Opera Omnia Luigi Einaudi

Mali secolari ed energie nuove. Le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/08/1911

Mali secolari ed energie nuove. Le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo

«Corriere della Sera»,12 agosto 1911[1], 16 agosto 1911[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 359-368

 

 

 

 

1

 

Sono venuti alla luce gli ultimi volumi della grande inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno e nella Sicilia. Comprendono le relazioni parlamentari, riassuntive e brevi, sulle Puglie dell’on. Giusso, sulla Sicilia dell’on. Carlo Ferraris, una diligentissima monografia del segretario generale della commissione, prof. Francesco Coletti sulle Classi sociali e la delinquenza in Italia; monografia, in cui si mettono in luce, con dati nuovi e sapienti elaborazioni, i mutamenti più recenti nella delinquenza e le loro caratteristiche differenze tra regione e regione, classe e classe. Chiude la serie la relazione finale del presidente della commissione, sen. Eugenio Faina. Sarebbero meritevoli amendue, la monografia del Coletti e la relazione del Faina, di un riassunto: minuta ed acutissima la prima; ampia, dal largo disegno e dalle belle proporzioni la seconda. Ma in un articolo di giornale un riassunto completo, che non si riduca ad un arido schema, è impossibile e poco proficuo. Coloro i quali vogliono formarsi un’idea di cos’è il mezzogiorno agricolo, dei suoi mali e dei rimedi possibili, assurdi od efficaci, leggano la relazione Faina, dove il problema solenne è esposto nelle sue grandi linee con serenità di storico ed eloquenza di patriotta. Dovrebbero essere in molti a leggerlo; e mi auguro che, come già si fece con la famosa relazione Jacini sull’inchiesta agraria, ne sia data alla luce una edizione maneggevole, accessibile alle borse più modeste. A che giova stampar libri, se le edizioni sono in quarto e bisogna richiederli in dono (è vero che sono signorilmente distribuiti) o comprarli – sia pure a prezzi mitissimi – da pochi librai non a tutti conosciuti? Ed un altro augurio devo fare: che l’inchiesta, ora compiuta per la metà d’Italia e la più difficile ad essere visitata e conosciuta, venga estesa a tutto il paese. Ora che l’organizzazione inquirente esiste e l’esperienza l’ha addestrata a sempre meglio funzionare, con altre 100.000 lire di spesa si potrebbe triplicare il pregio delle non so se 200 o 300.000 lire che si sono spese per il mezzogiorno. A trent’anni di distanza dall’inchiesta Jacini, si avrebbe una nuova inchiesta agraria, compiuta per tutta Italia, la quale, coll’aiuto del catasto agrario del Valenti, darebbe un’idea di quel che sono oggi agricoltura ed agricoltori in Italia.

 

 

Gioverà frattanto dalla relazione Faina estrarre talune idee fondamentali, di quelle idee che illuminano e che possono guidare gli uomini d’azione ed i legislatori. Una di queste idee fondamentali è che il male è antico. Chi non ha sentito parlare del diboscamento come di una delle maggiori cause di rovina della terra meridionale? Riassunsi nell’anno scorso il libro unilaterale ma forte, insistente ma efficace di Francesco Nitti sulla Basilicata e le Calabrie, che era tutto un quadro dei mali che erano prodotti dal diboscamento e dalla malaria; e dalla malaria come conseguenza fatale del diboscamento, della rovina delle terre alte e dall’impaludarsi delle terre basse.

 

 

Orbene, il diboscamento è reale; ma è antico, anteriore al 1860. Anche sotto i Borboni, anzi sovratutto sotto i Borboni, l’ascia lavorava ad abbattere alberi; né a caso i poeti hanno cantato da gran tempo la “calva” Italia. Già fin da quando il sud era unito in un regno autonomo né gli uomini del nord avevano, con l’indemaniazione e la vendita dei beni ecclesiastici e con l’apertura di nuovi mercati, spinto gli agricoltori meridionali a sfruttare all’estremo le pendici dei colli e dei monti, già fin da allora i colli ed i monti eran privi della loro frondosa chioma di alberi secolari. Il Faina ne dà le prove statistiche, tratte dalle due fonti più attendibili, la statistica forestale del 1870 ed il nuovo catasto agrario. La statistica forestale del 1870 era stata eseguita mediante ispezione diretta e riportava separatamente comune per comune la superficie boscata, bosco per bosco il nome del proprietario e regione per regione le essenze dominanti e il tipo di gestione forestale. Il nuovo catasto agrario del Valenti ha tenuto conto solo delle superfici destinate effettivamente a bosco, distinguendole non solo dai prati e pascoli ma anche dall’incolto produttivo (rupi boscate, zerbi, brughiere, ecc.) e dallo sterile per natura. Secondo queste due fonti, che sono le sole attendibili, nel 1870 vi erano nel mezzogiorno e in Sicilia 1.225.000 ettari a bosco; nel 1909 gli ettari erano aumentati leggermente a 1.254.677. Poiché dal 1860 al 1870 si tagliarono pochissimi boschi, è evidente che i boschi erano scarsi già fin da prima del 1860. Forse sui risultati influì il criterio più restrittivo usato nella statistica del 1870; forse nel catasto agrario furono considerati boschi anche terreni in cui gli alberi sono relativamente radi; ma sembra indiscutibile che il male sia vecchio.

 

 

Il Faina osserva che in altri tempi solo pochi studiosi notavano lo squallore delle pendici denudate e i danni che ne derivavano; oggi invece, affinato ed esteso il senso del bello e dell’utile, quello spettacolo colpisce tutti e fa l’impressione di una cosa nuova, mentre è solo una cosa vecchia nuovamente osservata.

 

 

Altra leggenda che corre è che prima del 1860 la pastorizia fiorisse nel mezzogiorno e che greggi innumerevoli di bovini e di pecore pascolassero i campi e branchi di porci popolassero i boschi. Ma i vecchi censimenti del 1876 per i cavalli ed i muli e del 1881 per gli altri animali confrontati con il censimento del 1908, porterebbero a diverse conclusioni: i cavalli essendo aumentati del 64%, i muli ed i bardotti del 35%, gli asini del 64%, i bovini del 46%, i bufali del 25%, i suini del 123%, gli ovini del 38% ed i caprini del 58 percento. Pure ammettendo che i vecchi censimenti siano errati in meno, sembra certo che quella delle greggi innumerevoli di mezzo secolo fa sia da relegarsi tra le leggende. Il sud da ricco non è divenuto agrariamente povero. Un certo progresso si è verificato; alcune culture ricche si sono diffuse; l’emigrazione ha rialzato i salari ed ha fatto sì che il lavoro abbondi. Ma non bastano 50 anni, di cui molti travagliati dal brigantaggio e dalle crisi, a guarire un paese da mali accumulati da secoli.

 

 

La commissione d’inchiesta ha veduto che era impossibile sollevare l’agricoltura e le classi agricole meridionali con rimedi facili, rapidi e con provvedimenti legislativi. Poche proposte di provvedimenti legislativi essa ha fatto, e queste con grande prudenza. Di ciò glie ne va data gran lode, perché quel che il tempo ha fatto di male, solo col trascorrere del tempo e col trasformarsi dell’ambiente sociale – opera sempre più lunga e difficile del fabbricar leggi – può essere disfatto. Il Faina ha veduto che il problema meridionale non è un problema semplicemente tecnico ed economico ma è sovratutto un problema morale. Questa è una grande verità che sovratutto noi economisti dobbiamo altamente proclamare. Il Faina ha scritto una stupenda pagina che è bene riprodurre, perché sintetizza un pensiero fecondo: la lotta per la redenzione del mezzogiorno deve essere rivolta specialmente a migliorare la pianta uomo.

 

 

La terra perduta può riguadagnarsi col rivestimento a bosco ed a pascolo in montagna e con la bonifica idraulica in pianura, e bonifica e chinino alleati finiranno per aver ragione della malaria. Utilizzando le risorse economiche dell’emigrazione si può costituire una nuova classe sociale, quella dei proprietari coltivatori, e forse il lavoro tenace otterrà un aumento di produzione anche là dove il capitale non lo ha tentato o non è riuscito. Ma tutto ciò, e altro ancora, e i provvedimenti richiesti o proposti, quando anche, profondendo denaro, fosse possibile attuarli tutti, non risolverebbero il problema meridionale, perché la causa vera di tutti i mali lamentati è il basso livello intellettuale e morale delle classi agricole lavoratrici, e non di quelle solamente.

 

 

Qui si parrà la nobiltà della missione dello stato, il quale finora si è valso della miseria economica degli uomini per asservirli politicamente, mentre dovrà in avvenire elevarli per renderli veramente liberi ed indipendenti. Continua il Faina:

 

 

Molto potrà fare la scuola, se sarà veramente educatrice, al di fuori e al di sopra delle gare e delle lotte dei partiti politici e personali, ma è illusione credere che basti la scuola. Ciò che è essenzialmente necessario, e senza il quale né forza di leggi, né forza di denaro riusciranno mai, è onestà di governo, giustizia amministrativa. Il governo parlamentare suppone nelle masse elettorali coltura intellettuale, indipendenza economica, moralità e coscienza politica, qualità che difettavano più o meno nelle nostre popolazioni, e in qual misura difettino ancora nelle plebi rurali del mezzogiorno è stato dimostrato dall’inchiesta. Si è cercato, con successive modificazioni alla legge elettorale, di trovare lo strato sociale che rappresenti una opinione popolare illuminata, onesta e cosciente, per affidare a questo, con la preponderanza numerica dei voti, le sorti del paese, ma non si è ancora trovato. Intanto, sia realtà o leggenda (e la leggenda è dannosa poco meno della realtà) il pubblico ritiene che alle male conseguenze del contrasto tra le esigenze teoriche di un governo parlamentare e le condizioni reali del paese, sovratutto là dove il contrasto era maggiore, tutti i ministeri indistintamente non abbiano saputo trovare altro riparo che l’intervento più o meno larvato nelle elezioni, non per mezzo di corruzione diretta, ch’è accusa ingiusta e sfatata, ma consentendo e tollerando che le potenze e prepotenze locali, in cambio dell’appoggio dato al governo e forti del suo favore, esercitino una indebita influenza in pro degli amici e a danno degli avversari, creando una rete inestricabile di interessi inconfessati e inconfessabili fra governo e uomini parlamentari. Un’altra leggenda ancora si è formata, e molti indizi l’accreditano, cioè che nel mezzogiorno e nelle isole, considerati come luoghi di punizione, si trasferiscano tutti gli impiegati che hanno fatto cattiva prova altrove; anche quelli, e sono i più, che vi sono destinati, pur non avendo addebiti, vanno di mala voglia in quelle residenze, non hanno il tatto di nascondere il loro malumore e brigano in tutti i modi per essere traslocati; i soli che le ricercano sono coloro che hanno in un dato luogo interessi di famiglia o di affari e che per questo solo sarebbero i meno indicati. Con un siffatto personale, con le dipendenze elettorali, e con le difficoltà che le rappresentanze politiche, sotto la pressione di esigenze locali, creano al governo, quali che siano gli uomini al potere, nessun ministero può esercitare azione moralizzatrice là dove proprio ne sarebbe maggiore il bisogno. La grande riforma, più ancora che nei sistemi, deve farsi nei metodi elettorali e nei costumi politici di coloro che aspirano all’alto onore di sedere in parlamento, poi nel personale, che rappresenta ed incarna nelle provincie l’azione del governo. Opera lenta e difficile la prima, meno assai la seconda. Si trasformino i luoghi dove maggiore è la delinquenza, l’ignoranza, la insalubrità, la mancanza di viabilità, di cultura intellettuale, di agi civili, da luoghi di punizione in posti di onore, ai quali solo i migliori funzionari possano aspirare. A questi si accordino forti indennità di residenza, vantaggi di carriera, attrattive materiali e morali di ogni sorta e, quando abbiano fatto buona prova, meritato e ottenuto promozioni, si lascino ancora sul posto sia pure con grado superiore alla funzione. Ci vogliono in tutti i rami dell’amministrazione uomini integri, intelligenti ed energici, capaci di resistere a qualsiasi pressione, salga dal basso o scenda dall’alto. Solo con tali elementi un governo onesto può sperare di riuscire; e quando tutto ciò non bastasse, un ministero che preferisse cadere – e cadesse – piuttosto che cedere solo a una indebita ingerenza avrebbe reso un grande servizio al paese e tracciata finalmente la via da seguire, perché la questione agraria meridionale è sovratutto una questione morale.

 

 

La commissione d’inchiesta, insistendo sul dovere dello stato di instaurare il regno della giustizia e della rigida amministrazione, non ha voluto affermare che lo stato non debba far nulla per rimboschire, bonificare paludi, costruire strade. Queste sono le grandi opere della civiltà che altri non compirebbe o non compirebbe nella misura necessaria e che spettano perciò all’ente pubblico massimo. Ma non dimentichi lo stato che il suo compito primo è pur sempre quello del rendere a ciascuno ciò che a ciascuno è dovuto e dell’impedire sopraffazioni di classi o di persone. Solo in un paese dove la giustizia regni possono fiorire le iniziative individuali e compiersi i grandi progressi economici.

 

 

2

 

L’abuso e il favoritismo corrompono l’elettore; i desideri di questo guastano i rappresentanti; ed il governo, che dei voti di costoro ha bisogno, deve largire favori, i quali, appunto perché son favori, vantaggiano i pochi e danneggiano i molti.

 

 

Perché questi principii non rimangano voti astratti, aspirazioni generose di menti elette è d’uopo che sorgano forze sociali le quali inducano i governanti ad intendere la loro funzione di dispensieri di giustizia, e di rigida ed imparziale amministrazione e svezzino i governati dal chiedere favori per gli oziosi e protezioni per i sopraffatori. Noi che viviamo nel nord ed abbiamo un concetto (ahimè troppo elevato) della nostra moralità politica siamo facilmente indotti a ritenere che occorre importare nel mezzogiorno questi beni supremi del vivere civile: giustizia e buona amministrazione. Per contrapposto, non pochi uomini del sud sono pronti a dare ai settentrionali la colpa di tutte le loro miserie, del loro impoverimento, gridano di essere sfruttati ed aspettano i rivendicatori dei loro conculcati diritti. Errano amendue, poiché la risurrezione morale, intima, il ricostituirsi delle energie spirituali dalle quali dipende la risurrezione economica non può essere un bene di importazione, e d’altra parte, finché un popolo è persuaso che la propria miseria è dovuta a colpa altrui, allo sfruttamento d’altri, quel popolo si sterilirà in una inutile agitazione politica. Le classi che ascendono non sono quelle che perpetuamente si lagnano di essere sfruttate; son quelle che energicamente lavorano, lottano per migliorare se stesse e per sopravanzare quelle che non adempiono ad un compito utile. Così ogni popolo deve cercare e creare in se stesso le ragioni del proprio perfezionamento. Finora gli uomini del mezzogiorno hanno troppo sperato dallo stato; hanno troppo accusato gli altri di essere cagione delle loro sventure economiche. Ed i governi hanno creduto che bastasse largire o promettere milioni per sanare tutti i mali del mezzogiorno. Si diano pure i milioni per le spese urgenti della civiltà: rimboschimenti, bonifiche e scuole; ma si persuadano tutti che l’aiuto economico non basta. Gli uomini del mezzogiorno devono, essi, imporre al governo di non essere più manutengolo di partiti politici e dispensiere di favoritismi amministrativi; perché chi riceve favori diventa servo. Gli uomini del mezzogiorno inoltre debbono cercare essi, col proprio sforzo individuale, le vie della risurrezione. Perché colui che da dolo è riuscito ad acquistare sapienza e ricchezza per dieci è infinitamente più ricco di colui al quale da altri è stata largita ricchezza o sapienza per cento. Il primo è della razza degli uomini insoddisfatti e laboriosi che creano gli imperi; il secondo fu ed è un membro inutile del gregge muto vivente nelle epoche in cui gli imperi decadono.

 

 

Faina ha pagine eloquenti su questa verità fondamentale dimostrata dall’inchiesta. Parlando della terra, dice:

 

 

Il problema agricolo meridionale è tutto qui: applicare alla trasformazione del fondo e alla sua riduzione a coltura intensiva o estensiva intensificata, intelligenza e lavoro in larga proporzione ed in via straordinaria, ossia in più di quel che occorra per la ordinaria coltivazione annuale. Ma per arrivare a tanto su chi si può fare assegnamento? Vi sono alcuni che nel desiderio di raggiungere più presto lo scopo invocano l’intervento di energie estranee alla regione, siano esse di proprietari, affittuari o coloni. Tentativi in questo senso furono fatti ma o non riuscirono o rimasero casi isolati, ed era naturale. La immigrazione di intelligenze, di capitali ed in parte anche di maestranze in paesi di antica civiltà, può essere utile e feconda quando sia applicata alle industrie e al commercio, ed il fenomeno che si è verificato e va verificandosi in Lombardia può ripetersi per il mezzogiorno, quando sia facilitato da favorevoli condizioni naturali ed aiutato da temporanei privilegi; ma ritenere che ciò possa verificarsi anche nella cultura della terra è, più che un’illusione, un sogno. Troppe sono ancora le terre libere nel nuovo come nel vecchio mondo che si offrono gratuitamente agli arditi intraprenditori, perché questi, tranne nei casi eccezionalissimi, possano trovare la convenienza di preferire le nostre, esaurite da produzione millenaria, gravate di oneri e di imposte, e, fra queste, proprio le più desolate, quelle di cui nemmeno gli indigeni vogliono sapere e che pure sono le sole per le quali s’invoca il loro intervento. La riduzione a cultura delle terre povere e la stessa intensificazione nelle zone irrigue non può essere opera che della gente del luogo, come la marcita e la risaia lo sono dei lombardi, il podere dei toscani, com’è gloria dei pugliesi la vigna, dei siciliani i giardini di agrumi, dei campani la meravigliosa redenzione della costa fra Napoli e Salerno e dei calabresi quella delle pendici lungo il Tirreno. È solo dai meridionali che l’agricoltura del mezzogiorno attende il suo risorgimento, ed i primi indicati sono naturalmente i grandi e i medi proprietari, coloro cioè che possiedono la terra in misura tale da poter vivere con sufficiente agiatezza del reddito netto ottenuto dai propri fondi senza essere obbligati ad impiegare altrove la loro attività. Essi per la stessa posizione sociale hanno stimolo e modo di acquistare una certa coltura intellettuale, e, solo che limitino il tenor di vita, possono, senza gravi sacrifici, dedicare l’opera propria e parte della rendita alla redenzione dei propri fondi. Utilissimi sovratutto i contadini che nell’emigrazione accumularono un piccolo capitale. Costituiscono essi l’elemento fisicamente più robusto, intellettualmente più colto, moralmente più energico della classe contadina, hanno le abitudini personali più propizie per diventare validi agricoltori ed utili cittadini; possiedono un capitale iniziale, per quanto modesto, ed un certo attaccamento al paese se non alla professione. Manca però anche a loro l’educazione morale e tecnica prima della partenza e dopo il ritorno, e sovratutto manca la terra a buon mercato e almeno a prezzo normale di reddito capitalizzato. L’emigrante meridionale non è apprezzato al suo giusto valore. Non bisogna vedere in lui il cattivo cittadino che abbandona una patria, di cui si è disamorato, ma l’uomo energico e previdente che affronta i rischi e i disagi dell’ignoto per raccogliere i capitali con i quali feconderà al ritorno la terra che lo vide nascere, dove conta formare il suo nido.

 

 

Molto si può sperare da questo movimento autoctono, che non è soltanto un movimento economico, ma è anche un movimento educativo-morale. Sono gli emigranti, i quali, riconosciuta la loro inferiorità per effetto dell’ignoranza nel mercato mondiale del lavoro, vogliono che non pesi più oltre anche sui loro figli. Sono i contadini che preferiscono passar l’America a conquistare col lavoro un modesto e sudato peculio con cui costruire la casetta propria, piuttosto che ricorrere al credito agrario a mite interesse dei banchi di Napoli e di Sicilia. Sono i contadini che preferiscono, emigrando, costringere i proprietari alla resa (aumento dei salari e vendita delle terre), piuttosto che chiedere leggi sui contratti agrari e sul frazionamento del latifondo. L’energia morale interna riesce laddove non valsero a nulla le interminabili chiacchiere libresche e parlamentari: nuova dimostrazione che i meridionali hanno in se stessi lo strumento della vittoria.

 

 

Mali antichi, non dovuti a malvagità di nuovi conquistatori, ma all’azione di secoli di torpore; problema essenzialmente morale; e dovere degli uomini del mezzogiorno di elevarsi colle loro proprie forze, migliorando se stessi e tendendo con tutte le loro energie ad un ideale più alto di vita: ecco le tre verità, che a me paiono essenziali, enunciate nella relazione finale della grande inchiesta sul mezzogiorno. Può parere strano che uno studioso di scienze economiche parli sovratutto di «energie morali» e di «elevazione spirituale dell’uomo». Purtroppo le lezioni che nell’ultimo trentennio si poterono leggere sui libri degli economisti non hanno contribuito molto alla formazione dell’uomo e per conseguenza all’incremento della ricchezza. Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li forma l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. Abbiamo con queste dottrine alimentato l’odio contro quelli che stanno in alto, la credenza che sia impossibile elevarsi, schernite e dichiarate vane le energie vive, le forze più preziose che l’uomo possegga. Il male compiuto dalle nostre predicazioni non fu per fortuna grande come avrebbe potuto essere; perché gli operai, mentre usavano l’arma della lotta di classe, hanno anche fatto sforzi meritori per organizzarsi, per istruirsi e sono divenuti meritevoli di quel maggior benessere che la lotta di classe da sola non avrebbe mai saputo procurare loro; perché le classi dirigenti hanno dovuto, sotto la pressione che veniva dal basso, istruirsi, perfezionare i loro congegni produttivi, diventare più virili e salde. Il movimento di ascensione, finora ristretto al settentrione, sembra adesso si estenda ai contadini ed ai proprietari del mezzogiorno. Bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati troppo a vedere solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’«uomo» come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi. Questo il significato del grandioso movimento migratorio meridionale, questo il monito della grande inchiesta ora compiuta.



[1] Con il titolo Mali secolari ed energie nuove. A proposito degli ultimi volumi dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo [Ndr].

[2] Con il titolo La salute è in noi! Le conclusioni virili dell’inchiesta sul Mezzogiorno [Ndr].

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