Opera Omnia Luigi Einaudi

L’unità del podere e la storia catastale delle famiglie

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1938

L’unità del podere e la storia catastale delle famiglie

«Rivista di storia economica», III, n. 3, settembre 1938, pp. 241-263

 

 

 

1. – Il progetto per la riforma del codice civile tocca notabili problemi riguardanti interessi ed istituti economici. Se una rassegna compiuta delle soluzioni accolte sarebbe estranea ai fini della rivista, l’esperienza del passato può tuttavia consentirci non di rispondere ma di meditare sul quesito: i nuovi istituti trovano suffragio di consenso in quel che accadde dianzi? Qui si vuol offrire soltanto un minimo spunto di meditazione, perché la esperienza per lo più è frammentaria locale e limitata nel tempo, laddove la riforma di un documento solenne esige possibilità di esperienza su tutto il territorio dello stato e per lungo tratto di tempo.

 

 

2. – è nobile per fermo il proposito degli estensori di favorire la saldezza e l’incremento della famiglia; proposito che li persuade ad affermare con particolare vigore il carattere famigliare ed indivisibile del patrimonio del capo di essa e ad elevare perciò la quota di legittima o riserva. Laddove il codice civile vigente riserva ai figli una porzione legittima uguale alla metà dei beni del testatore, se questi morendo lascia figli, qualunque sia il numero dei figli, il progetto definitivo di riforma (art. 80 del libro terzo) riserva la metà del patrimonio del genitore, se questi lascia un figlio solo e due terzi, se i figli siano due o più. La elevazione della quota di riserva dalla metà ai due terzi quando i figli siano più di uno sembra fondata sul concetto della preminenza della famiglia sull’individuo. Il padre di famiglia è quasi reputato mero possessore pro-tempore del patrimonio famigliare, da lui trasmesso ai figli, i quali già, nella continuità delle generazioni, partecipavano al possesso. Perciò la volontà di lui è atta a disporre liberamente soltanto della minor parte del patrimonio, sia a favore di talun prescelto tra i figli, sia a vantaggio di estranei. Si mira così a rinsaldare il vincolo famigliare, viemaggiormente legando il genitore a tutti i figli medesimamente e questi a lui.

 

 

3. – Giova al medesimo scopo altresì l’istituto dell’indivisibilità dell’azienda ossia dell’impresa, come propriamente essa è detta in linguaggio economico. Dice in proposito l’art. 125 del terzo libro nel progetto definitivo:

 

 

«Quando dell’eredità faccia parte un’azienda agricola, industriale o commerciale formante un’entità economica indivisibile, essa va attribuita ad un coerede che sia disposto ad accettarne l’attribuzione e sia ritenuto idoneo ad assumerne l’esercizio.

 

 

Nel caso che siano più i coeredi, i quali aspirino a conseguire l’attribuzione decide l’autorità giudiziaria con riguardo alle condizioni ed attitudini personali. L’autorità giudiziaria può anche decidere che l’azienda sia attribuita a due o più fra i coeredi, i quali intendano di esercitarla in comune.

 

 

Gli altri coeredi, salvo che nell’eredità vi siano altri beni mobili ed immobili per mezzo dei quali possono essere soddisfatti in tutto o in parte delle rispettive quote, e salva la facoltà dell’assegnatario o degli assegnatari di soddisfare le loro quote in danaro, debbono attendere per essere integralmente soddisfatti un termine non maggiore di un triennio, durante il quale l’assegnatario o gli assegnatari sono tenuti a pagare ai coeredi l’interesse legale della somma corrispondente al valore delle loro quote o della parte residua di esse e a fornir garanzie idonee, quando siano richieste dagli stessi coeredi.

 

 

Nel caso di opposizione di uno o più coeredi alla domanda di attribuzione, l’autorità giudiziaria decide se si debba far luogo all’attribuzione stessa ovvero all’alienazione dell’azienda.

 

 

Sembra potersi dedurre dal contesto che, ove manchi il coerede disposto ad accettare l’attribuzione, idoneo ad assumere l’esercizio dell’impresa indivisibile e pronto a sobbarcarsi all’onere di pagare entro tre anni le quote in danaro spettanti ai coeredi – tempo che il guardasigilli ritenne di non potere crescere da tre a cinque anni per non recare “eccessivo pregiudizio agli interessi dei non assegnatari» -, né i coeredi siano pronti od atti all’esercizio in comune, l’impresa indivisibile debba essere alienata.

 

 

Dal concetto della preminenza dell’istituto famigliare sulla volontà paterna (riduzione della quota disponibile dalla metà al terzo) si passa così a quello della conservazione dell’ente economico (impresa) creato dal genitore, anche contro la volontà disgregatrice dei figli. L’impresa, ossia l’opera del genitore, deve essere salva, quale scoglio fermo contro l’urto delle contrastanti passioni o volontà dei figli. Siano preferiti il figlio od i figli disposti od atti a continuare l’opera di coloro che nel tempo li precedettero; e gli altri escano dalla casa paterna recando sulle spalle il sacco del denaro contante.

 

 

4. – Un passo innanzi nell’affermazione della unità patrimoniale è compiuto quando, pur se il frazionamento dei beni componenti il patrimonio sia tecnicamente possibile, si pongono limiti ad esso. Dice l’art. 264 del medesimo libro terzo:

 

 

«Nel formare le porzioni, si deve evitare di frazionare i fabbricati ed i fondi rustici in modo da recar pregiudizio alla ragione della pubblica economia e dell’igiene».

 

 

L’impresa – nonostante la diversità delle parole adoperate, i fabbricati ed i fondi rustici sono un’impresa vera e propria anche quando siano ridotti al minimo – non potrebbe essere frazionata senza che ne scemi la produttività. Se v’ha pregiudizio alla pubblica economia, è vietato il frazionamento anche se voluto dagli interessati.

 

 

Il divieto, qui generico, è più energicamente affermato, per i fondi rustici, nell’art. 30 del progetto della commissione reale per il secondo libro:

 

 

«La pubblica autorità può, nell’interesse dell’agricoltura e dell’economia nazionale, vietare che un fondo soggetto a cultura o suscettibile di coltivazione e già ridotto ad una estensione pari o prossima alla minima unità culturale, venga ulteriormente frazionato in guisa da rendere impossibile la razionale coltura di una delle varie parti risultanti dal frazionamento.

 

 

Il modo e i limiti di esercizio di tale facoltà sono stabiliti da leggi speciali».

 

 

Il relatore della commissione reale così chiarisce (pp. 27 – 28) le ragioni della proposta:

 

 

«La commissione non poteva non preoccuparsi del grave inconveniente, oggi non raro, per cui un fondo, per successivi trapassi e divisioni, finisce quasi per polverizzarsi, senza che vi sia attualmente un mezzo per impedirlo, non bastando allo scopo il fatto che talvolta gli uffici catastali si rifiutano di prendere atto di alcune suddivisioni; perché la relativa particella non potrebbe essere indicata nella mappa, senza che se ne ingrandisca la scala. Tale eccessivo frazionamento dei fondi importa che non sia più possibile la razionale e redditizia coltivazione, riuscendo in definitiva di danno all’agricoltura ed all’economia nazionale. Di ciò si era preoccupata la commissione giuridica nominata dalla Confederazione nazionale fascista degli agricoltori per lo studio dei problemi più urgenti di riforme legislative, pervenendo essa alla formazione di uno schema di norme con le quali, definita la unità colturale come l’appezzamento minimo di terreno sufficiente al lavoro ed al mantenimento di una famiglia colonica, ed attribuito ad un ente tecnico provinciale il compito di fissare la superficie dell’unità colturale secondo la varietà delle regioni e dei terreni, si sanciva la nullità di ogni atto di divisione che frazionasse il terreno al disotto dell’unità culturale, la formazione di un condominio nei casi di frazionamento disposto dal testatore e di donazione dall’ascendente ai discendenti fatta in frode al principio suddetto, e si disciplinava infine lo scioglimento della comunione attribuendo la preferenza al condomino che fosse, o fosse stato lavoratore agricolo. Vero è che anche una piccolissima parte di terreno può essere coltivata e rendere dei frutti, ma in tal caso maggiore sarà lo sforzo per conseguire questi, e minore sarà, proporzionalmente all’estensione del suolo, la quantità degli stessi, mentre quello che interessa all’economia nazionale è il massimo rendimento col minimo sforzo, il che non si può ottenere che con una razionale coltivazione dei terreni, in relazione al clima, all’altitudine, alla posizione, all’acqua disponibile, ed alla possibilità di uso di mezzi meccanici di aratura, irrigazione, ecc. . .

 

 

È pertanto la minima unità culturale stabilita dagli organi competenti per ciascuna regione che deve servire di punto di riferimento per stabilire il massimo di frazionabilità dei fondi».

 

 

5. – Chi ricordi la lunga secolare battaglia condotta in Francia da Federico Le Play e dai suoi seguaci contro la riserva dei tre quarti del patrimonio paterno a favore dei figli, la dimostrazione da essi pertinacemente offerta dei danni che all’istituto famigliare furono recati dalla riduzione della disponibile al quarto, la accusa rivolta contro Napoleone di aver voluto con quel mezzo distruggere gli antichi ceti terrieri, elevando se stesso sopra la disgregazione ed il polverizzamento universale, e finalmente l’altra accusa, rivolta ancora e sempre alla riduzione al quarto della disponibile, della responsabilità della mala consuetudine, divenuta quasi istituto pubblico francese, del figlio unico; chi ricordi l’accusa antica e nota meraviglierà che i compilatori del progetto del nuovo codice civile abbiano assunto la riduzione della disponibile dalla metà al terzo come segnacolo in vessillo del rinsaldamento dell’unità famigliare e del rinvigorimento della natalità.

 

 

Da un lato un grande osservatore, uno dei maggiori e più penetranti osservatori delle ragioni della durata e della rovina delle società umane, Federico Le Play, non si stanca di dire ai legislatori del suo paese: elevando la legittima, scemando la disponibile voi avete distrutto l’autorità paterna, voi avete esasperato l’egoismo individuale persuadendolo che solo l’istituto del figlio unico è atto a salvare dal frazionamento e dalla divisione il patrimonio paterno; voi avete fatto scomparire le culle dalle campagne, voi avete popolate queste di figli unici egoisti e malcontenti, voi le avete restituite al deserto a prò delle città. Dall’altro gli estensori del nuovo codice civile italiano col medesimo mezzo vogliono raggiungere la meta opposta: unità e saldezza della famiglia, incremento della natalità.

 

 

6. – Chi ha ragione? Non giova additare la sola esperienza francese. Al codice napoleone il quale, riducendo la disponibile, indeboliva l’autorità paterna, hanno, sì, fatto seguito lo sminuzzamento della proprietà rustica, divisa con uguaglianza di parti tra i figli, dove questi erano più d’uno e la predilezione dei genitori, desiderosi di conservare l’unità del patrimonio famigliare, per il figlio unico. Storicamente e logicamente si può tuttavia scrivere soltanto “han fatto seguito”. La successione cronologica è indiscutibile; è altrettanto certa la connessione causale? Farebbe d’uopo eliminare, nei limiti del possibile, i fattori diversi dalla norma napoleonica; e sovratutto il costume. Se la consuetudine locale spinge alla divisione uguale fra i figli, i genitori non si giovano della “disponibile” anche larghissima. Forse la prova migliore che della tesi della libertà testamentaria diede il Leplay fu la celebre monografia del 1856 della famiglia Melouga proprietaria di un antico bene di famiglia a Cauterets nel Lavedan (Alti Pirenei) continuata nel 1869 dal Cheysson (F. Le Play, L’organisation de la famille, Paris, 1874, libro secondo ed appendice prima).

 

 

Qui, veramente, la storia prova qualcosa. Siamo in paese basco, dove il diritto consuetudinario consacra l’indivisibilità del podere famigliare. Da tempo immemorabile, la famiglia prospera sotto quel regime; la vita dura del capo di famiglia, investito pro-tempore della proprietà del fondo avito, ha consentito agli altri figli di sciamare nel mondo, di creare nuove famiglie, se essi giungevano a prosperità, o di ritornare, vecchi e disillusi, a passare gli ultimi anni nella casa paterna. Per parecchi decenni la consuetudine dura anche quando il codice napoleonico sembra minarla. Il capo della famiglia si serve dell’arma della “disponibile” per mettere a segno i recalcitranti. Giunge però il giorno nel quale la “pecora rognosa” guasta il gregge. Uno dei figli travolto dalla passione o dallo spirito di novità, reclama la sua quota. La norma legale gli dà ragione. La famiglia consuma le riserve monetarie di generazioni nel tentativo di far trionfare la consuetudine sul codice. Alla fine, quando gli avvocati hanno intaccato troppo la sostanza famigliare, fa d’uopo piegare il capo. Il fondo avito sarà diviso; la famiglia sarà dispersa al vento; i genitori, malcerti dell’avvenire, legati a terreno troppo esiguo, non moltiplicano la famiglia, per il timore di dar vita a gente troppo misera. Chi ha studiato quali legami intercedano tra le figliuolanze numerose e la coesistenza, nella famiglia, di fratelli e sorelle del padre rimasti celibi o nubili in casa? Quel che nelle famiglie del medio ceto d’un tempo era lo zio prete, nelle famiglie contadine è lo zio celibe: sostegno della famiglia, quando il padre muoia anzi tempo, aiuto prezioso nel lavoro dei campi, dove scansa al capo il dispendio di un famiglio salariato, dispendio che per lo più renderebbe la impresa passiva, nerbo della disciplina famigliare, perché la sua quota di comproprietà è “tutta” disponibile a favore dei meritevoli ed è negata ai poltroni ed ai viziosi. Lo zio celibe è istituto, del quale deve lamentarsi la graduale scomparsa. Con esso scompare uno dei più forti sostegni delle famiglie numerose. Il celibato dello zio convivente in famiglia cresce non scema il numero totale dei figli della famiglia.

 

 

7. – I dubbi intorno agli effetti sociali ed economici delle riforme proposte al codice civile non scemano se dalla norma, la quale riduce la disponibile, passiamo a quelle le quali disciplinano la integrità dell’impresa o del fondo. Forse gli stessi dubbi valgono rispetto alle imprese industriali e commerciali; qui si discorre soltanto di imprese e di fondi rustici.

 

 

V’ha, nelle proposte di riforma, una fiducia ingenua ed ammirabile intorno alla virtù della norma giuridica a conservare ed a creare l’impresa. Dicesi anche “a creare” perché l’impresa economica è creazione ex novo di ogni giorno. L’impresa vive un po’ del passato; ma il passato è qual cenere che un soffio disperde. Tra le idee false le quali turbano gli uomini e li spingono a lottare feroci gli uni contro gli altri, falsissima è l’idea che esista davvero un’entità detta “capitale” o “impresa” fornita di vita propria. Senza l’uomo vive la terra? Esiste l’oliveto, il vigneto, il frutteto, l’orto, il campo, il prato senza l’uomo che lo coltiva, che lo ricrea? No. Abbandoniamolo a sé, o diamolo in mano ad un inetto ed in pochi anni il capitale per secoli lentamente accumulato nella terra è distrutto. Bisogna un’altra volta ricreare la terra dal nulla. Se ad ogni due o tre generazioni la terra non espellesse da sé i proprietari incapaci, se essa non ritornasse nelle mani di chi la ama, la terra ridiventerebbe landa palude foresta selvaggia.

 

 

Le norme coattive di conservazione dell’unità dell’impresa e del fondo rustico secondano l’opera tacita che la terra da sé compie, rifiutando i suoi frutti a chi non li merita, espellendo i proprietari incapaci od ignari ed attirando, colla promessa di frutti più larghi, i volonterosi e laboriosi?

 

 

Questa è la sola domanda a cui valga la pena di rispondere. Non si risponde ragionando da premesse sul vantaggio tecnico ed economico di conservare imprese e fondi. Non esistono imprese e fondi. Esistono uomini i quali creano e ricreano imprese e fondi. Non importa affatto conservare un tipo di impresa o di fondo; importa non scoraggiare o incoraggiare il tipo di uomini atti a creare e ricreare – adopero la parola “ricreare” perché più espressiva e vera di “conservare” – imprese e fondi.

 

 

8. – Fu sempre ragion di maraviglia per me vedere come economisti e storici desiderosi di indagare le ragioni di vita delle famiglie rustiche e di prosperità delle regioni agricole non abbiano indugiato abbastanza sui libri catastali. A chi li sfogli, vien fatto di pensare: qui è scritta la storia delle famiglie, qui si narra come i possessi a poco a poco si ingrandiscano, tocchino il punto massimo e poi decadano e si frantumino, come la terra si tramandi e si divida e si ricomponga di generazione in generazione, e come i figli sappiano conservare o vogliano disperdere il patrimonio avito e come l’un fratello sia dissimile dall’altro e come uomini, partiti da ugual punto, giungano a diversissime mete.

 

 

Se noi ritorniamo indietro, dal momento presente, nel quale le vicende delle terre e dei loro possessori possono essere seguite nei più minuti particolari, al diciannovesimo secolo e poi al diciottesimo e via via ai primi catasti del duecento, crescono per fermo le lacune e diventa a mano a mano più malagevole seguire la successione delle generazioni; ma il frutto dell’indagine, se meno copioso e preciso, non appare meno saporoso. Come illuminante deve essere, a chi conosca a fondo il tempo corso, suppongasi, dal 1250 al 1300, paragonare due catasti cittadini, l’uno redatto verso il principio e l’altro verso la fine del cinquantennio; e mettere l’uno accanto all’altro il padre e il figlio, la famiglia com’era al principio e come diventò alla fine ed i rispettivi possessi e redditi; e seguire il tale e tal altro fondo nelle sue trasmigrazioni dall’una all’altra famiglia!

 

 

9. – Non giova indugiare nei desideri. Trascelgo da parecchie centinaia di schede famigliari a poco a poco accumulate lungo gli ozi autunnali trascorsi in un comune rurale della collina piemontese, alcune schede, le quali forse ci dicono qualcosa intorno al modo con cui si formano e si riformano e si perdono i possessi rurali.

 

 

La regione collinosa alla quale appartengono le famiglie studiate, è tipicamente contesta di piccole e medie proprietà e conduzioni (media estensione attuale della superficie appartenente ad ogni ditta catastale poco superiore a due ettari); la popolazione rustica abita tutta nelle case sparse isolatamente nella campagna o raggruppate in minime borgatelle di poche famiglie, cresciute per scissiparità dell’unica famiglia originaria e portanti tutte il medesimo cognome, sebbene talvolta, col trascorrere del tempo, da famiglie di fratelli divenute famiglie di cugini e poi di meri “vicini”. Le terre sono situate attorno alla casa od alla borgata, sicché il tempo perso per recarsi al lavoro o ritornarne non ha per lo più importanza. Nel centro cittadino vivono i professionisti, i commercianti, gli artigiani ed i loro garzoni, i piccolissimi proprietari di orti o vigneti vicini al concentrico, i quali attendono nel tempo libero a lavori diversi per conto altrui ed i non numerosi giornalieri. Il ceto proprietario, vivente del mero frutto della proprietà è praticamente scomparso; e, ad occhio e croce, la superficie spettante alla classe dei non contadini, i quali coltivano i fondi per mezzo di mezzadri, può stimarsi ridotto a meno di un quinto della totale superficie coltivata del comune.

 

 

Più numerosi sono i contadini propriamente detti i quali posseggono qualche terreno che essi non coltivano direttamente, sia perché il loro tempo è occupato dal fondo principale posseduto, sia perché preferiscono allogarsi come mezzadri in fondo più ampio, riservando alla vecchiaia il ritorno al breve terreno proprio; sia perché, vecchi o donne, si sono riservata la cura dell’orto, di un prato, di qualche filare di vigna e danno la terra a mezzadria.

 

 

L’unità di misura del terreno è la giornata piemontese di metri quadrati 3.810; unità simile non solo all’acre inglese ma alla più parte delle unità diffuse e vivacemente resistenti nelle più diverse regioni italiane; ed unità ben più significativa – quanta terra può arare in un giorno un paio di buoi? – dell’insapore scolorito ettaro. Noto solo le superfici, (la giornata composta di 100 tavole e la tavola di 12 piedi), non gli estimi, che sono mere cifre proporzionali, astratte, non rispondenti, fin dall’origine, ad alcuna realtà concreta. Le mie schede si riferiscono tutte, fin ora, al tempo corso dal 1790 al 1880; ma avrò cura di trascrivere solo quelle per le quali nella mente mi sorga netta l’immagine di un uomo oggi vivo, di una vicenda accaduta l’altro giorno o non ancora chiusa.

 

 

10. – Ecco, prima, la scheda di R. Bonaventura di Antonio Maria. Da un certo punto di vista è un’eccezione. Ben pochi son coloro i quali fanno per la prima volta scrivere, per virtù propria, il loro nome sui libri catastali. Codesto Bonaventura non ereditò, ma acquistò terra quand’era vivo il padre, probabilmente un povero diavolo, ché egli sui libri non esiste. Un po’ prima del 1828 il padre deve essere morto, ché l’intestazione muta dal di al fu.

 

 

Alla data del 1861 il nostro uomo scompare dai libri catastali, ed in seguito a testamento del 9 giugno 1852 i suoi beni passano, in mancanza di figli, alla vedova A. M. M. per 10 giornate 99 tavole e 9 piedi ed a G. R. per 1 giornata 57 tavole e 3 piedi.

 

 

11. – La tabella dice che:

 

 

  • l’uomo compra esclusivamente in una data zona: tutte le località agrarie indicate – e sono nove – sono poste nella parte a nord del territorio comunale, ai due lati della strada che dal fondo valle sale verso i confini meridionali del comune. Questa è regola inviolata negli acquisti dei contadini: comprare terra nella frazione dove essi sono nati. Rari gli spostamenti. Se sul luogo non vi sono contadini provvisti di risparmio passato, il che vuol dire laboriosi e frugali, la terra è invendibile, almeno la terra di cui si tratta, non appetita da capitalisti cittadini. Il cittadino compra fondi di pianura, che può affittare; non terra di collina, la quale procurerebbe a lui quelli che egli considera “fastidi” della conduzione diretta o del governo dei mezzadri, che egli, per ignoranza sua invincibile, sospetta come ladri e perciò odia. Una sola eccezione fece il contadino alla regola quando acquistò il 19 giugno del 1831 una casa nel concentrico. Nato da padre nullatenente, appena poté provvide ad assicurarsi casa; e, poiché i suoi erano brandelli sparsi di terra, andò a stare nel borgo. Scelse il borgo soprano per non essere costretto a scendere sino in fondo valle e risalire troppo per recarsi sul luogo del lavoro. Ma quella casa non gli era comoda; sicché quando il 10 marzo del 1834 riesce a comprare casa e corte in campagna, nel bel mezzo delle sue terre, subito (27 aprile dello stesso anno) si sbarazza della casa al borgo soprano;
  • contadino, R. B. acquista quasi soltanto da contadini. Le eccezioni sono poche: 11 tavole dalla comunità, antico sito di strada regia abbandonata; ed altri tre appezzamenti il 24 marzo 1831, il 3 gennaio 1838 e l’8 luglio 1847 da venditori al cui nome è prefissa dall’ufficiale del catasto la qualifica di “signore”. Nel più dei casi, sino dalla prima metà del secolo scorso, la terra passa da contadino a contadino. Gli aggiustamenti di possesso hanno luogo tra uomini appartenenti alla medesima classe. Oggi, per la automatica eliminazione progressiva della proprietà dei non contadini, la proporzione dei trapassi “interni” è cresciuta. Se, come favoleggiano certi storici, trapasso vuol dire sfruttamento del venditore potente ed usuraio a danno del povero avido di terra, qui sfruttati e sfruttatori appartengono al medesimo ceto sociale;
  • R. B. acquista la terra da molti e la vende a parecchi: ben 23 sono i contraenti: due soli contrattano un paio di volte ciascuno e uno solo, quello della vendita della casa in campagna, si disfa in cinque volte di terre a prò del nostro soggetto. Ogni volta si tratta di contratti compiuti per convenienza reciproca: l’uno arrotonda come e dove può, l’altro si disfa degli appezzamenti di terreno che meno gli convengono. Se si trattasse di vendite per necessità o di acquisti del forte contro il debole, pare dovrebbero essere più numerosi i casi di ripetizione degli acquisti dalla stessa persona. Qui, le cinque volte venditrici erano mamma e figlia (M. M. e G. M.), meno atte da sole a coltivare terra o desiderose di andarsene altrove. Anch’esse vendono a poco a poco, tra il 1830 ed il 1845, a mano a mano che il B. R. accumula il risparmio necessario all’acquisto;
  • i contratti d’acquisto sono 24, e 7 quelli di vendita; il maggiore per superficie si riferisce a 2 giornate e 33 tavole, che è pur meno di un ettaro (2 giornate e 63 tavole), il minore, astrazion fatta delle case nel borgo, le quali sono portate in catasto solo per l’estimo e non per la misura, di 8 tavole e 9 piedi (circa 308 metri quadrati). Ma l’appezzamento più ampio è di boschi cedui e ripa incolta, e quelli a seminativo e vigneti fruttiferi non superano l’estensione di 1 giornata, e per lo più stanno al di sotto. In nessun caso si giunse al vero brandello di terra. In collina, specie se la pendenza del terreno è forte ed il lavoro deve farsi a zappa od a vanga, anche 5 e persino 3 tavole (ogni tavola 38 metri quadrati) sono una unità economica;
  • l’impresa agraria non si forma solo con acquisti. Le vendite, seppure in numero minore, sono fattore altrettanto essenziale per la formazione dell’ottima impresa. Non affermo che R. B. sia riuscito a raggiungere l’optimum; certo la qualunque meta da lui toccata sarebbe rimasta lontana se egli non avesse con opportune rivendite rimediato ai vizi inevitabili dei primi tentativi. Anche in tempi di stabilità monetaria – se stabilità non esiste, la fuga dalla moneta è senz’altro fatale e razionale – il contadino ordinario non usa per lo più tesoreggiare moneta, sia pure con depositi a risparmio, per crescere il gruzzolo, ed acquistare così fondo più ampio. V’ha chi così opera e ne recherò esempio. Chi per dieci o dodici anni si rassegna alla vita del famiglio salariato ad anno (servitore di campagna) e frattanto sparagna tutto o quasi il guadagno, può alla fine possedere oggi le 30 mila lire bastevoli all’acquisto di un fonderello, con casa, di 5 o 6 giornate, bastevole a consentirgli vita indipendente; e ieri, tra il 1820 ed il 1860, poteva cumulare le 3.000 o 4.000 lire sufficienti allo stesso scopo. Importa frattanto, ossia sino ai 30 anni circa, stare a servigio altrui e rinunciare a possedere donna e casa: vita non dura, di famiglio con stanza e mensa comune col datore di lavoro; ma vita che non è da tutti. Frequenti le tentazioni a spendere, e perciò la triste rassegnazione a rimanere sino alla morte a servigio altrui. Chi sa risparmiare vuole investire subito; e la sua condotta, date le condizioni concrete di vita del contadino, il quale parte dal nulla, non è irrazionale. Il contadino che fosse perfetto uomo economico, farebbe meglio le ossa, se si rassegnasse a stare per quattro o cinque anni a servigio altrui, e col risparmio accumulato, acquistasse buoi, carro, aratro e la restante scorta, allogandosi come mezzadro in un fondo adatto alle sue forze di lavoro, sue e della giovane moglie. Qui, su fondo altrui ma socio e non servitore, potrebbe crescere di famiglia e di sostanza ed alla fine, sui 40 o 50 anni, rendersi indipendente, acquistando terra propria. Occorrono qualità di previdenza, di pazienza e di energia che non sono da tutti. Talvolta, l’ambizione giovanile di non assaggiare il pane altrui incoraggia l’uomo a salire. Il nostro R. B. era evidentemente un impaziente, sicché, appena può, acquista 28 tavole e 3 piedi di vigneto; e poi 31 tavole e 9 piedi di bosco ceduo. La immagino occupato a roncare parte del bosco e farne campo o vigneto. Con i guadagni successivi – mentre migliora il suo egli continua ad andare a giornata su quel d’altri – compra nuovo appezzamento – una “pezza” scrivevano i notai del tempo e si dice ancora oggi – di vigneto di 41 tavole e 6 piedi. A mano a mano che il possesso proprio si ingrandisce, minore è il tempo del lavorare a salario. Quando, al principio del 1834, egli ha messo insieme 3 giornate, 81 tavole e 6 piedi e, piccolo proprietario con casa nel borgo soprano, è riuscito ad entrare nel ceto, vero nerbo della compagine sociale delle campagne piemontesi, detto dei “particolari”, R. B. comincia a non guardar più alla terra in sé, alla terra qualunque, strumento necessario del suo istinto di lavorare in proprio; ma a “quella” terra; e poiché madre e figlia M. M. e G. M., le quali già, il 4 maggio del 1830, gli avevano venduto 77 tavole e 3 piedi di vigneto, sono disposte a vendergli altre 43 tavole e 9 piedi di prato con entro casa e corte, egli rivende, quasi contemporaneamente, il piccolo bosco ceduo di 8 tavole e 9 piedi (località O.) e la casa del borgo soprano, che lo costringevano, per la lontananza, a sgambare troppo al mattino ed alla sera per recarsi al lavoro e va a stare in N., quasi in mezzo ai suoi terreni. L’impresa agraria, la quale aveva il suo centro soltanto nella persona del proprietario, acquista unità anche fisica o tecnica. Gli otto appezzamenti posseduti si possono in parte vedere dalla casa ed in parte raggiungere a piedi senza troppo grande perdita di tempo. Sono gittate le salde fondamente dell’ascesa futura. Accanito al lavoro, aiutato dalla moglie, purtroppo privo dell’aiuto dei figli, R. B. continua a risparmiare ed a comprar terra. Dapprima due od una volta all’anno, poi ad ogni due o tre anni egli estende i suoi possessi. Alla fine della sua vita economica, c’è qualche frequenza di vendite. Probabilmente le forze fisiche scemavano; e B. R. provvede ad alienare le “pezze” di terreno meno comode, anche per apparecchiare alla vedova un qualche gruzzolo in moneta atto a darle autorità ed indipendenza di fronte ai nipoti, in possesso dei quali la terra era destinata a passare, come poi di fatto passò.

 

 

12. – Giunto al tramonto, B. R. poteva guardare indietro, al duro tempo trascorso, con giusto orgoglio: dal lontano 10 dicembre del 1822, nel quale aveva acquistato le prime 28 tavole e 3 piedi, al 5 aprile 1858, in cui si era disfatto di 1 giornata e mezza del bosco ceduo e ripa incolta acquistata nel 1843, sono corsi 36 anni; lo spazio di una generazione. In quei 36 anni B. R. ha costrutto una impresa rurale estesa a 12 giornate e 57 tavole (ettari 4,76) bastevole alla vita di una modesta famiglia laboriosa. L’antico figlio di padre nullatenente ha l’orgoglio di vivere sulla terra sua. Alla terra chiede e dalla terra riceve il pane per sé e per la sua donna. Dopo che egli ha pagato al Re il giusto tributo, non v’ha chi abbia ragione di chiedere qualcosa a lui; né egli è costretto a bussare alla porta altrui. Pur non avendo consapevolezza di quanto egli valga, nella sua casa è re.

 

 

13. – Esiste qui un’unità culturale oggettiva? Esiste un’entità economica, il fondo rustico, il quale abbia vita a sé, indipendentemente dalla vita di chi costrusse a poco a poco l’impresa? No. Il legislatore il quale immagini fondi, unità culturali, minimi di cultura economica; e sulla base di cotali concetti astratti configuri istituti giuridici coattivamente limitatori della volontà dei singoli, costruisce sul vuoto. I B. R. si noverano a centinaia di migliaia sulla terra italiana. Essi e non la terra sono il “fondo rustico”, “l’unità culturale”. Finché vivono, l’unità culturale cresce, muta dimensioni, si restringe e si allarga. Quando muoiono, l’unità si disfa, ed altre diverse unità sono ricostrutte. Nel caso nostro alla morte di R. B. la vedova tiene, finché vive, in salde mani l’impresa trasmessale dal marito. Ma alla sua morte, avvenuta tra il 10 dicembre 1867, data del testamento ed il 21 marzo 1872, un sette nipoti, con moglie e mariti e figli, non riescono a mettersi d’accordo, e la via di soluzione è la vendita, per sei settimi ad una di quelle ditte di mercanti che tra il 1850 ed il 1890 attesero in Piemonte, con vantaggio proprio e più grande vantaggio della produzione agraria e dell’elevazione dei ceti agricoli inferiori, all’opera di frantumazione dei grandi fondi ecclesiastici e nobiliari ed a quella di scomposizione dei possessi famigliari, ai quali, colla scomparsa del creatore o conservatore, era venuta a mancare la ragione di vita, opere che sono premessa necessaria alla creazione di nuovi ed alla ampliazione di vecchi possessi, alle quali attendono gli uomini laboriosi e risparmiatori delle nuove generazioni.

 

 

14. – Se un articolo del codice civile albertino o di quello italiano del 1865 avesse vietato la frantumazione dei fondi “prossimi alla minima unità culturale” e se tribunali e commissioni tecniche avessero adottato la incredibile definizione odierna della Confederazione degli agricoltori: “unità culturale è l’appezzamento minimo di terreno sufficiente al lavoro ed al mantenimento di un famiglia colonica”, le migliaia di B. R. i quali hanno trasformato la faccia di tanta parte d’Italia non avrebbero potuto costruire quelle che furono davvero, finché durò la loro vita, unità culturali atte a sostentare la loro famiglia ed a dare incremento alla produzione. Non acquista terra chi non ha imparato ad amarla. Chi oggi ha le 3.000 lire (o cent’anni fa le 300) bastevoli ad acquistare una giornata di campo, e poi fra due o tre anni altre 3.000 o 300 lire per acquistare la seconda giornata e così via, non possederà, nove volte su dieci, le 30.000 lire occorrenti per acquistare tutte insieme le 10 giornate. L’unità culturale è concetto irreale, di gente che a tavolino immagina crediti fondiari ed agrari e contadini disposti a farvi ricorso per acquistare o migliorar fondi. Il credito agrario è istituto utilissimo per altri tipi di proprietari e conduttori di terre. Nelle zone agrarie a media e grande proprietà e cultura, là dove proprietari e conduttori hanno altri redditi o capitali mobili bastevoli a farli resistere per qualche anno, il credito agrario può fare miracoli. Il “particolare” per fortuna sua non chiede anzi odia il denaro a mutuo. La terra fa credito e largo credito al suo lavoro. Mentre pianta la vigna o l’oliveto nel campo o nel bosco dissodato, ed aspetta tre o sei o dieci anni l’avvento del frutto, egli va a giornata nei campi altrui. Lì trova un credito, sul quale non corrono scadenze di interessi e di rimborsi.

 

 

Il vincolo della minima unità culturale è sinonimo di manomorta. La terra rimarrebbe nelle mani di chi non vuole o non può farla fruttare. Se fosse rimasta nelle mani della madre e figlia M. M. e G. M. la terra a poco a poco sarebbe degradata allo stato di gerbido incolto. Non sono quotidiani gli esempi di chi, ormai disamorato od inetto, si ostina, mosso dalla speranza di prezzi migliori, a non vendere; ed alla fine deve svendere lui o l’erede, perché il terreno è dilavato, perché nella casa piove attraverso il tetto sconnesso e perché la gramigna nasconde e quasi soffoca i ceppi delle viti? La vendita frazionata di un’antica “unità culturale”, sia pur ridotta al minimo bastevole a far vivere una famiglia colonica, in verità salva l’”unità” medesima, la quale era già morta per difetto dell’uomo atta a conservarla, e nel tempo stesso contribuisce ad integrare altre tre o sei o dieci “unità” che altri uomini, gli uomini nuovi e meritevoli, faticosamente stanno costruendo.

 

 

Chi impedisce la frantumazione al disotto del minimo di ciò che è morto, vieta la costruzione di nuovi minimi vivi. Più, vieta alla lunga ogni costruzione agraria veramente operosa e feconda. Nessuno compera ciò che non può vendere, nessuno investe per perdere il costo dell’investimento. Nelle zone agrarie a piccola proprietà e piccola cultura, alle quali si riferiscono le proposte di riforma al codice civile per quanto ha tratto ai minimi culturali e minimi di impresa, le terre valgono nei limiti in cui è possibile l’acquisto da parte di contadini. Su 100 contadini disposti ad acquistare una giornata di terra, ve n’ha 10 disposti ad acquistare 10 giornate, uno disposto ed atto a pagare il prezzo di 50 giornate, nessuno atto alle 100 giornate. Se il vincolo legale di un minimo rendesse impossibile le frantumazioni al disotto di 10 giornate od anche di 5, i prezzi dei terreni precipiterebbero. Chi sa che i prezzi (P) normalmente non superarono mai in passato e non superano oggi il costo degli investimenti necessari (I) per ridurli a cultura – si facciano i conti e si vedrà che per lo più P – I = – X od al più è uguale a zero – è costretto a concludere che il vincolo, ribassando P, renderebbe palese anche ai ciechi l’assurdità logica di I e farebbe della terra un deserto.

 

 

15. – La riforma del codice civile è uno strumento incongruo e pericoloso per raggiungere un diverso fine, economicamente e socialmente vantaggioso; che è la messa in monte e la redistribuzione dei terreni in date zone di taluni comuni dove la frantumazione della proprietà ha raggiunto davvero limiti pericolosi. Anche in Italia abbiamo ammirato i magnifici risultati ottenuti in qualche caso di messa in monte del territorio di un intero comune, dove gli abitanti conducevano vita grama, perché ognuno di essi era proprietario di venti, trenta, talvolta cinquanta o cento fazzolettini di terra, sparpagliati nelle zone più varie del territorio, con perdite fantastiche di tempo per i lavoratori, con sprechi di sentieri, con servitù fastidiose di passaggi e di scolo di acque, con impedimenti alle trasformazioni agrarie. La messa in monte dei terreni, con la ridistribuzione ai singoli proprietari di poderi compatti, divisi in uno o pochi lotti, fu per quei villaggi vera provvidenza, crebbe la produzione, creò una nuova vita sociale.

 

 

A ciò non giova introdurre nel codice civile norme generiche, atte solo a turbare spontanee vantaggiose divisioni e ricostruzioni di poderi ed a scoraggiare investimenti di capitali. Fa d’uopo una legislazione speciale per quelli che potrebbero essere detti i “monti” della proprietà rustica. Non dovrebbe essere impossibile – e la legislazione tedesca fornisce opportuni spunti in proposito – definire in modo abbastanza preciso i territori nei quali l’ammontamento delle terre è conforme all’interesse generale; né escogitare cautele per garantire le maggioranze dei proprietari contro le iniziative di troppo piccole minoranze, e le minoranze contro la ingordigia di maggioranze vogliose di impadronirsi dei terreni migliori. Gli ufficiali del catasto paiono i meglio tecnicamente preparati per attuare una operazione alla quale la finanza è grandemente interessata per la cresciuta facilità delle stime e delle misure. Le rappresentanze agrarie (federazioni e cattedre ambulanti) dovrebbero volta per volta, dopo accurata inchiesta, segnalare ed identificare le zone nelle quali l’operazione dell’ammontamento si rivela sicuramente vantaggiosa ai singoli ed al tutto. Procedendo su questa via si possono raggiungere risultati altrettanto commendabili quanto invece appaiono funeste le conseguenze di istituti che giuristi benintenzionati ma chiaramente privi di qualsiasi dimestichezza con la terra hanno immaginato a scansare fatti assunti senz’altro come malanni laddove sono invece quasi sempre premessa necessaria di avanzamento economico e sociale.

 

 

16. – Offrire agli uomini atti a dare massimo incremento alla produzione agraria la possibilità di creare e ricreare ad ogni generazione le unità culturali ad essi adatte è la sola esigenza veramente fondamentale alla quale bisogna ubbidire. Attaccarsi a certe immaginate caratteristiche feconde della terra per spingere al massimo la produzione è affrontare stortamente il problema e giungere a risultati opposti a quelli voluti. Vero motore della fecondità della terra è l’uomo. Chi, percorrendo da mezzo secolo le medesime strade di campagna, faccia lo sforzo di riandare ai tempi trascorsi, quante mutazioni vede, pur attraverso l’apparenza delle medesime case e dei medesimi campi e vigneti e prati! Non una di quelle case è oggi quale era dianzi; nuove case sono sorte; son mutate le culture; terreni prosperi e fecondi stanno inselvatichendo e gerbidi incolti sono diventati vigneti fiorenti. La mutazione nell’aspetto esterno non è opera di circostanze naturali od economiche o politiche. Viste costa a costa, le terre ben tenute e quelle degradate smentiscono le teorie dell’ambiente e dei tempi. Passano i flagelli di Dio, l’oidium, la peronospera e la filossera, le grandinate, le gelate e le strette di caldo, passano le tragedie di guerre, di crisi e di rivoluzioni; e v’ha chi cade e chi sta in piedi. La ragione del resistere ai flagelli divini ed umani sta nella laboriosità e nel risparmio, nella vita morigerata, nell’ubbidienza dei figli ai genitori, nella saldezza della famiglia. Di anno in anno, lentamente, i buoni creano l’impresa agraria prospera; bastano ore e giorni ai cattivi per distruggerla. Se il legislatore tenta di vincolare il cattivo e difenderlo contro la sua stessa intemperanza, impedisce per ciò stesso al buono di attendere alla nuova creazione, pone cioè ostacolo gravissimo all’avanzamento della produzione. Cattivi si è non solo e non sempre per ragioni morali; non di rado il buono moralmente si palesa economicamente cattivo. Perché il contadino inurbato, perché il funzionario statale, l’ufficiale dell’esercito, il mercante cittadino, che nella terra vedono oramai solo un investimento fastidioso o una villeggiatura noiosa, con mosche polvere e caldo, e litigano coi coloni intorno a particolari insulsi di uova, di polli e capponi ed hanno sempre in bocca, a testimonianza del proprio assenteismo e della propria inettitudine, il vecchio ritornello dell’invito del mezzadro al “padrone” di venire a dividere la “sua” metà, perché costoro dovrebbero conservare la terra?

 

 

Quanto più presto essi la venderanno tutta insieme o a pezzi e bocconi, tanto meglio per tutti. Se essi non sono in grado di spezzettarla, ci pensino, con vantaggio della terra, la quale opportunamente frantumata andrà a costituire e crescere e condurre all’”optimum” i possessi rustici di contadini forniti delle qualità necessarie, i mercanti di terre; ebrei tra il 1850 ed il 1890 e cristiani oggi. Il buon proprietario fa la terra buona e trova i buoni coloni; il cattivo proprietario isterilisce la terra e si acconta volentieri coi coloni cattivi. Due contadini conducevano al mercato un vitello spelacchiato; il vicino profetò: stasera li vedremo tornare, senza vitello, percorrendo a zig zag la strada, ambedue pieni di vino. Padrone e mezzadro si erano scoperta l’anima gemella e d’accordo disfacevano quel fondo che pure uno di loro aveva, durante il suo tempo virile, saputo creare. Vera riforma, forse la sola davvero utile, sarebbe quella di chi riducesse le spese e imposte di trapasso della terra, che oggi vanno da un minimo dell’8 per cento per i trapassi grossi a massimi normali del 10-20 per cento per i trapassi piccoli e talvolta giungono, in casi di divisioni complicate a punte del 50 e fin del 100 per cento del valore della cosa immobile trasferita. Se le imposte dei trapassi fossero ridotte, nel complesso, a non più del 2 per cento, e se l’opera di intermediazione dei mercanti di terre fosse agevolata, colpendo con un diritto fisso, ad esempio di 10 lire, i compromessi, che fossero seguiti entro l’anno dagli atti definitivi di vendita, quanto più presto vecchie unità agrarie, sedicenti fondi rustici, i quali trascinano vita grama, ombre di quel che erano quando dietro di essi stava un uomo, intendo un uomo innamorato e adatto alla sua terra, riuscirebbero a dissolversi; e quanto più presto al loro luogo sorgerebbero nuove unità, nuovi fondi veramente vivi, perché vivificati dall’uomo!

 

 

17. – Ecco un’altra scheda, racchiusa tra il 1822 ed il 1881. A differenza dell’unità agraria precedente, venuta meno colla morte del creatore, questa vive ancora e prospera nei pronipoti, in cui il buon seme gittato all’inizio del secolo scorso continua a fruttificare. La scheda ci fa assistere all’opera di creazione e di incremento di due generazioni; il padre C. Pietro fu Giuseppe ed il figlio C. Giuseppe fu Pietro. Ancor oggi la continuità del possesso si rispecchia nell’alternanza dei nomi di battesimo, Giuseppe e Pietro.

 

 

18. – Qui sono notabili circostanze diverse da quelle della scheda precedente. B. R. era il tipico contadino fornito esclusivamente delle sue braccia, il quale a poco a poco, anno per anno, pazientemente costruisce la sua modesta fortuna. I C., padre e figlio, hanno altra origine. Dal 1790 al 1822 il loro nome non compare nei libri catastali. Neppure essi possedevano terre. Forse il Pietro esercitava un mestiere nel borgo, dove sin dalla formazione del secondo libro catastale compare possessore di casa. Più probabilmente era un mezzadro, il quale si era fatto un gruzzolo, lui o il padre suo, lavorando su ampio podere altrui. Apparteneva al tipo, di cui si è detto sopra, del contadino “razionale”, il quale sa attendere il momento opportuno per acquistare un podere abbastanza ampio da assorbire le energie sue e della famiglia. Nel 1822 al Pietro si offre una prima occasione ed egli la coglie, acquistando di colpo da un proprietario, appartenente al ceto dei cosidetti “signori”, un podere di 23 giornate 82 tavole e 6 piedi. Per qualche anno egli si contenta di talun piccolo arrotondamento, di brandelli di terra di 34, di 20 e di 13 tavole che una commissione tecnica residente a Cuneo od a Torino, indubbiamente dichiarerebbe oggi inferiori al minimo culturale e perciò inseparabili dal fondo di cui facevano parte, ma che a lui tornava comodo acquistare per integrare i suoi possessi ed ai venditori, per ragioni che sfuggono ai non interessati, riusciva forse ancor più conveniente vendere. Ma dopo 14 anni un altro “signore” vende tutto il suo; ed il Pietro, coll’acquisto di 9 giornate 63 tavole e 6 piedi accresce il podere a 34 giornate e 13 tavole. È un bel podere, tutto posto in regione N., feconda e aperta al sole. Il Pietro, tuttavia, sta con gli occhi aperti; e quando i discendenti di un nobile, conte, eccellenza, gran cancelliere di Savoia, figli di un ministro e nipoti di un vescovo mettono in vendita i possessi aviti, non esita un istante. Stipula, mi par di vederlo, in segreto un compromesso di acquisto presso il notaio degli eccellentissimi eredi residenti in Savoia, e nelle more consentitegli vende tutto il suo ad un amico “particolare”. Se egli avesse raccontato che s’era già obbligato ad acquistare il podere dei nobili signori; i compaesani, pur vogliosi di acquistare il suo, gli avrebbero fatto il vuoto intorno, attendendolo al varco del giorno in cui egli s’era obbligato a pagare il prezzo del nuovo podere, per ridurlo a vendere il vecchio a vil prezzo.

 

 

Invece, il Pietro ha ben manovrato; e dieci mesi dopo aver venduto le sue 34 giornate e 13 tavole ed avere incassato il prezzo, stipula l’atto formale di acquisto del nuovo fondo di 44 giornate e 42 tavole. Gli tocca traversare la collina, aver nuovi vicini, fare altra strada per recarsi ai mercati o alla messa nel borgo; ma il podere è più ampio, la corte è chiusa e tutta sua, la casa è più spaziosa, con traccie di giardino signorile ed una cappella che egli piamente conserva. Vende qualche appezzamento e trasmette al figlio una solida sostanza. Solida, perché fondata sul lavoro e sul risparmio. I C. appartengono oramai a quella sottospecie dei “particolari” che son detti dalle “coste larghe”, a significare che hanno il granaio rifornito, la stalla popolata, gli armadi provvisti di biancheria tessuta in casa, e, forse, almeno così dicono gli amici e gli invidi, qualche terraglia imbucata sotterra in luogo conosciuto solo dal capo della famiglia e dalla moglie e colma di “marenghi” o napoleoni d’oro. Fosse o non fosse colma, qualcosa la terraglia doveva avere in serbo per le contingenze avvenire; ché il Giuseppe, attraverso a qualche andirivieni di piccoli appezzamenti, acquistati e rivenduti, certo senza perdita, o serbati, ne trae fuori il valsente per far acquisto, nella stessa regione di Val P. ed in quelle confinanti di Val I., Val O. ed M., prima di un bel vigneto di 5 giornate 33 tavole e 3 piedi (poco più di 2 ettari) e poi di un secondo podere di 34 giornate 45 tavole e 6 piedi. Sono passati 43 anni da quando il padre si faceva proprietario di terre e 19 dal giorno del baratto del primo podere con il nuovo più ampio. Quante volte il Giuseppe, solo od in compagnia della sua “donna” (il contadino non chiama “moglie” la compagna della sua vita, sibbene “donna”, quasi a significare che nella casa essa è la padrona) sarà andato nella cantina più riposta a vedere se il mucchio dei “marenghi” cresceva abbastanza e se era giunto il momento di attuare, emulando il padre, l’antico sogno di comprare la buona terra vicina, che egli vedeva trascurata dai proprietari. Purtroppo, faceva d’uopo aver pazienza; ché coi “signori”, anche inetti a far fruttare il podere ed anche indebitati, si contratta male. Se costoro vedono avvicinarsi il rustico e chiedere se son disposti a vendere, essi, anche se erano disposti a vendere a 20 mila lire, subito crescono il prezzo a 25; e se il rustico offre le 25, tergiversano e si dimenticano della cifra pronunciata e la crescono a 30. No, non si può trattare coi “signori”. Meglio è aspettare pazientemente che essi si indebitino ancora di più e siano presi alla gola dai creditori; o che muoiano ed i figli o nipoti dalla città lontana incarichino il notaio di farla finita con quella seccatura. Frattanto, i marenghi nella terraglia nascosta continuano di anno in anno a cumularsi ed il mucchio cresciuto consentirà di far contratto migliore. Stavolta, debiti e mala cultura aiutando, la terra del “signore” finisce nelle mani di un forestiero, P. G., che dopo aver barattato danaro dato a mutuo con terre, era pronto a rivendere queste a chi meglio le pagasse. Con i mercanti che ragionano su dati concreti e non su sentimenti e speranze, è facile intendersi; ed il Giuseppe, quasi raddoppiando il possesso paterno, tocca finalmente la vetta delle 80 giornate, 84 tavole e 3 piedi. Oramai, le sorti della famiglia sono sicure.

 

 

Giunta ad essere noverata tra le maggiori “registranti” (registro od estimo) del borgo nativo, aliena da brighe di fazioni paesane, ignota alle osterie, la famiglia ha forte probabilità di serbarsi indipendente per parecchie generazioni. Oggi, sono passati quasi tre quarti di secolo dal giorno in che il Giuseppe, coll’ultimo acquisto, le dava l’indipendenza economica, e la famiglia conserva la situazione economica di un tempo. Qualche gettone irrequieto si è distaccato dal ceppo; ed è stato disinteressato. Il ceppo rimane e gitta ancora virgulti sani e diritti. Altre famiglie contadine, che nel tempo stesso erano sorte ad agiatezza sono invece scomparse, ingoiate dalla città o sommerse nella folla della gente provveduta delle sole braccia. Eppure il podere era ugualmente ampio e forse più fertile. Perché la sorte fu così diversa? Forse una risposta potrebbero darcela, se rivivessero, i parroci del borgo, i quali ne confessarono le donne e conobbero le virtù degli uni e i vizi degli altri.

 

 

19. – Perché i fratelli sono tanto dissimili l’uno dall’altro? Ecco la storia di una famiglia dal 1790 al 1880:

 

 

  • R. Giovanni Antonio fu Bartolomeo (da 11.70. -. a 15.70. 6)
  • Celso Francesco (da 8. 9. -. a 34.33.9) (da 7.61.3. a zero)
  • Giovanni Antonio Luigi Giovanni Bartolomeo (da 8.92.9 (da 9.22.-. (da 8.46.6 a 15.27.-.) a 17.88.9) a 8.91.6)
  • Giuseppe, Giovanni e Luigi (8.48.-.)

 

 

Non riproduco, per non tediare, l’intera scheda; ma le cifre segnate tra parentesi sotto ciascun nome narrano il successo o l’insuccesso dei membri della famiglia. Il padre, Giovanni – Antonio, nasce al nuovo catasto formato nel 1790, con un possesso di 11 giornate e 70 tavole. Con 15 atti di acquisto ed 1 di vendita, il più vistoso dei quali si riferisce ad 1 giornata 79 tavole e 3 piedi di vigneto ed il più piccolo a 10 tavole (381 m.q.) di prato, egli cresce il suo possesso a 15 giornate 70 tavole e 6 piedi. I figli, Celso e Francesco, morto il padre, con atto 21 settembre 1829, dividono l’asse paterno assegnando 8 giornate e 9 tavole al Celso e 7 giornate 61 tavole e 3 piedi al Francesco. Il punto di partenza, nella corsa della vita, è equo per i due fratelli. La piccola differenza di superficie ha per iscopo di uguagliare i valori economici delle due porzioni. Salvo circostanze particolarissime, il padre riduce sempre le femmine alla legittima, ma tratta con uguaglianza assoluta i maschi. Il che risponde ad equità. Le femmine sono andate spose, abbandonando la casa paterna; i maschi sono rimasti ed hanno collaborato alla costruzione ed alla continuazione della fortuna famigliare. Perché il padre si induca ad avvantaggiare l’uno sull’altro maschio occorre che un figlio sia uscito di casa, si sia fatto prete, o, coll’aiuto dei suoi, si sia altrimenti assicurata una esistenza indipendente. Ripugna in tal caso a giustizia equitativa che il figlio divenuto estraneo all’opera comune partecipi ai frutti di questa al par di coloro i quali faticarono col padre a crescere e migliorare l’asse comune. Qui, Celso e Francesco avevano ambi ugualmente meritato e ricevettero porzione uguale.

 

 

20. – Non passano vent’anni e Francesco più non esiste. S’erano spartiti casa e vigne e campi e stavano uscio ad uscio nei due spicchi della vecchia casa paterna; ma già il 23 luglio 1835 il Francesco vende 2 giornate e 99 tavole. Era, a quanto appare, una vendita con facoltà di riscatto, a garanzia di mutuo. Per quella volta, il Francesco si salva, ché, poco prima della scadenza del biennio, il 12 luglio del 1837, egli acquista le stesse 2 giornate e 99 tavole e rifà il podere. Ma nel 1842 questo comincia ad essere intaccato in modo definitivo; con due vendite di 54 tavole e 6 piedi e di 20 tavole e 6 piedi, il fondarello da 7 giornate 61 tavole e 6 piedi è ridotto a 6 giornate 86 tavole e 6 piedi. Chi ha cominciato a far debiti, ha scoperto la via facile di godere subito senza sudare. Nel 1849 i creditori sono costretti, per ripagarsi di capitale ed interessi, a mandare all’incanto le poche terre del Francesco, le quali con sentenza del 28 marzo del 1849 del tribunale provinciale sono assegnate al più alto offerente. Il Francesco è decotto e scompare per sempre dai libri fondiari.

 

 

Forse l’avrà accolto in casa a servizio il fratello Celso, il quale, essendo stato l’offerente migliore, aveva così ricostituito il podere paterno. Frattanto, negli anni dal 1829 al 1849, egli, diverso dal fratello, col lavoro accanito e col risparmio aveva con tre piccoli acquisti, dei quali uno di sole 3 tavole e 6 piedi di una particella d’aia e di prato confinante col suo, arrotondato le 8 giornate e 9 tavole ricevute dal padre, sicché quando riesce a trattenere in famiglia le terre “consumate” dal fratello, egli possiede 15 giornate 45 tavole e 6 piedi.

 

 

Dopo, l’ascesa è continua. Attraverso a 6 atti di acquisto (nessuna vendita) egli giunge il 18 marzo 1865 a possedere 34 giornate 33 tavole e 9 piedi. L’acquisto più grosso, è di vigneti, campi, prati e case, per 9 giornate ed 11 tavole, vendutigli dalla ditta di mercanti ebrei, la quale, in quel tempo, dava opera a liquidare gli inetti ed a trasferire la terra ai capaci. Se erano bastati 20 anni al dilapidatore Francesco per ridursi dalle 7 giornate 61 tavole e 3 piedi ereditate dal padre al nulla, in 36 anni il risparmiatore Celso era riuscito a più che raddoppiare l’antico asse paterno.

 

 

Quand’egli muore il 9 ottobre del 1865, “previo”, è la consueta formula dell’ufficiale del catasto, testamento del 7 dello stesso mese – probabilmente v’era qualche femmina da disinteressare, ché il “previo” testamento in limine mortis sarebbe stato altrimenti superfluo – i tre figli Giovanni Antonio, Luigi e Giovanni ed i nipoti Giuseppe, Giovanni e Luigi nati dal figlio premorto Bartolomeo, per un paio d’anni coltivano indivisi l’asse avito ed anzi lo crescono, con una minuta rettifica di limiti ed un acquisto di 79 tavole e 9 piedi; ma il 13 gennaio del 1867 procedono alla divisione assegnando a ciascuno dei quattro stipiti un lotto suppergiù uguale, 9 giornate a testa. Sono tutti quattro di buona razza contadina. I nipoti, probabilmente minori di età, tra il 1867 e il 1880 si limitano a conservare le 8 giornate e 48 tavole ricevute dal nonno. Dei figli, il Giovanni non fa gran strada; ché solo il 19 novembre 1879 aggiunge 45 tavole di seminativo alle 8 giornate 46 tavole e 6 piedi avute dal padre. Forse le forze gli bastavano appena a coltivare quel poco, e questo non era così poco da non dargli, se ben coltivato, il bastevole per vivere. Gli altri due, tengono più del padre; Giovanni Antonio con sette atti di acquisto (nessuno di vendita) estesi da un minimo di 4 tavole e 3 piedi (circa 162 m.q.) di ripa prativa ad un massimo di 3 giornate di prati e campi, acquistate con l’intermediazione della solita ditta di mercanti ebrei, reca il 25 maggio del 1880 il suo possesso a 15 giornate e 27 tavole. Luigi è ancor più risoluto; subito dopo l’atto di divisione, il quale gli aveva assegnato 9 giornate e 22 tavole, acquista il 15 luglio 1868 in blocco 7 giornate e 47 tavole da certi contadini suoi vicini; e poi cresce ancora il podere con due minori acquisti del 1872 (79 tavole e 9 piedi) e del 1876 (40 tavole), giungendo così a 17 giornate 88 tavole e 9 piedi. Il nonno, buonanima, pur col tanto faticare, in quarant’anni non era riuscito a tanto! Questa è la storia di un’umile famiglia di contadini piemontesi nelle tre generazioni dal 1790 al 1880. Dall’unico ceppo e nonostante che una branca principale sia stata abbattuta dal vento delle passioni, sono usciti quattro rami fecondi; in 90 anni le 11 giornate e 70 tavole originarie sono diventate 50 giornate e 55 tavole e 3 piedi. Della famiglia hanno fatto parte un dilapidatore, due conservatori e quattro risparmiatori progressivi. Non gli uomini si sono adattati al podere; bensì il podere ha rispecchiato il volto dell’uomo; è cresciuto e si è abbellito quando l’uomo lo curava e lo amava e lo desiderava ed è fuggito quando l’uomo gli preferiva il gioco nelle veglie invernali della stalla, od il vino all’osteria.

 

 

22. – “Cui bono” se un articolo del codice albertino o di quello del 1865 avesse posto vincoli alle alienazioni da parte del predestinato alla rovina, alle utili intermediazioni dei mercanti, ai convenienti trapassi di minute frazioni di terra dall’uno all’altro contadino? Quando il Celso acquista il 19 aprile del 1831 un appezzamento di appena 3 tavole e 6 piedi (133 m.q.), quello e`, sì, un brandello di terra. Ma quel brandello è aja e prato adiacente alla casa; e vuol dire, probabilmente, acquisto di un prezioso diritto di passaggio, allontanamento di galline del vicino dall’orto, libertà di muoversi attorno a casa. Faremo ad ogni volta si presenti un caso cosiffatto – e son frequentissimi e sono il frutto di lunghi ardui negoziati, di assaggi ripetuti, di risse furibonde fra i galli dei pollai rivali e di querele fra comari stizzose – intervenire un ispettore dal capoluogo della provincia a giudicare se siano osservate le norme regolatrici dei minimi delle unità culturali? Tra un fantoccio, chiamato “unità culturale”, frutto di elucubrazioni libresche e calcoli di tavolino e l’uomo vivo, scelgo l’uomo. Il fantoccio vuol dire cartacce, ispezioni, diarie, terra isterilita dal grave pietrame dei vincoli legali. L’uomo può fallare; ma la terra lo abbandona e da se` corre verso chi la vuole e la merita.

 

 

23. – “Cui bono” se nel 1829 una norma simile a quella proposta dagli odierni riformatori avesse dato facoltà al tribunale di assegnare l’intiera impresa paterna ad uno dei figli? Certo il tecnico dell’ufficio provinciale dell’agricoltura avrebbe riferito al tribunale che, dati i metodi culturali del tempo, quando il frumento fruttava a stento le 5 semenze, le 15 giornate 70 tavole e 6 piedi, essendo a mala pena sufficienti a far vivere una famiglia, formavano “un’entità economica indivisibile”. Poiché l’esercizio dell’impresa in comune per volontà concorde dei due fratelli sarebbe probabilmente apparso impossibile – la divisione effettuata ed il contrasto nell’indole dei due fratelli ne son prova – il tribunale avrebbe dovuto attribuire l’intiero fondo a quello dei coeredi che fosse stato “disposto ad accettarne l’attribuzione” e fosse stato meglio “ritenuto idoneo ad assumerne l’impegno” (art. 125 del libro terzo del progetto definitivo).

 

 

Chi dei due, Celso o Francesco, era disposto? Non si offre ipotesi azzardata supponendo che il Francesco fosse più sollecito a farsi innanzi. Chi non riflette alla gravità degli impegni assunti – obbligo di pagare entro tre anni in contanti la quota dovuta al fratello e di corrispondere nel frattempo l’interesse del 4 per cento – è colui che i fatti dimostrarono essere propenso ad indebitarsi ovvero quegli che coi sudati risparmi a poco a poco crebbe l’asse ricevuto dal padre? Il contadino prudente non contrae debiti, ed il Celso, uomo prudente, avrebbe assunto solo gli impegni che era sicuro di poter osservare. Egli non avrebbe osato correre il rischio della quasi sicura rovina coll’obbligarsi a disinteressare il fratello entro tre anni per un importo uguale al valore della metà del fondo ereditato. Solo “disposto” essendo il Francesco, entro tre anni avrebbe avuto fatalmente luogo la liquidazione giudiziaria, con conseguenze disastrose per il fratello cattivo e per quello buono. Chi dei due il più “idoneo”? Il tribunale avrebbe dovuto “sentire” ambi gli aspiranti, l’uno, Francesco, pronto ad accollarsi l’esercizio dell’impresa paterna, l’altro, Celso, a ciò restio e di null’altro desideroso fuorché di ricevere la parte sua. Chi dei due più atto ad usare linguaggio cattivante? Chi più abile ad argomentare nell’interesse generale della produzione? Il Celso, il quale pensa solo a sé ed alla parte sua e fa figura di meschino egoista, od il Francesco, il quale confonde il proprio coll’altrui e si appresta a “consumare” l’eredità? Poiché bisogna, al par degli storici ragionanti sulle scarse fonti di Roma repubblicana, abbondare in ipotesi, mi guardo attorno e vedo altri Celsi ed altri Franceschi, diversi d’indole, sebbene o forse perché fratelli. I Celsi sono mutoli e poco comunicativi; attendono alle faccende proprie e non si immischiano nelle altrui; non sono frequentatori di mercati ed assistono la domenica alla prima messa per essere di ritorno per tempo a governare i buoi nella stalla. Il notaio, perito dell’indole dei contadini, quando deve redigere un atto non fa domande; ma a poco a poco, enunciando intenzionalmente concetti contrari a quelli che egli suppone essere i veri, dalle monche negative trae lume a chiarire le intenzioni. I Franceschi sono talvolta oratori nati, sempre chiacchieroni e persuasivi; abilissimi a colorire la repugnanza alla fatica e la volontà di godere che sono loro proprie come fossero disgrazie della stagione, avversità dei tempi e colpe altrui. Se una lunga esperienza di rustici non soccorra, il giudice scambierà la muta diffidenza di Celso per caparbietà egoistica e le facili profferte di Francesco per apertura di mente e spirito innovatore. Accadde anche a me nei primi tempi di errare nel giudizio comparativo tra fratelli. Ne conobbi due, dei quali l’uno, finché stette a servizio altrui, pareva si compiacesse nel far cadere sull’altro la soma della fatica, e, minaccioso ed arrogante, non di rado si assentava dal lavoro o frequentava mercati o bazzicava con giocatori, e poscia si impazientiva ai richiami dei vecchi e del fratello. L’altro, ognora oppresso dal lavoro che tutto ricadeva su di lui, era tuttavia sempre pronto a far del suo meglio, a far “quanto per lui si poteva”, com’e`, ma lo imparai dopo, la frase usata da chi vuol metter le mani avanti ed è ben deciso a non far nulla di ciò di cui si tratta. Erano i soliti Celsi e Franceschi. Chiunque li avesse trattati, senza lunga esperienza delle cose rustiche, avrebbe giudicato: appena costoro si divideranno l’asse paterno (un modesto fondo che i due fratelli coltivavano pur rimanendo a servizio altrui) Celso si giocherà la parte sua e Francesco la crescerà e prospererà. Invece, appena celebrato l’atto di divisione, oh miracolo! quel Celso che prima bestemmiava il lavoro ed imprecava ai suoi, si vide che repugnava non al lavoro ma a faticare per la cosa comune. Rimasto solo, e presa moglie ubbidiente, eccolo, ottimo fra i lavoratori, faticare da mattina a sera sui campi, portar pietre e sabbia e legname per riattare ed ampliare una vecchia casa subito acquistata a buon prezzo; eccolo allevare con cura quel bestiame, che prima, quando era di proprietà comune, maltrattava; eccolo nell’inverno, quando tacciono le cure dei campi, frequentar mercati e far buon negozio di pecore e vacche; eccolo ancora frequentare osterie, intento più a far bere gli altri che a scemare la propria lucidità di mente nel definire un contratto a tempo opportuno. Oggi, provvisto di moglie e figli, egli possiede casa spaziosa e terreni ampliati, sì da guardare con sicurezza al giorno in che, per la sua dipartita, i figli dovranno spartirsi le terre sue. E Francesco? Non giocatore, buono, amante della famiglia, era tuttavia di quei tanti che del lavoro compiuto amano discorrere tanto più quanto di fatto val meno; che sono sempre pronti a far “quel che possono”, ma il “volere” sta a gran distanza dall’astratto “desiderare”; che hanno poca autorità sulla famiglia e male abituano i figli alla tenace fatica ed al paziente aspettare. Sicché, quando egli morì, insieme con la terra lasciò ai figli qualche debito e, più, la propensione a contrarne altri e lo scarso attaccamento alla levata mattutina anzi sole ed al lavoro di vanga e zappa. Perciò i figli sen vanno oggi raminghi pel mondo, provvisti delle sole braccia. Eppure, quarant’anni addietro, il giudice incaricato di applicare l’art. 125 del libro terzo del progetto definitivo del nuovo codice civile, avrebbe quasi certamente assegnato al Francesco piuttostoché al Celso l’indivisibile fondo paterno.

 

 

Ripeto: “l’unità culturale”, il “fondo indivisibile”, sono fantocci libreschi, temi offerti a dissertazioni di laurea od a titoli per libera docenza in economica agraria. La realtà è l’uomo che crea quelle unità e quei fondi.

 

 

24. – Perché i giovani studiosi, invece di correre dietro ai tanti fantocci prolificati dalle esigenze concursali o trasmigrati da un paese all’altro lungo la scia delle contrastanti ideologie sociali, non chiedono ai libri catastali il segreto delle mutazioni nella faccia della terra e nella struttura delle società agricole? Probabilmente non esiste alcun segreto; ché nei vangeli e nei proverbi dei popoli tutto è stato detto. A riaffermare le verità antiche fa d’uopo tuttavia lunga fatica nel cumulare, per anni, centinaia e migliaia di schede famigliari. Poiché la mia fatica, anche ristretta a breve territorio, è lontanissima dalla conclusione, non voglio qui concludere. Alla meditazione di coloro i quali stanno per decidere intorno ad istituti destinati a durare nei secoli, offro quesiti e dubbi.

 

 

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