Opera Omnia Luigi Einaudi

Lo sciopero degli operai dei cantieri navali liguri

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/01/1901

Lo sciopero degli operai dei cantieri navali liguri

«La Stampa», 12 gennaio 1901[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 310-314

 

 

Un’altra volta, nel breve spazio di un mese, Genova marinara attrae l’attenzione del paese. Ieri gli operai del porto scioperavano contro un provvedimento prefettizio ritenuto da essi lesivo dei loro diritti di libera associazione. Oggi gli operai dei cantieri navali di tutta la riviera ligure sono costretti allo sciopero forzato perché il lavoro manca, perché nuove ordinazioni di navi più non giungono ed i cantieri devono uno dopo l’altro, – dopo aver fatto inutili sforzi per conservare la maestranza antica, – indursi a licenziare a mano a mano le squadre operaie divenute sovrabbondanti.

 

 

La passione di parte ha già dettato giudizi precipitati sulla crisi dell’industria navale ligure. I giornali radicali e socialisti accusarono i proprietari di una cospirazione intesa a forzare la mano al governo per indurlo a ritirare il progetto di legge restrittivo dei premi alla marina mercantile. Si ripete ora il gioco, riuscito bene tante volte agli industriali, di far passeggiare tumultuosi per le vie della città i loro operai gridanti: Abbasso le imposte! Vogliamo pane e lavoro! E si spera che il governo, impaurito alla vista delle dimostrazioni popolari, cederà ora, come ha ceduto spesso nel passato.

 

 

D’altra parte non mancano giornali protezionisti i quali fanno risalire la colpa della disoccupazione operaia ligure all’avarizia del governo, il quale, dopo aver promesso forti premi ad incoraggiamento del lavoro nazionale, adesso rifiuta di mantenere gli impegni assunti, e costringe gli industriali a gittare sul lastrico gli operai chiamati a raccolta negli industri opifici della riviera dalle promesse della legge. E si aggiunge non essere codesto il metodo migliore per creare nuove ricchezze e diffondere il lavoro nel paese; ed essere sommamente perniciosa l’azione governativa, abilissima sempre a colpire di nuove imposte le iniziative promettenti e pronta del pari a ritirare quel timido aiuto che a novelle industrie avea dato nascimento.

 

 

Non crediamo che né i radicali né i protezionisti si trovino dalla parte della ragione quando parlano il linguaggio sovra riferito.

 

 

Non i radicali, perché davvero non si può far colpa agli imprenditori se licenziano gli operai quando il lavoro difetta; ed in Liguria le ordinazioni sono davvero cessate del tutto. L’industria non può esercitarsi per filantropia; e pessimo imprenditore devesi dire chi continua a produrre a perdita, quando non vi è la speranza di futuri guadagni che valgano a risarcire le momentanee perdite.

 

 

Non i protezionisti, perché il lavoro non si crea, ma si diminuisce colle largizioni governative. Quelle sole industrie sono degne di vita, le quali vivono di una vita spontanea senza d’uopo di attingere ai favori dello stato, ossia senza d’uopo di tassare a proprio beneficio i contribuenti. Chi vuol produrre grano od olio o formaggio o navi è padronissimo di far ciò, ma non deve poter imporre a nessuno di comprare le sue merci e non deve poter costringere i contribuenti a pagargli un sussidio perché egli possa continuare a fabbricare grano o navi ad un costo superiore al prezzo risultante dalle libere contrattazioni del mercato. Noi non crediamo che lo stato possa – operando giustamente – concedere questi sussidii, perché in tal modo lo stato non adempie ad alcuna delle sue funzioni di difesa, di sicurezza o di alta tutela giuridica, ma toglie agli uni (contribuenti) per dare agli altri (sussidiati), ossia compie uno spostamento gratuito di ricchezza da una persona ad un’altra.

 

 

Un giudizio sereno e spassionato – ugualmente lontano dalle vedute passionali dei partiti estremi e dei protezionisti – intorno all’attuale questione ligure, si può formare quando si gitti un rapido sguardo alla storia della protezione della marina mercantile in Italia.

 

 

Vent’anni fa la marina mercantile italiana giaceva in assai basso loco, sovratutto per la ostinazione a fabbricare navi di legno a vela e per la inesistenza di grandi cantieri atti alla produzione dei grossi piroscafi moderni. A rialzarne le sorti venne la legge del 1885 la quale istituì per un decennio premi per la navigazione e per le costruzioni e le riparazioni di navi. Fu scarso l’effetto della legge. Quantunque lo stato nel periodo 1886-95 pagasse 36.622.496 lire di premi, le costruzioni da 11.421 tonnellate nel 1886 salirono a 29.784 nel solo anno 1891 per ricadere nel 1895 a 6.750 tonnellate.

 

 

Parve quindi necessario aumentare i premi, ritenuti insufficienti; e con una legge in data 23 luglio 1896 si aumentò notevolmente la misura dei premi. Crebbe allora rapidamente il tonnellaggio prodotto; e passò da 6.606 tonnellate nel 1896, a 11.458 nel 1897, a 19.478 nel 1898, a 33.802 nel 1899, ultimo anno per cui esistono cifre ufficiali. Lo scopo immediato della legge sembrava raggiunto. Nuove e maggiori costruzioni si effettuarono nel 1900 e si annunciavano per il 1901 e gli anni successivi.

 

 

Purtroppo l’impulso vivissimo dato alle costruzioni marittime era un lato solo del problema. L’altro e gravissimo lato del problema consisteva nel costo con cui quell’impulso era stato ottenuto.

 

 

L’onere del bilancio dello stato, contenuto entro limiti non stravaganti sino al 1899, prese dopo quell’anno proporzioni paurose per ogni finanziere tenero dell’equilibrio fra le spese e le entrate. Nell’esercizio 1900-901 si preannunciava una spesa di 16,5 milioni di premi; e la spesa cresceva a 17,3 milioni nel 1901-902, a 19,8 milioni nel 1902-903, a 22 milioni nel 1903-904, a 24,4 milioni nel 1904-905 ed a 26,6 milioni nel 1905-906, ed in tutto si calcolava una erogazione complessiva dello stato di ben 330 milioni.

 

 

Il risultato – prevedibile a chiunque conosca i funesti effetti del protezionismo economico – a cui si era giunti non era davvero lieto. Si era bensì creata un’industria nuova in Liguria; ma era un’industria artificiale, vivente sulle largizioni dello stato, minacciosa all’equilibrio del bilancio, e causa di miseria per i contribuenti, costretti a pagare imposte cresciute per poter versare nelle casse governative i 330 milioni destinati a diffondere prosperità in alcune classi sociali della Liguria.

 

 

Come sempre accade, le leggi fondate sull’ingiustizia non possono a lungo durare. Ai governanti fu giocoforza emanare nuovi decreti-legge – contraddittori fra di loro e variamente giudicati – di cui l’ultimo porta la data del 16 novembre 1900, per porre un freno alla fiumana crescente dei premi sanciti dalla legge del 1896, fiumana che minacciava in breve ora di sommergere le finanze dello stato. Così quella legge protettiva, che aveva voluto condurre ad alta meta l’industria marinara italiana, doveva spezzarsi quando appunto lo scopo sembrava felicemente raggiunto.

 

 

La crisi nei cantieri navali fu dunque una conseguenza necessaria di quel fatto medesimo che li aveva creati; e non poteva essere altrimenti. Quando un’industria vive coi sussidi largiti da terzi, se costoro diventano incapaci a pagare il promesso sussidio, deve o trasformarsi o morire. Opporsi a codesta inevitabile crisi sarebbe volere cagionare a breve scadenza un nuovo male peggiore del disquilibrio attuale. Fra qualche anno ci ritroveremmo nella medesima situazione, forse peggiorata. Se ancora si pagassero i premi, nuovi cantieri sorgerebbero, e fra qualche anno, quando le finanze esauste si rifiutassero a continuare i sussidi, la crisi scoppierebbe più vasta.

 

 

Poiché dunque non vi è rimedio, – o perché è socialmente ingiusto continuare nel sistema attuale di premi pagati dalla generalità di contribuenti ad un piccolo gruppo di produttori, -meglio è che la crisi scoppi subito. Ogni ritardo non può che crescere il danno. Se la crisi è inevitabile, è dovere di tutti, e specialmente del governo, di non aumentare il male per se stesso già grande. Una causa principalissima per la quale oggi difettano le ordinazioni di navi ai cantieri liguri è il fatto che, mentre si sa essere intenzione del governo di non più pagare gli elevati premi antichi, si ignora se e quali nuovi premi vorrà pagare pel futuro.

 

 

Per l’industria nulla vi è di più pernicioso che l’incertezza. È meglio sapere subito che non si riceverà magari nulla piuttosto che essere incerti se si riceverà 1 o 5 o 10 o 20. «Questo stato di incertezza – è il ministro Morin che così parla nella sua relazione sul decreto – legge ultimo – riesce molto dannoso per le industrie marittime, perché impedisce le conclusioni di affari fra armatori e costruttori, come prova il fatto che nessuna dichiarazione di costruzione di una certa importanza venne prodotta dopo la presentazione del disegno di legge. Onde i cantieri, a misura che esauriscono le commissioni fin qui ricevute, vengono a mancare di lavoro, soggiacendo ad una crisi, le cui conseguenze economiche e sociali potrebbero riuscire gravi per il paese».

 

 

La parola è dunque ora al parlamento.

 

 

Urge legiferare per modo che tutti gli interessati sappiano quali conti debbono fare. Lasciando da parte ogni considerazione sulla bontà della ventura legge, è d’uopo sostituire una legge certa e nota al presente limbo di decreti-legge, che si inseguono nella penombra e che a nessuno sembrano vitali.

 

 

Né qui sono finiti i doveri del governo.

 

 

Questo non può rimanere sordo al fatto che l’industria delle costruzioni navali male lotta contro la concorrenza estera, perché deve comprare a caro prezzo le materie prime di acciaio, di ferro e di legno, a causa dei dazi protettivi di frontiera. «Togliete i dazi sui materiali, e noi non vi chiederemo premi di costruzione», hanno detto alcuni costruttori liguri. Ed han parlato giusto.

 

 

Occorre avere il coraggio di adottare le proposte della giunta del bilancio ed abolire i dazi d’entrata sui materiali da costruzione. Sarà un grave colpo per l’industria metallurgica; ma sono già troppi i milioni che essa ha estorto al pubblico italiano perché si debba aver timore di fare cosa inopportuna togliendole una parte della protezione di cui essa gode.

 

 

Da questa abolizione dei dazi di frontiera sui materiali da costruzione trarranno non dubbio giovamento i cantieri liguri; e potrà lenirsi alquanto la crisi odierna, sovratutto se continueranno per qualche tempo ancora gli elevati noli di trasporto vigenti.

 

 

Potrà lenirsi, abbiamo detto, la crisi odierna; non scomparire del tutto. Questo infatti è uno degli effetti più certi del protezionismo: che ai mali da esso creati non vi è rimedio possibile. L’unico rimedio contro l’ingiustizia è il ristabilimento della giustizia. I palliativi a troppo poco giovano durante il periodo in cui l’opera di giustizia si compie.

 

 



[1] Con il titolo Crisi fatale [ndr]

Torna su