Opera Omnia Luigi Einaudi

L’Italia a Washington

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 20/10/1925

L’Italia a Washington

«Corriere della Sera», 20 ottobre 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 511-515

 

 

 

La partenza della missione italiana per Washington è la dimostrazione parlante del sentimento del dovere di cui popolo e governo italiano vogliono dar prova nella risoluzione del problema dei debiti interalleati. C’è anzi qualche cosa di più del sentimento del dovere in quest’atto solenne; poiché se si trattasse soltanto di soddisfare al dovere morale, tante sono le ragioni di giustizia e di equità le quali ci assistono nella convinzione della natura particolare dei debiti di guerra, che ben potremmo esitare nell’imbarcarci in una discussione, la quale esige il riconoscimento preliminare della esistenza del debito, quasi fosse un debito commerciale, da trattarsi con i criteri di uomini di affari, «a business proposition», come amano dire gli americani. L’Italia ubbidisce, nell’inviare una missione in America, ad un vero imperativo categorico, al comando della lettera del contratto che si vuole osservare ad ogni costo, poiché l’onore della nazione è impegnato nell’osservanza della firma apposta ad un documento di debito, non importa da quali cause il debito discenda.

 

 

Gli americani sanno tuttavia quali rigidissimi limiti siano posti all’Italia in questo tentativo di onorare la sua firma. Essi, i quali hanno posto il principio che ogni nazione sarà chiamata a pagare in proporzione alla sua capacità di pagamento, sono ben preparati ad apprezzare le dimostrazioni inoppugnabili di cifre e di fatti che la missione italiana si appresta a dare. Il fallimento della missione francese non deve far dubitare gli americani intorno alla convenienza di adeguarsi alle necessità italiane, scendendo al disotto di quelle che furono le loro minime esigenze di fronte alla Francia. Troppe sono le circostanze differenziali le quali persuadono a ritenere che un trattamento apparentemente di favore per l’Italia non debba essere considerato come un precedente pregiudicevole agli Stati uniti in occasione della futura ripresa delle trattative con la Francia. Quali sono i vantaggi economici ottenuti dall’Italia in virtù della pace? Non colonie, salvo alcune minime rettifiche di confine, laddove la Francia si arricchì di opimi dominii e mandati a spese della Germania. Non acquisti di materie prime, mentre la Francia divenne con la Lorena ed il bacino della Saar la produttrice egemonica del ferro in Europa. Le province che l’Italia ebbe appartenevano, ad eccezione del porto di Trieste, a quelle regioni che l’Austria nel suo burocratico linguaggio amava chiamare passive. Noi che non calcoliamo l’appartenenza territoriale a soldi e danari, ma in ragion di sangue e di lingua, siamo fieri di avere riabbracciato le patriottiche popolazioni tridentine e triestine; ma ben possiamo ricordare ai nostri creditori che al desiderio nostro di integrare l’Italia nei suoi confini naturali non ci mosse alcun interesse economico e che ben sapevamo che il bilancio dello stato doveva assoggettarsi a non lievi sacrifici affinché la patria potesse rallietarsi per i nuovi fratelli chiamati al suo seno.

 

 

L’Italia ha il bilancio in pareggio, laddove il bilancio francese stenta a ritrovare l’equilibrio; ma forse non vi è punto su cui la missione italiana sia senza fallo più riccamente documentata di questo: essere la riconquista del pareggio dovuta agli sforzi perseveranti e penosi fatti dal contribuente italiano in una misura che, fatta ragione alla diversità delle fortune individuali, non trova riscontro, nonché in Francia, certamente non nell’Inghilterra e negli Stati uniti.

 

 

Su un punto importantissimo la dimostrazione italiana riuscirà certamente impressionante: e cioè l’incapacità dei trasferimenti. È ben noto che un paese può bensì obbligarsi a pagare una data somma; e che i contribuenti possono, se esiste ancora qualche margine di tassazione, essere chiamati a pagare imposte fino a quella somma. Per esempio, il ministro delle finanze italiane imposta da anni circa 1.200 milioni di lire, nel bilancio preventivo per il servizio dei prestiti inglese ed americano. Trattasi di impostazioni teoriche, alle quali non fece seguito alcun pagamento effettivo: dimostrazioni della buona volontà e del sentimento del dovere rigidamente inteso da parte nostra. La cifra può essere ricordata dai creditori come la prova che, fino a concorrenza di 1.200 milioni di lire all’anno, il bilancio italiano può, senza nuovo onere dei contribuenti, sobbarcarsi a fare il servizio dei debiti interalleati. Ma un conto è per lo stato ottenere 1.200 milioni di lire dai contribuenti italiani, e un altro conto è trasferire così ingente somma all’estero. Infatti trasferire non si può se non esiste una bilancia dei pagamenti internazionali favorevole. Trasferire vuol dire esportare merci all’estero, ricevere rimesse di emigranti e fruire di spese di forestieri per una somma superiore per 1.200, 1.500 o 1.800 milioni di lire al valore delle merci importate dall’estero, della differenza passiva dei noli della marina mercantile e delle altre ragioni di debito nostro verso l’estero. Se non si trasferisce oro, altro non rimane che trasferire merci, o servizi resi da emigranti od a forestieri senza ricevere «collettivamente» alcun compenso. L’Inghilterra paga e trasferisce perché ha trovato nella bilancia dei suoi pagamenti il margine necessario. Questo margine, che era di 240 milioni di sterline all’anno, sopportava agevolmente i pagamenti all’America e lasciava un’eccedenza da impiegare all’estero. A poco a poco il margine residuo, dopo i pagamenti americani, si è ridotto a 120, a 30 e pare che in quest’anno 1925 sarà nullo.

 

 

Per la prima volta forse da cinquant’anni l’Inghilterra non impiegherà nel 1925 neppure una sterlina di risparmio fresco all’estero. Il fatto nuovo basta per destare nei suoi reggitori e nelle sue classi dirigenti una grande inquietudine; ed è spiegazione non ultima dell’accanimento nuovo con cui gli inglesi chiedono all’Italia ed alla Francia di iniziare il servizio del loro debito. Temono che, seguitando di questo passo, la bilancia dei pagamenti negli anni venturi si chiuda in spareggio.

 

 

L’Italia, è cosa notissima, non può «trasferire» nulla, perché la sua bilancia dei pagamenti, dopo essere rimasta nel dopo guerra per parecchi anni largamente passiva solo da qualche anno era in equilibrio, e nel 1925 pare sia ridivenuta fortemente passiva. Dati precisi, che la missione italiana ha elaborato con ricchezza, non sono in possesso del pubblico. Basti rilevare dal conto del tesoro questo solo dato significativo: che nei primi sette mesi del 1925 la eccedenza delle importazioni (pagamenti) sulle esportazioni (riscossioni) è stata di 6.315 milioni di lire contro 3.387 milioni nel corrispondente periodo del 1924. Se a mala pena noi coprivamo i 3.387 milioni con le altre nostre fonti attive e principalmente con le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri, è assurdo pensare che si riesca a coprire la ben maggior differenza di 6.315 milioni dell’anno corrente.

 

 

Non perciò noi disperiamo delle cose nostre; ché siamo certi di riuscire a superare quante difficoltà ci si parano innanzi. Tuttavia l’Italia non può impegnarsi a priori ad effettuare trasferimenti che superano evidentemente la sua potestà, tanto varrebbe consentire ad un programma di disordinamento dei nostri cambi, programma lontanissimo anzi contrario ai propositi del governo ed, osiamo dire, contrario altresì al desiderio dei creditori.

 

 

Né questi, per sormontare la difficoltà dei trasferimenti, possono offrire semplicemente di essere pagati, senza trasferimento effettivo, con l’apertura di nuovi crediti da parte loro allo stato ed a privati italiani. Con ciò il debito non sarebbe estinto, ma semplicemente novato. Al posto di un grosso debito politico, da stato a stato, senza titoli negoziabili, sottentrerebbe una serie di prestiti statali, sorgenti da emissioni di titoli tra il pubblico americano, titoli negoziabili e portanti un interesse uguale al saggio corrente. Ovvero il governo italiano pagherebbe; ma contemporaneamente capitalisti americani mutuerebbero ad italiani somme pressoché identiche o superiori, cosicché il pagamento italiano sarebbe compensato da un pagamento americano e non si farebbe luogo ad alcun trasferimento effettivo di fondi.

 

 

L’ipotesi, ventilata teoricamente in circoli non ufficiali, non è certamente quella da cui parte la missione italiana. La quale ha un programma netto ed onesto: promettere di pagare soltanto ciò che l’Italia può pagare; evitare le promesse impossibili a mantenersi e quelle che diventerebbero in breve volger d’anni troppo pericolose all’indipendenza economica italiana. La soluzione di pagare il debito di guerra con altri prestiti statali o privati può forse essere desiderata o gradita ai capitalisti americani, i quali si impadronirebbero così delle migliori imprese italiane, diventandone creditori od azionisti o compartecipanti. Non può essere il programma nostro; poiché, se si deve continuare ad essere debitori, meglio essere debitori di uno stato, possessore di un titolo di credito non negoziabile, piuttostoché di privati possessori di titoli pubblici o privati, suscettivi di essere gettati sul mercato a deprimere il credito nazionale.

 

 

Arduo e patriottico è dunque il compito della missione italiana: far presente ai negoziatori americani i limiti infrangibili della nostra capacità di pagare e di trasferire. La missione parlerà il linguaggio della verità e della giustizia. E noi siamo sicuri di fare ad essa il migliore augurio, auspicando successo al preciso, fermo, documentato discorso che essa terrà in nome dell’Italia.

 

 

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