Opera Omnia Luigi Einaudi

Materie prime e cambi. (a proposito di ordini del giorno comunisti e di idee storte)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/04/1922

Materie prime e cambi. (a proposito di ordini del giorno comunisti e di idee storte)

«Corriere della Sera», 22 aprile 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 690-695

 

 

 

È cagione di rammarico constatare che il primo atto delle commissioni parlamentari chiamate a consulto dal governo nelle gravi deliberazioni di Genova non meriti un benevolo commento. La mortificazione che si prova leggendo l’ordine del giorno sulle materie prime votato all’unanimità dalle due commissioni parlamentari, riunite per tanta fatica in assemblea plenaria, è resa più acuta dal confronto con il memorandum presentato dai nove economisti, periti in cose monetarie e bancarie (tra cui l’italiano avv. Bianchini) a guisa di preparazione ad una convenzione monetaria internazionale.

 

 

Che cosa abbia voluto dire la commissione plenaria parlamentare affermando «essere necessario che una regolamentazione internazionale dei prezzi e della ripartizione sia stabilita, sottraendo, nell’interesse comune degli stati produttori e di quelli acquirenti, dette materie prime allo stato di monopolio ed alle variabili oscillazioni di prezzo e di quantità disponibili, dovute all’eccesso, anche artificiale e speculativo» non si capisce affatto o forse si capisce pensando che i due proponenti, gli on. Baldesi e Cabrini sono socialisti e che gli altri parlamentari, more solito, hanno creduto di fare una gran bella figura dicendo di sì ad una delle tante scempiaggini collettivistiche, di cui neppure in Russia sanno più che farsene. Perché è puro collettivismo dire che bisogna regolare e ripartire internazionalmente quantità e prezzi delle materie prime, soggiungendo che per le materie prime minerarie lo scopo si otterrà costituendo «un consorzio internazionale per la equa distribuzione a seconda dei bisogni delle singole nazioni, dei minerali esuberanti nei paesi di origine in confronto ai consumi interni e comunque destinati alla esportazione». Si sarebbe capita una semplice invocazione per far vietare ad un paese produttore di carbone di far pagare 100 agli stranieri ciò che ai nazionali era fatto pagare 50. Sarebbe arrivata in ritardo, perché l’Inghilterra abolì da tempo quella dannosa differenziazione, dannosa in ultimo a se stessa, poiché perse per causa sua molti mercati esteri. Ci saremmo dati della zappa sui piedi, poiché non dobbiamo dimenticare che noi, finché potemmo, facemmo lo stesso con lo zolfo e consacrammo anzi in leggi, tuttora vigenti, il principio della diversificazione; né ci facciamo scrupolo, ogni qualvolta lo possiamo, di far pagare ai forestieri il sole, l’aria, le stanze, le vivande, le antichità vere o false, che sono le nostre materie prime, più care che agli italiani; ed inventiamo a tal uopo comiche teorie sulla lira sterlina che «dovrebbe» cambiarsi con 25 lire italiane. Avremmo esposto un principio di difficilissima applicazione; perché in tutto il mondo, in tutte le industrie, in tutti i tempi si sono usati prezzi differenziali; ed il volerli sopprimere è come un combattere i mulini a vento. Ma avremmo almeno esposto un principio che in taluni casi particolarissimi e rarissimi, entro limiti ben definiti, può avere una qualche ben studiata applicazione simigliante a quella che, in senso inverso, si tentò con la convenzione sugli zuccheri di Bruxelles nel 1902. Dire però che si deve addirittura regolare distribuzione e prezzi nel mondo, costituire un consorzio internazionale per la equa distribuzione delle materie prime tra paesi produttori e paesi consumatori è roba che passa ogni confine della nostra adattabilità politica alle stravaganze comuniste. Quale produttore, quale uomo di stato dei paesi produttori di carbone, di petrolio, di zolfo, di marmo, di ferro, consentirà a lasciar fissare prezzi e mercati da un esercito di cavallette burocratiche insediate a Ginevra od in qualche altra capitale internazionale? Quale persona che abbia la testa sul collo consentirà a lasciar dipendere la vita della sua impresa o della industria del proprio paese dal beneplacito di un consorzio? Ne abbiamo tutti fin sopra i capelli – parlo dei capi di industrie o di commerci – di dover correre a Roma od a Parigi od a Washington, per ottenere un permesso di esportazione, un placet a far questo o quest’altro, di dovere ungere le ruote a destra ed a sinistra, di essere divenuti gli schiavi di deputati e di funzionari senza competenza e spesso senza coscienza; e dovremmo assoggettarci alla stessa tirannia più in grande, in tutto il mondo, per tutte quelle indefinibili merci che si chiamano materie prime? Ohibò! Una stravaganza siffatta la possono dire e scrivere degli uomini politici italiani, abituati a pensare che le sciocchezze si dicono e non si fanno.

 

 

E l’ordine del giorno sarebbe innocuo se fosse solo indirizzato al governo italiano; ma purtroppo esso, attraverso al nostro governo, è indirizzato agli statisti di tutto il mondo, i quali non potranno non fare le più grandi meraviglie della facilità con cui i parlamentari italiani mettono innanzi proposte di mobilitazione collettivistica che persino i Cicerin e compagnia bella hanno concluso non essere merce di esportazione fuori del loro felice paese delle «centrali», ove, appunto in virtù delle «centrali di produzione e distribuzione dei prodotti», gli uomini vivono con la nota abbondanza e facilità. L’ordine del giorno sulle materie prime, fortunatamente, lascerà il tempo che ha trovato, poiché nessuno lo piglierà sul serio. Il guaio sarebbe se si volessero dare al governo italiano consigli simili a quelli che formano il contenuto di tanta parte dell’opinione pubblica e politica in materia monetaria. L’idea dominante in Italia nell’opinione comune e quindi anche nell’opinione politica è questa: che sia ingiustizia somma vedere la nostra lira quotata a 30 centesimi o meno; che tale avvilimento sia dovuto alla speculazione e ad un torto manifesto che ci fanno gli inglesi e gli americani; che sia urgente e vantaggioso far risalire la lira a 100 centesimi; che ciò si possa fare purché lo vogliano i sullodati americani ed inglesi e purché questi consentano alla creazione di un qualche grande consorzio di banche di emissione o stanza di compensazione dei cambi; e che appena ottenuto ciò, il costo della vita scenderebbe, la disoccupazione scomparirebbe e il mondo tornerebbe ad essere suppergiù quello che era prima del 1914.

 

 

Se tanto mi dà tanto, io non dispero, dopo l’ordine del giorno sulle materie prime, vedere maturare e fiorire un altro bell’ordine del giorno, dove siano elencati tutti i sopra esposti postulati della logica economica volgare. Forse non ce ne sarà bisogno, perché, da quanto leggo sui giornali, il ministro Peano avrebbe espresso il convincimento che l’Italia debba con fermezza di propositi perseverare nella via intrapresa di riportare la valuta italiana alla parità dell’anteguerra. Non consta che il ministro del tesoro italiano abbia precisato gli anni – cinque, dieci o cinquanta – in cui il miracolo dovrebbe avverarsi e poiché la cosa, ragionevole se riferita al mezzo secolo, sarebbe d’una gravità estrema se dovesse condursi a termine in un quinquennio, segnalo all’opinione pubblica, al ministro, alle commissioni parlamentari, ai produttori ed ai consumatori il rapporto dei nove economisti, dove è dimostrato chiaro e lampante che il ritorno della lira da 30 a 100 centesimi è per ora e sarà per qualche e forse per lungo tempo ancora, assurdo, impolitico, dannoso allo stato ed alla collettività. Per parlare in lingua povera, la lira a 100 centesimi è, oggi, tale una infantilità che, a dirla, ci si copre di ridicolo.

 

 

Ripeto un argomento, fra gli altri, che ho già esposto tante volte, di cui non c’è studioso che non sia persuaso, ma di cui nessun uomo politico accetta di assumere l’aperta responsabilità per paura di dire chissà che cosa dannosa al prestigio dell’Italia. La lira a 100 centesimi vorrebbe dire, per logica ed ineluttabile sequenza:

 

 

  • a) che i prezzi ribasserebbero in media ad una metà o ad un terzo di quelli attuali, pur rimanendo un po’ superiori – dal 20 al 50% – a quelli antebellici;
  • b) in quell’evenienza, vendendosi a prezzi bassi, gli industriali e gli agricoltori incasserebbero poca moneta ed avrebbero scarsi redditi lordi;
  • c) perciò dovrebbero pagare ai loro dipendenti stipendi e salari ridotti ad un terzo di quelli attuali;
  • d) un po’ per volta, i redditi monetari di tutte le classi dovrebbero ridursi a poco più del reddito dell’anteguerra;
  • e) il reddito nazionale, ossia la somma dei redditi di tutti i cittadini italiani (salari, stipendi, interessi, guadagni, fitti, tutto ciò insomma che entra durante l’anno nelle famiglie dei 39 milioni di italiani) non superava prima della guerra i 20 miliardi di lire all’anno. Su di esso lo stato, le province ed i comuni prelevavano, a quanto si legge in memorie ufficiali, circa 2,5 miliardi, ossia un ottavo; ed il prelievo era tollerabile. Oggi, in lirette piccole, il reddito nazionale può essere stimato da 60 a 80 miliardi di lire; ed è quindi assai meno tollerabile che lo stato, le province ed i comuni prelevino circa 15 miliardi di imposte, ossia da un quarto ad un quinto; e ne spendano probabilmente, grazie a prestiti, che sono altre forme di prelievo, circa 20, che è da un terzo ad un quarto del reddito nazionale;
  • f) se, domani, ritornando la lira a 100 centesimi, il reddito nazionale si riducesse ad un massimo di 30 miliardi, non perciò le spese dello stato, delle province e dei comuni si ridurrebbero in proporzione. Fisso in 5-6 miliardi il carico del debito pubblico, fisse molte spese di concorso, quasi fissi gli stipendi – sarebbe un miracolo potere abolire i caro-viveri – la spesa pubblica potrebbe ridursi forse forse, ad esagerare straordinariamente ed incredibilmente la capacità statale di fare economie, da 20 a 15 miliardi. Ora come prelevare 15 miliardi di imposte annue su cittadini possessori di 30 miliardi di reddito annuo? Bisognerebbe che tutti si decidessero a dare allo stato, sul serio e non solo sulla carta, la metà dei loro redditi; bisognerebbe che ciò che fanno ad usura talune poche classi sociali, come i proprietari vincolati, lo facessero tutti. Il che è impensabile ed impossibile;
  • g) dunque, il dilemma, che si porrebbe quando la lira fosse rivalutata a 100 centesimi, è chiaro: o i cittadini lavorerebbero metà dell’anno per pagare imposte o lo stato sarebbe costretto a fallire, ignominiosamente fallire. In ambi i casi, andremmo incontro a rivolte, disordini, scompiglio sociale.

 

 

Le condizioni delle classi medie, fornite di redditi fissi sono angosciose e degne del massimo riguardo. È deplorevole che lo stato, il quale ha ricevuto 100 lire buone e si è obbligato a pagare l’interesse del 3,50% in lire buone sulla rendita vecchia, paghi ora 3,50 lirette e voglia tassarle per giunta col 15%; ed io dico che bisogna preparare le condizioni per un ritorno graduale a più tollerabili di vita per queste classi. Ma le condizioni sono: risanamento del bilancio, cessazione di nuove emissioni di buoni, salvo che per conversione dei vecchi; aumento della produzione, cosicché a poco a poco la lira attuale piccola compri una massa maggiore di prodotti. Così, col tempo, in un lungo tempo, si potrà rivalutare da sé la lira.

 

 

Se invece si vuole fare in fretta, se si tenta una qualche manipolazione monetaria, se si chiede all’Inghilterra ed agli Stati uniti l’elemosina della sterlina a 25 lire e del dollaro a 5 lire, si fanno solo pasticci e si minaccia di travolgere tutto in un disordine, di cui le prime a soffrire sarebbero di nuovo le classi medie. Con la lira a 100 centesimi, lo stato deve fallire; ed in tal caso da chi i portatori di rendita e di consolidato si farebbero pagare le cedole in lire buone?

 

 

Ascoltiamo invece e discutiamo il rapporto dei nove economisti. Essi ci dicono che bisogna ritornare ad una base aurea; ma che gli stati a moneta cartacea deprezzata non potranno fissare il rapporto tra la loro carta e l’oro, sinché non si sia ristabilito il pareggio dei bilanci, sovratutto mercé la riduzione delle spese. Senza pregiudicare per ora il punto del rapporto legale fisso tra carta ed oro, gli stati debbono proporsi di arrivare a tale fissazione, e per arrivarci debbono fare ogni sforzo per mettere il loro bilancio in ordine. Il che si sapeva anche prima; ma è ottima cosa l’abbia ripetuto l’areopago dei nove migliori esperti d’Europa. È una verità semplice, la quale dimostra ancora una volta che la felicità, l’equilibrio, l’ordine sociale non si raggiungono con ordini del giorno, con cataplasmi, con sistemi ingegnosi, con formule geniali. In materia monetaria il genio cosidetto latino non serve a niente. Bastano ed occorrono il buon senso, il lavoro, la parsimonia. Proprio le virtù che mancano ai progettisti.

 

 

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