza della corte. La meta potrà essere ardua, ma, se si può raggiungere, può esserlo soltanto da uomini i quali si accingano all’aspro cammino con fede e con entusiasmo.

 

 

Non certamente l’Italia può assumere la responsabilità tremenda di far naufragare l’iniziativa nel momento in cui l’occhio di tutte le nazioni del mondo è fisso su Ginevra. Forse in Italia non abbiamo ancora una idea chiara della forza morale che in questi anni dopo il 1919 è venuta raccogliendosi nella assemblea della Società delle nazioni. Qualunque sia la ragione del fatto, certo è che il fatto sussiste. Sovratutto tra le nazioni minori la sua popolarità e la sua autorità sono grandi e crescenti. Gli stati appartenenti alla comunità britannica guardano talvolta più a Ginevra che a Londra. Vi sono stati, da noi volgarmente chiamati «colonie» britanniche, i quali hanno fatto registrare a Ginevra le convenzioni stipulate con la madre-patria. Vi sono giornali autorevoli, i quali, nell’ordine sistematico secondo cui dispongono le corrispondenze dei paesi esteri, inseriscono sempre per le prime quelle provenienti da Ginevra, come sede della Società delle nazioni.

 

 

A questo movimento che oggi è sovratutto morale, ma sta già diventando politico ed economico, manca finora un «leader» tra i grandi stati. Gli Stati uniti sono assenti; l’Inghilterra è preponderante, ma un po’ troppo padrona; la Francia influentissima, ma guardata con sospetto dagli amici della Germania. L’Italia, la quale ha raggiunto i suoi fini nazionali ed ha stipulato trattati di amicizia e di alleanza con i suoi vicini, ha, ancora oggi, la possibilità di conquistare una grande posizione morale e politica.

 

 

Dicevamo in principio che il contributo formale giuridico è per se stesso importantissimo. Ma quale ben maggiore valore storico la collaborazione nostra acquisterebbe, se l’Italia si presentasse in prima linea come banditrice del nuovissimo patto di pace romana tra le nazioni del mondo?

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