Opera Omnia Luigi Einaudi

Mandato imperativo e conquista del comune contro lo stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/11/1920

Mandato imperativo e conquista del comune contro lo stato

«Corriere della Sera», 2[1] e 4[2] novembre; 4 dicembre 1920[3]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 911-918

 

 

 

I

 

Costruire case con le tasse sulle case

 

Oltre al programma di cooperare alla distruzione dello stato, la conquista comunista delle città ha un altro scopo: quello di rendere servigio ed esclusivamente servigio alla classe più povera della popolazione. Così ha deciso il congresso di Mosca; ed ubbidienti alla parola pronunciata tra le frescure del novello Sinai, i programmi comunisti di tutta Italia ripetono il medesimo verbo: la casa ai soli lavoratori, il pane ai soli operai del braccio e del pensiero; ogni cosa che sia in mano del comune riservata ai fedeli e negata agli altri. Dicono bensì i comunisti che essi in tal modo intendono negare soltanto il cibo, la bevanda, il vestito e la casa a coloro che non lavorano; e si professano perciò seguaci di san Paolo, il quale aveva enunciato il medesimo concetto.

 

 

Ma la loro è una professione ipocrita, poiché «lavoratore» non è per essi colui il quale effettivamente contribuisce col braccio, con l’ingegno, con il sacrificio all’opera comune; non è colui senza del quale la società non durerebbe un istante. È invece colui il quale lavora secondo il modo di pensare dei comunisti medesimi. È lavoratore l’operaio iscritto alla lega rossa; non è lavoratore quello iscritto alla lega bianca. Al primo vanno assegnati pane, vino e ogni ben di dio esistente nei magazzini comunali. L’altro, il crumiro, deve essere messo al bando dall’acqua e dal fuoco. Ogni cosa gli sia negata, finché egli non rinsavisca e non si decida ad entrare nella sacra confraternita: nisi resipuerit et ad satisfactionem venerit, come dicevano i cronisti medievali parlando della pravità ereticale.

 

 

È lavoratore il cronista e il redattore dell’«Avanti!»; non lo è l’addetto ai giornali borghesi. È lavoratore l’impiegato che fa aumentare del 50 o del 100% il prezzo del pane, o delle ferrovie o delle tramvie di stato e municipali; non è lavoratore il bottegaio il quale, lavorando accanitamente arricchisce se stesso ed intanto vende a prezzi di concorrenza con la cooperativa sussidiata dallo stato o dall’ente pubblico. Lavorare, nel linguaggio comunistico, non ha il significato ordinario; sì invece quello di far omaggio alle idee comuniste ed accettare la tessera del partito. In tal modo vanno distrutte le conquiste più preziose dell’evo moderno: la libertà di scienza e di coscienza; né i comunisti lo negano, vedendosi ogni giorno i Lenin, i Bombacci, i Serrati e gli scrittori dell’«Avanti!» e dell’«Ordine nuovo» irridere alle idee di giustizia e di libertà ed inneggiare a quella di forza. La forza del proletariato, dicono essi, risolverà tutti i problemi.

 

 

Li risolverà davvero? Lasciamo da parte i problemi del pensiero ed il progresso della scienza, per cui ogni terreno che non sia quello della libertà più ampia è infecondo. Ma riusciranno essi, colla forza e colla violenza, a recare vantaggio alle stesse classi operaie, a cui favore affermano dovere esclusivamente indirizzarsi qualsiasi azione positiva dei comuni?

 

 

Prendiamo un esempio e dei più assillanti, quello delle case.

 

 

I comunisti milanesi, torinesi, bolognesi affermano che essi vogliono risolvere il problema delle abitazioni, con due mezzi principalmente: gravando, oltre ogni limite legale o illegale, d’imposte la proprietà immobiliare e costruendo case nuove.

 

 

Ma per costruire case nuove in numero sufficiente non bastano chiacchiere; ci vogliono capitali. I capitali non sono certo disposti a darli i proletari, a cui i comunisti insegnano ogni giorno che il risparmio è delitto di conversione al capitalismo nemico. Ma quale risparmiatore, che non sia pazzo, vorrà gettare i suoi risparmi in bocca al lupo, dandoli ad una banda il cui scopo è quello della espropriazione dei capitalisti? Tanto più quando costoro si propongono di cominciare ad attuare il loro programma precisamente col ridurre a zero il valore delle case, assorbendone con le imposte tutto il reddito netto? Con questo programma, il municipio non sarà in grado di costruire nuove case se non per un numero ridicolo, di gran lunga inferiore al fabbisogno; ed i privati proprietari saranno costretti a lasciare andare in malora le case esistenti. Perché riparare i tetti affinché l’acqua non si infiltri, perché curare l’igiene delle fognature, riparare scale, porte, finestre, pavimenti, quando il reddito della casa è portato via dai comunisti? Il problema, oggi acutissimo, si inasprirà quando verranno meno gli ultimi impulsi che ancora esistono alla conservazione della casa esistente e quando il capitale nuovo fuggirà inorridito dalle città governate da gente frenetica, intenta a distruggere.

 

 

Vogliono i comunisti che il comune si occupi esclusivamente dei lavoratori, creando scuole, refettori, luoghi di ricreazione a loro favore. E sta bene. Donde si trarranno i mezzi per una siffatta politica, la quale del resto è soltanto la prosecuzione di quanto si fece dalle amministrazioni passate? Non dalle entrate ordinarie certamente, che a Milano, a Torino, a Roma, a Napoli, dappertutto nelle grandi città e nei piccoli comuni sono inferiori alle spese ordinarie. Ma dai debiti per ora e dalle espropriazioni poi, quando i comunisti avranno altresì conquistato lo stato. Chi vorrà però imprestare, ripetiamolo ancora una volta, i propri risparmi ad un comune deciso alla espropriazione? Dunque i comunisti dovranno ricorrere alla solita vacca da mungere, la cassa depositi e prestiti; e quando essa sia esausta, col suo tramite, al torchio dei biglietti. Il che vuol dire che un programma di esclusivi servizi ai lavoratori non si può attuare se non col danno dei lavoratori, ossia rincarando oltre misura per questi il costo della vita, a causa della fatale moltiplicazione dei biglietti circolanti.

 

 

II

 

I comunisti alla conquista dei comuni

 

Tra i socialisti nuovo stile o, come essi vogliono chiamarsi, comunisti, e tutti gli altri partiti esiste una insanabile divergenza intorno al modo di concepire il problema del governo municipale. I liberali, i democratici, gli stessi socialisti concepiscono il governo del comune come l’opera di una maggioranza la quale vuole attuare certi suoi ideali e si giova di tutti i mezzi che le leggi offrono e che la volontà degli elettori esige per avvicinarsi a quell’attuazione. I comunisti no. Essi vogliono la conquista del comune unicamente per muovere di lì all’assalto dello stato.

 

 

Una delle tesi del congresso di Mosca dice:

 

 

«Quando i comunisti abbiano la maggioranza nelle istituzioni comunali, tutta la loro attività deve essere parte integrante del generale lavoro di dissolvimento del sistema capitalistico».

 

 

Essi cioè non devono amministrare, ma devono soltanto preoccuparsi di distruggere. La conquista non è concepita come mezzo per far meglio degli avversari, ma come un’arma

 

 

«per fare opposizione al governo centrale borghese, per mostrare in ogni occasione le barriere che il potere statale borghese realmente oppone a grandi mutamenti, per svolgere la più fiera propaganda rivoluzionaria senza temere il conflitto col potere statale, per fare tentativi di attuazione della milizia operaia armata».

 

 

Coloro che non vogliono che i palazzi di città dei grandi comuni del settentrione d’Italia divengano arsenali di bombe e caserme di guardie rosse non devono dare il voto a questi barbari, i quali, ipocritamente nemici della guerra in genere, la vorrebbero perpetuare in ogni città, creando il tumulto per il tumulto, la opposizione per la opposizione. Tutto ciò allo scopo sterile di distruggere.

 

 

V’ha di più. Quando gli elettori sensati votano per una lista di candidati, essi intendono bensì eleggere persone che la pensano in un determinato modo, ma a cui, appunto perché sono uomini rispettabili e savi, si lascia una ragionevole libertà di attuare i principii della maggioranza nel modo ritenuto più conveniente in ogni caso, date la complessità e la variabilità dei problemi che si tratta di risolvere. Non così la pensano i comunisti; i quali hanno risuscitato il mandato imperativo, sistema proprio dei tempi in cui i problemi erano semplicissimi e i consigli erano nominati volta per volta per rispondere sì o no ad un determinato quesito. Col mandato imperativo, i consiglieri sono delle semplici marionette in mano al cosidetto partito, ossia in mano al gruppo che domina le assemblee comuniste. Sono gli ambiziosi, gli sfaccendati, i chiaccheroni, i soli assidui alle sedute del partito, coloro i quali diranno come Milano, Torino, Bologna debbono essere amministrate; coloro i quali apporranno la data alla cambiale in bianco delle dimissioni preventivamente rilasciate dai candidati alle elezioni. Una persona rispettabile, dotata di una certa esperienza della vita, non può accettare una candidatura in simili condizioni senza venir meno ad un dovere di coscienza. L’imperativo categorico va bene per chi sia oggi mandato a votare su un dato problema che si deve risolvere subito. In tal caso la campagna elettorale si sarà fatta su quel problema; gli elettori saranno stati illuminati pro e contro; ed è comprensibile che i candidati eletti per risolvere il problema in un certo senso si sentano vincolati a non risolverlo nel senso contrario.

 

 

Invece un consiglio comunale è chiamato a sedere per parecchi anni; a risolvere, durante siffatto periodo di tempo, problemi numerosi e complicati, su cui gli elettori non furono chiamati a pronunciarsi; ed a risolverli in circostanze diverse da quelle in cui ebbero luogo i comizi elettorali. Perciò il mandato imperativo è un non senso; epperciò gli elettori riflessivi devono dare e danno agli eletti una ragionevole libertà di comportarsi a seconda della loro scienza e coscienza ed a seconda delle circostanze. Governare altrimenti sarebbe impossibile.

 

 

I comunisti invece pretendono che un programma compilato oggi, per comando di una divinità straniera, duri sempiterno e sia applicato alla lettera. Pretendono che giudice di ogni deviazione da parte degli eletti sia un potere irresponsabile costituito, al difuori degli elettori, dai dirigenti dei clubs rivoluzionari. Il governo dei clubs che essi vogliono; il governo degli scaldapanche delle assemblee serali, degli aspiranti a rovesciare i consiglieri in carica, aspiranti i quali debbono essere sempre più rossi degli eletti e sono perciò sempre propensi a gridare il crucifige contro coloro i quali non osservano abbastanza alla lettera le tavole della legge.

 

 

Può una grande città moderna, progressiva decidere volontariamente di porsi sotto una tirannia così pericolosa?

 

 

III

 

Il programma fiscale dei socialisti per i comuni

 

I sindaci dei comuni conquistati ai socialisti – radunati a congresso a Milano – non potevano raggiungere meglio l’intento che la frazione massimalista proclama ogni giorno, l’unico degno di essere perseguito: lo scredito della società e dello stato in cui essi vivono e che essi vogliono distruggere.

 

 

Tassare senza alcun limite e senza rispettare i massimi sanciti dalle leggi vigenti, applicare progressivamente e con forti aliquote e senza massimi tanto la imposta di famiglia quanto quella di esercizio; aumentare la tassa bestiame; inventare una tassa speciale sui vani vuoti o esuberanti; preferire la sovrimposta sui terreni senza preoccupazioni se essa serbi i dovuti rapporti con le altre sovrimposte; portare almeno a 60 centesimi per ogni lira di principale anche l’imposta di ricchezza mobile e quella sui sovraprofitti di guerra; perpetuare la tassa di assistenza civile; forzare in genere le leggi e le imposte attuali al di là dei massimi legali, creando imposte nuove sui profitti del puro capitale, della speculazione, degli intermediari, come pure sugli aumenti di patrimonio, sulle migliorie e sulle aree fabbricabili; sostituire il dazio consumo con tasse agili sui consumi voluttuari e sulle classi privilegiate.

 

 

Questo è il programma tributario dei comuni socialisti, programma inattuabile, perché le leggi vigenti impongono, ben a ragione, limiti al diritto dei comuni di stabilire imposte e sovrimposte, nell’interesse dei cittadini, dello stato e delle provincie. Il reddito dei contribuenti è quello che è: se esso giunge a 100 lire, non c’è forza umana la quale consenta ai comuni di portar via da soli tutte le 100 lire o persino, come pretenderebbero i congressisti di Milano, 150 o 200 lire. L’ammontare totale del reddito è la torta che deve essere divisa fra contribuenti, stato, provincie, comuni e altri enti pubblici (istituti di assicurazione sociale, consorzi, camere di commercio, ecc. ecc.) aventi diritto a prelevare imposte.

 

 

E bisogna por mente a lasciare al contribuente almeno tanta parte delle 100 lire che egli abbia ancora convenienza a lavorare o a risparmiare. Altrimenti il reddito più non si produce e i comuni resteranno in secco, nonostante il loro massimalismo.

 

 

Tutto ciò è elementare: e i prefetti non potranno non annullare le deliberazioni dei consigli comunali, i quali violassero sfacciatamente la legge vigente. I sindaci hanno forse gridato tanto e detto tante enormità , appunto perché sapevano che erano sfoghi verbali buoni per la piazza e destinati a non produrre nessun risultato concreto. Non è forse comico chiedere 60 centesimi persino per i sovraprofitti di guerra, quando lo stato per conto suo ha già elevato per tutti l’imposta al cento per cento, ossia alla confisca assoluta? La richiesta porterebbe alla stravagante conseguenza che colui il quale abbia guadagnato 100.000 lire debba non solo versare tutte le 100.000 lire allo stato, ma aggiungervi altre 60.000 lire a favore del comune. Pretesa la quale fa il paio con quella di un consigliere massimalista di un comune conquistato dai socialisti nell’alta Italia, il quale, avendo sentito dall’assessore per le finanze, suo correligionario, che la nuova amministrazione aveva ereditato dalla precedente un disavanzo di 20.000 lire per il restante dell’anno 1920, si chinò all’orecchio del vicino, dicendo: «per intanto, mangiamo queste 20.000, poi si vedrà!».

 

 

Ignoranza e malafede, ecco le caratteristiche del programma comunale socialista. Intanto, esso produce effetti immediati. La lettura di ordini del giorno siffattamente scervellati di autorità costituite, non può non radicare nella mente degli stranieri la convinzione che l’Italia sia un paese dove la finanza più rapinatrice non solo è tollerata, ma è divenuta dottrina ammessa di governo; dove i redditi e i capitali sono confiscabili a volontà di rivoluzionari insediati nei municipi; dove la gente laboriosa e imprenditrice deve lasciarsi spogliare per pagar medaglie di presenza a sindaci, assessori e consiglieri incapaci di esercitare altro mestiere che non sia quello dell’eccitamento all’odio e alla violenza; dove non si può costruire, nonostante la fame di case, perché sindaci e commissioni proclamano il diritto all’occupazione e all’espropriazione. Chi si meraviglia, dopo ciò, che il cambio rimanga altissimo e che gli Stati uniti boicottino gli emigranti dell’alta Italia, come presunti avvelenatori delle loro masse?

 

 

Contro queste stravaganze verbali il governo deve far sentire la sua voce. Esso deve solennemente dichiarare che le chiacchiere sono chiacchiere, che la pazzia e la pirateria non hanno ancora tra noi il diritto di cittadinanza, che la legge sarà fatta rispettare e le autorità tutorie casseranno le deliberazioni illegali, anche se mandate a 2.000 copie uniformi per volta al ministero.

 

 



[1] Con il titolo Si può governare il comune a profitto di una sola classe? [ndr].

[2] Con il titolo Il mandato imperativo e la conquista del comune per distruggere lo stato [ndr].

[3] Con il titolo Folli programmi tributari [ndr].

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