Opera Omnia Luigi Einaudi

L’onere dei debiti di guerra è apparente?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1917

L’onere dei debiti di guerra è apparente?

«Minerva», 1 dicembre 1917, pp. 849-852

 

 

 

Nel numero del settembre 1917 la rivista inglese The Round Table fa un paragone suggestivo fra l’aumento del prezzo delle merci e l’aumento del carico di interessi verificatosi in Inghilterra durante la guerra. Dal luglio 1914 all’aprile 1917 i prezzi aumentarono, secondo il numero indice dell’Economist, del 110 per cento – alla fine d’ottobre l’aumento era giunto al 122 per cento -. Nello stesso periodo di tempo gli interessi pagati sui titoli di debito pubblico dello Stato, degli enti locali, dei debiti delle Società ferroviarie ed industriali aumentarono da 110 a 230 milioni, ossia del 110 per cento.

 

 

Da questa constatazione lo scrittore deduceva che il peso effettivo sui cittadini inglesi dell’onere fisso di interessi non era affatto variato in conseguenza della guerra. Infatti, essendo aumentati in media i prezzi del 110 per cento, è aumentato nelle stesse proporzioni il valore della produzione annua e quindi del reddito complessivo del paese. Se prima della guerra il reddito nazionale inglese era calcolato in 2400 milioni di lire sterline (60 miliardi di lire italiane alla pari dei cambi), il reddito stesso deve ora essere aumentato, per il rialzo dei prezzi di tutte le cose le quali compongono quel reddito – derrate agrarie, merci industriali, servizi, ecc. – del 110%, ossia deve calcolarsi in 5000 milioni circa di lire sterline.

 

 

Prelevare 110 su 2400 milioni di lire sterline per pagare gli interessi ai portatori di titoli di debito pubblico, cartelle, obbligazioni è precisamente la stessa cosa come prelevarne 230 su 5000 milioni. Il peso dei cittadini i quali godono il reddito non è affatto cresciuto.

 

 

Applichiamo lo stesso ragionamento all’Italia. Secondo il numero indice del Bachi (vedi il volume L’Italia economica nel 1916, anno VIII, dato in dono agli abbonati della rivista La Riforma Sociale di Torino ed in vendita a parte presso la Società Editrice D. Alighieri, L. 7), dal luglio 1914 al giugno 1916 i prezzi delle merci in media aumentarono da 100 a 319, ossia del 219%. Si potrebbe quindi dire, seguendo il ragionamento dello scrittore inglese e supponendo che aumento dei prezzi significhi corrispondente aumento del reddito nazionale, che questo è aumentato, dai 14 miliardi circa a cui taluni statistici lo calcolavano prima della guerra, a forse 45 miliardi di lire. Nel tempo stesso l’onere degli interessi da pagarsi ai portatori dei titoli di debito pubblico dello Stato, delle Province e dei Comuni, delle cartelle di credito fondiario e delle obbligazioni emesse da Società per azioni è forse aumentato da 800 a 1800 milioni di lire. Prima della guerra, dunque, gli interessi fissi su varie specie di titoli pubblici assorbivano il 5.7% del reddito nazionale (800 milioni su 14 miliardi); ora essi, sebbene aumentati da 800 a 1800 milioni, assorbono soltanto il 4% di un reddito nazionale cresciuto a 45 miliardi di lire. Quindi si dovrebbe concludere che in realtà l’enorme nuovo debito accumulato durante la guerra, e che alla fine giugno sommava già a 22 miliardi di lire, non solo non avrebbe cagionato nessun nuovo onere sulla collettività degli italiani, ma potrebbe da questa essere sopportato con minor fatica di quanto non accadesse col minor debito di pace d’un tempo.

 

 

Il ragionamento ora ricordato ha un valore innegabile di suggestione. Esso può essere cioè accolto come l’espressione di un fenomeno che tendenzialmente si sarebbe potuto verificare, che anzi senza dubbio in parte si è verificato, ma fu contrastato nella sua effettuazione da molte circostanze perturbatrici; sicché in realtà il fatto vivo, concreto, quale esiste e quale noi lo possiamo toccare con l’osservazione, è solo in parte il fatto semplice che il ragionamento ora riferito ci metterebbe dinanzi. Nulla di più incerto, innanzi tutto, dei dati intorno alla ricchezza ed al reddito nazionale di un paese. Qual valore aveva l’affermazione che i redditi nazionali dell’Inghilterra e dell’Italia potevano calcolarsi a 60 ed a 14 miliardi di lire italiane rispettivamente? Tanta e così grande era ed è l’imperfezione degli strumenti di indagine atti ad accertare il reddito di un paese, che quei dati hanno al più il valore di una primissima e vaga approssimazione. Moltissime persone, oserei dire la grande maggioranza degli italiani, non conoscono l’ammontare preciso del proprio reddito; come presumere di poter conoscere la somma precisa di addendi non accertati quantitativamente?

 

 

In secondo luogo, è certo che i prezzi delle merci in generale sono aumentati in Inghilterra del 110 (122 in ottobre) ed in Italia del 219%. Ma quali prezzi? Quelli all’ingrosso, per le merci negoziate in grosse partite.

 

 

Ma il reddito nazionale di un paese non si compone di prezzi all’ingrosso; bensì tutti sappiamo, per esperienza personale, che i nostri redditi finiscono con essere destinati all’acquisto di merci al minuto e di altri servizi e beni necessari od utili o graditi per la nostra vita. Ora non tutti i prezzi sono aumentati nella medesima proporzione in cui aumentarono quelle 44 o 35 merci che formano oggetto dell’accertamento dei prezzi all’ingrosso dell’Economist in Inghilterra e del prof. Bachi in Italia. I prezzi all’ingrosso sono di solito sensibilissimi alle influenze del mercato; e subito aumentano o ribassano a seconda delle constatazioni e previsioni che si fanno sulla produzione, sui consumi presenti ed avvenire. Invece i prezzi al minuto sono più lenti a muoversi, più viscosi. Si abbarbicano maggiormente ai prezzi alti; ma anche tardano a seguire i rialzi già avvenuti sul mercato.

 

 

Contrariamente all’impressione comune, i prezzi al minuto delle merci di consumo popolare non sono cresciuti come la media dei prezzi all’ingrosso. In Inghilterra all’1 giugno 1917 i prezzi al minuto del manzo, del montone, del lardo, del pesce, della farina, del pane, del tè, dello zucchero, del latte, del burro, del formaggio, della margarina, delle uova e delle patate era cresciuto del 102% in confronto al luglio 1914; in Italia i prezzi al minuto del pane, della farina, delle paste, della carne bovina, del lardo, dell’olio e del latte eran cresciuti nel luglio 1917 del 67.5% in confronto al luglio 1914. E sebbene questi prezzi siano falsati dall’elemento artificiale dei calmieri pubblici, e sebbene il Bachi abbia messo in luce statisticamente come i calmieri su taluni generi abbiano prodotto l’effetto di far aumentare vie maggiormente i prezzi dei generi non calmierati, sarebbe tuttavia contrario all’impressione comune, suffragata dallo studio dei nostri conti delle spese di famiglia, affermare che in Italia i prezzi siano in verità saliti da 1 a 3.2 e che quindi i redditi in media abbiano dovuto aumentare nella stessa proporzione per tener dietro all’aumento dei prezzi. Vi sono alcuni prezzi, come i fitti di casa, i quali tengono un gran posto nei bilanci famigliari e che non sono aumentati affatto o solo sporadicamente qua e là.

 

 

Forse l’impressione più diffusa è che il costo della vita sia raddoppiato. Ma neanche questa impressione può essere accettata senza critica, quasi concludesse a dimostrare che i redditi in media siano pure raddoppiati. Aumentarono certamente, perché non sarebbe in caso contrario stato possibile affatto pagare i prezzi più alti del mercato. I consumatori però reagirono contro l’aumento dei prezzi anche in altre maniere diverse da quelle di chiedere e ottenere un aumento di salario o di reddito. Coloro il cui reddito rimase stazionario, o non aumentò nelle proporzioni della spesa, si rassegnarono a consumi minori per quantità o inferiori per qualità; fecero durare più a lungo i vestiti e le scarpe, ridussero il numero delle stanze riscaldate. Ecco la prova che non tutti i redditi aumentarono nelle stesse proporzioni dell’aumento dei prezzi delle merci all’ingrosso.

 

 

In terzo luogo, si ricordi che in Italia assai più che nei paesi industrialmente più progrediti il regime della economia in natura è ancora largamente diffuso. Il contadino piccolo proprietario o mezzaiolo, il quale coltiva il fondo per ottenerne beni di consumo diretto, è poco toccato dalle variazioni dei prezzi. Che il frumento valga 25 o 50 lire per lui è indifferente, poiché egli consuma in famiglia tutto il grano prodotto sul fondo.

 

 

Quindi egli risentirà come un peso vivo e reale l’aumento del tributo fondiario, necessario per pagare gli interessi cresciuti del debito pubblico, da 30 a 40 lire. Non bisogna però esagerare il valore di questa osservazione. Anche nei casi di economia famigliare quasi bastevole a se stessa, il contadino ha sempre venduto qualche cosa: uova, polli, bestiame, latte, uva, olive, ecc., ecc.; ed è probabilissimo che il maggior valore delle derrate vendute sia stato superiore al maggior costo delle cose acquistate e ai maggiori pagamenti, fra cui le imposte, da lui dovuti fare. Il che mi porta all’ultima considerazione, forse la più importante che la brevità dell’articolo mi consente di fare. I redditi sono certamente aumentati in una proporzione ignota; ed è chiaro che devono essere aumentati nella stessa proporzione dell’aumento, pure ignoto, dei prezzi al minuto di tutte le merci e di tutti i servizi scambiati nel paese nello stesso periodo di tempo.

 

 

Se Tizio ha dovuto aumentare del 100% la spesa per l’acquisto delle derrate alimentari, del 200% la spesa per combustibili, del 50% la spesa del vestiario, del 10% la spesa per il fitto di casa e quelle connesse con la casa, del 30% le spese dei servizi personali di domestici, medici, istruzione, divertimenti, ecc., e in media ha aumentato del 60% le sue spese totali famigliari, è chiaro che questa sua maggiore spesa costituisce maggior reddito per tutte le persone che gli vendono merci e servizi personali. L’aumento dei prezzi, ossia della spesa, non sarebbe possibile senza un corrispondente aumento nei redditi. Ma gli aumenti tanto nei redditi quanto nelle spese sono assai diversamente distribuiti fra le varie classi sociali. Accanto agli industriali, ai proprietari coltivatori dei propri terreni in economia, a taluni vasti gruppi di commercianti, di professionisti e di operai, i quali aumentarono i propri redditi in misura superiore all’aumento dei prezzi, vi furono altre categorie di commercianti e professionisti con clientela scemata, di proprietari di case che non poterono aumentare i fitti, di capitalisti percettori di interessi fissi, di impiegati con scarsa indennità di caro viveri, di proprietari di terreni con affitti in corso, di operai di mestieri specializzati che la guerra fece trascurare, i quali non videro aumentare affatto i propri redditi o li aumentarono in misura minore dell’aumento dei prezzi.

 

 

Dunque è un errore affermare che l’onere del debito di guerra non sia sentito dai cittadini, perché i maggiori interessi dovuti dallo Stato, a cui rispondono maggiori imposte pagate dai contribuenti, sono compensati dai maggiori redditi? No. L’affermazione adombra una verità suggestiva la quale deve essere però qualificata, tenendo conto:

 

 

1)     che se è vero che gli interessi annui sono cresciuti in Italia da 800 a 1800 milioni di lire – e cresceranno se la guerra finisce nel 1918 a forse 3000 milioni di lire -, noi non sappiamo di quanto siano cresciuti i redditi annui degli Italiani oltre i 14 miliardi di prima della guerra. Se fossero aumentati, per causa del rialzo dei prezzi medi al minuto di tutte le merci e di tutti i servizi, nella stessa proporzione, ossia a 31.5 miliardi di lire, il debito di guerra non avrebbe prodotto alcun nuovo relativo peso reale sui cittadini. Se la somma dei redditi risulta superiore a 31.5, il peso dei debiti, vecchi e nuovi, sarebbe effettivamente e proporzionalmente meno grave; se inferiore, il peso sarebbe cresciuto. Forse la verità è quest’ultima: la massa dei redditi è bensì cresciuta, ma non nelle stesse proporzioni dell’aumento dell’onere dei debiti; sicché l’incremento di peso netto non è quale risulterebbe dal confronto di 1800 ad 800, ma non è del tutto irrilevante. Trattasi però di una pura impressione, che non saprei giustificare con nessuna prova concreta;

 

2)    che l’aumento di reddito essendo diversamente distribuito fra le varie classi sociali, vi è chi sopporta l’aumentato onere delle imposte dovuto al debito di guerra con la stessa agevolezza di prima – e sono coloro i cui redditi crebbero precisamente nelle stesse proporzioni dell’aumento delle imposte e delle altre spese -, vi è chi sopporta un peso proporzionalmente minore, e vi è chi lo sopporta maggiore;

 

3)    che noi non sappiamo quanto tempo durerà l’aumento dei prezzi col conseguente aumento dei redditi. Se, finita la guerra, si mantenesse l’attuale alto livello di prezzi o quel più alto a cui si potrà giungere negli ultimi mesi di lotta, l’onere degli interessi del debito pubblico sarebbe sostanzialmente meno grave di quello che potrebbe sembrare dal semplice confronto dei debiti ante e post-bellici. Se invece i prezzi e i redditi scenderanno al livello del 1914, poiché gli interessi rimarranno fissi ai saggi convenuti, così essi premeranno fortemente sui redditi scemati. Si possono invero pagare senza grande fatica 1800 milioni di interessi su 31.5 miliardi di reddito, o anche su 25; ma la pena, il sacrificio crescerebbero a dismisura se gli stessi 1800 milioni si dovessero, dopo la guerra, pagare su una massa di redditi nuovamente discesa a 14 miliardi.

 

 

In verità, basterebbe che i redditi rimanessero permanentemente, per il livello generale cresciuto dei prezzi, superiori ai 14 miliardi di prima di quei 2 o 3 o 4 miliardi che sarà, a seconda della sua durata, l’onere risultante dalla guerra, perché in via assoluta il maggior peso degli interessi non fosse sentito.

 

 

Prudenza consiglia a supporre che i prezzi, dopo un periodo intermedio di sostenutezza, abbiano a ridiscendere, per il graduale eliminarsi di parecchie delle circostanze che hanno provocato l’aumento (aumento della circolazione cartacea, guerra dei sottomarini, ecc. ecc.). Forse i redditi non ritorneranno in Italia al livello dei 14 miliardi; o almeno è augurabile che le abitudini di più intenso lavoro formatesi durante la guerra continuino a produrre benefici effetti anche dopo la guerra. La prudenza di Stato consiglierebbe perciò a profittare di questo periodo intermedio di prezzi e redditi ancora artificiosamente ingrossati, per spingere le imposte sino alla loro produttività massima, così da poter non solo fare il servizio degli interessi, ma rimborsare anche una parte del capitale del debito di guerra.

 

 

Farebbe d’uopo, almeno, nel periodo di riassestamento rimborsare le più perniciose forme di debito, quelle in biglietti di banca e di Stato, in vaglia del tesoro e in buoni del tesoro a brevissima scadenza. Sicché, quando i prezzi e i redditi scendano, sia diminuito altresì l’onere degli interessi, il credito dello Stato siasi rafforzato, e possa il Tesoro, quando giungerà l’istante convenuto coi creditori, procedere a conversioni dei debiti a un saggio minore di interesse.

 

 

Imposte e poi imposte e poi ancora imposte; ecco quale deve essere il grido di tutti coloro cha amano il paese. Naturalmente, siano imposte ben ripartite, gravanti correttamente su tutti i redditi e principalmente su quei redditi che dalla guerra sono stati beneficati.

Torna su