Opera Omnia Luigi Einaudi

Molti italiani sono liberali e non lo sanno

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/03/1961

Molti italiani sono liberali e non lo sanno

«Corriere della Sera», 3 marzo 1961

 

 

 

Per fortuna accanto all’uomo socialista, il quale cammina, senza volerlo, verso il totalitarismo comunistico, vive in Italia anche l’uomo liberale, il quale intende alla libertà piena di pensiero e di azione.

 

 

L’uomo liberale onora lo stato, ma lo teme, non appena varchi i limiti della azione necessaria e vantaggiosa.

 

 

Egli, repugnando alla dipendenza gerarchica ugualitaria, non desidera fare dei suoi figli impiegati pubblici. Ama bensì quelli tra essi i quali vogliono conquistare un’onorevole situazione nella amministrazione pubblica, per godere di regolare tranquillo stipendio nella vita attiva e di sicura pensione in vecchiaia; ma è orgoglioso di quello, che si è fatto da sé e vive della fiducia dei clienti professionali e di quella di coloro i quali acquistano i prodotti della ditta di cui è capo o dirigente.

 

 

Costui non disprezza la pensione od il vitalizio approntato per la vecchiaia; ma è particolarmente affezionato alla casa, sia pur modesta, che ha costrutto per sé ed i suoi, alla terra che ha bonificato e talvolta creato ed è sua. Egli sa che il diritto alla pensione pagata da un ente pubblico è prezioso, perché la esperienza gli ha insegnato che automaticamente si ingrossa se il costo della vita aumenta; ma non sa rinunciare al risparmio suo individuale, nonostante egli sappia che qualsiasi investimento egli scelga, corre un rischio. L’uomo liberale legge ed ascolta i consigli di coloro i quali nei parlamenti, nei giornali, nei discorsi elettorali lo vogliono salvare dalle crisi agrarie, industriali, commerciali, dalle quali egli è spesso afflitto; ma in fondo in fondo pensa: «se i salvatori conoscono le vie di far meglio di quanto io sia capace di fare, perché invece di dettare, dal tavolo di funzionario ministeriale o di cattedratico economico, circolari e saggi per insegnarmi a fare il mio mestiere, non applicano i loro precetti e con l’esempio del successo, non mi persuadono, nel solo modo ai miei occhi serio, a seguir la via della salvezza?».

 

 

L’uomo liberale, ad evitare favoritismi, rilassatezze ed invidie si rassegna alla regola che condanna uniformemente i servitori dello stato a ricevere stipendi uguali per uguali gradi nella gerarchia, ad andare in pensione a 65 anni, nonostante le differenze di rendimento di valore, di attitudini mentali e fisiche; lamenta, pur inchinandosi, che ad uomini vigorosi per intelligenza, per esperienza, per rettitudine, per prestanza fisica sia vietato, a causa dei rigorosi limiti di età, dal rendere servigi utili alla cosa pubblica; ma si affligge nel vedere che la regola dei limiti di età tenda ad estendersi anche nel campo delle attività private. Se ne affligge perché, là dove imperi la inesorabile ragion di stato dell’uguaglianza di trattamento, egli sa che il timore della disoccupazione, la quale tanto giganteggia agli occhi degli uomini pubblici, e li persuade a creare lavoro per i giovani, dettando norme restrittive per i vecchi, è fondato sul frusto errore da cui nascono i protezionismi, i restrizionismi, i corporativismi, gli albi dei giornalisti, gli ordini dei professionisti, l’obbligo del tirocinio, l’esigenza del titolo legale bollato vidimato e vistato da chi di ragione; il vecchio errore del credere si crei lavoro col restringere il numero degli aspiranti al lavoro. Dall’errore nascono le rivolte e le rivoluzioni dei paria esclusi dal lavoro; non nasce lavoro.

 

 

Questo nasce dalla produzione; dal consentire ai molti, a tutti di produrre ed offrire beni e servigi. I buoni clienti, i quali chiedono e consumano molto, non sono i miserabili abitanti della Cina, dell’India, dell’Africa. Correvano, tanti anni fa, verso il principio del secolo, statistiche le quali dimostravano che i molti abitanti della Russia acquistavano meno roba dei pochi milioni di abitanti del Belgio; ed ancora oggi le cose non sono mutate; ché la piccola Svizzera non è affetta da disoccupazione anche perché produce molto e bene ed ha nel commercio internazionale, per capo di abitanti, un posto altissimo.

 

 

L’uomo liberale conosce queste verità di esperienza, e sa che, purtroppo, la lebbra del protezionismo, del monopolismo, delle trincee scavate attorno al proprio campo, non è proprio solo dei lavoratori manuali ed intellettuali, ma si attacca anche a coloro che, creando imprese e commerci, migliorando i campi, dimostrano col fatto di amare la libertà e di vivere per essa.

 

 

Anch’essi, al pari degli uomini nati per ubbidire e per comandare, come è necessario accada nel campo dello stato, veggono che si può, nei casi singoli, trarre profitto dalle restrizioni; e chiedono dazi, protezioni, contingenti, concessioni ed ordinazioni di favore imposte dalla legge.

 

Anch’essi da liberali si fanno non di rado socialisti; e non offrono quindi nessuna resistenza contro il prevalere del comunismo. L’uomo liberale invoca lo stato quando l’esercito straniero invade la sua patria, mettendo tutto a ferro ed a fuoco; e quando la polizia non lo difende dai malandrini e dagli assassini.

 

 

Né la sua gratitudine viene meno quando invia i suoi figli alla scuola; che desidera ampia, luminosa, bene attrezzata e fornita di buoni maestri.

 

 

L’uomo liberale, essendo fornito di buon senso, può lagnarsi del permanere di tradizioni fastose le quali inducono lo stato e gli altri enti pubblici a sussidiare teatri poco frequentati, a far le spese di fuochi artificiali od a versare contributi a cinematografari affinché cantanti e dive ricevano onorari strabilianti o gruppi privilegiati di sportivi prosperino a spese dei contribuenti; ma plaude allo stato od all’ente pubblico il quale costruisce strade ed acquedotti, parchi e giardini pubblici, palestre per i giovani e luoghi sicuri per la ricreazione dei bambini; o che, a difendere la terra appenninica dalla erosione e dalla degradazione progressiva, rimboschisce i monti, argina i fiumi, bonifica le terre paludose. Né si oppone che lo stato intraprenda uffici che potrebbero essere e sono in alcuni paesi lasciati all’iniziativa privata, quando lo consigli:

 

 

  • la consuetudine secolare, invalsa per le poste, e poi per telegrafi ed i telefoni;

 

  • la speranza del guadagno, come l’esercizio delle forniture dei sali e dei tabacchi; sebbene sia dubitabile se il reddito del fisco sia, a parità di tariffa maggiore di quello che si potrebbe ottenere, ed altrove si ottiene, con altre maniere di tassazione, e sebbene non debba essere, anche se v’è guadagno, dimenticato il «novantaquattresimo ricordo» di Francesco Guicciardini: « il principe che fa mercatantia, non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno, facendo quello che è ufficio de’ privati e non suo; e pecca tanto verso è populi, quanto peccherebbono è populi verso lui, intromettendosi in quello che è officio solum del principe»;

 

  • la difesa dei consumatori, contro le estorsioni dei monopolisti privati; e qui soltanto bada alla difficoltà di distinguere tra i pochi o pochissimi monopoli veramente tali e la grande moltitudine di semi monopoli o di casi di concorrenza limitata, i quali, se si volessero tutti statizzare o nazionalizzare o municipalizzare, si dovrebbe, crescendo il male, avocare allo stato tutta l’attività economica, così come accade nei paesi comunisti;

 

  • la opportunità di sottrarre alle deliberazioni dei privati le industrie dette chiavi, a causa della loro relativa inusitata grandezza o per essere condizione o mezzo dell’esercizio di moltissime altre attività; ed anche qui intende a scrutare se per avventura, come per lo più accade, la gente astuta sia riuscita a dar veste di vantaggio pubblico a quello che è interesse meramente privatissimo di locupletazioni singole o di salvataggi pericolosi di imprese pericolanti.

 

 

L’uomo liberale non si allarma se le imposte gravanti sui redditi delle imprese attive crescono allo scopo di sopperire al costo dei servizi proprii dello stato, a quello crescente delle assicurazioni e della previdenza sociale, ed all’onere, che egli auspica parimente crescente, della fornitura ai cittadini di taluni beni comuni, come la sanità, la scuola, la conservazione della montagna e delle bellezze naturali, i giardini, i parchi pubblici; ed oltremodo invece si inquieta quando vede crescere le imposte per sopperire alle perdite di industrie passive; di cui l’esempio più clamoroso è oggi, in Italia, tra molti altri, la fornitura di combustibili sardi o continentali di alto costo, di cattiva qualità e da nessuno desiderati con atto volontario di acquisto.

 

 

L’uomo liberale repugna altresì a talune imprese, anche se logicamente e vantaggiosamente potrebbero essere assunte dallo stato, quando esse facciano traboccare la bilancia a danno del campo ancora consentito ai privati. Vi repugna, perché alle faccende statali vi è un limite; ed è quello del punto critico nell’incremento eccessivo dei dipendenti pubblici. Guai allo stato, nel quale la possibilità di occupazione e le maniere di vivere di

troppi o di tutti i cittadini dipendono da un unico signore! L’uomo liberale vuole che la società nella quale egli vive, sia varia, ricca di forze indipendenti le une dalle altre, in cui industriali e lavoratori, leghe padronali e leghe operaie liberamente discutono, si affrontino e lottino. Egli ama la lotta ed ha in abominio l’ubbidienza ad un solo capo. La lotta è vita. il conformismo è morto.

 

 

Vuole le leggi chiare e sicure e rigorose, entro la cornice delle quali l’uomo liberamente possa muoversi e cercare la via della sua elevazione spirituale e materiale. Epperciò odia e disprezza la superbia satanica dei politici, i quali osano affermare la loro capacità di insegnare altrui le maniere di comportarsi nelle loro faccende private. Il banchiere, il quale ha appreso con lungo tirocinio la difficoltà di scernere, tra i molti, l’uomo degno di investire e di restituire il denaro dei risparmiatori, giustamente disprezza il politico il quale superbiamente crede di sapere quali siano gli impieghi meritevoli di essere preferiti. L’industriale, il quale conosce le ragioni per le quali la sua impresa è sopravvissuta correndo rischi e sopportando perdite, l’agricoltore, il quale conosce palmo a palmo le sue terre e sa il lungo tempo necessario per far crescere la vite e l’olivo e la maniera di conservare i prati ed il bosco, l’artigiano il quale, erede di una lunga tradizione famigliare, sa lavorare il legno e il ferro per soddisfare ai bisogni dei compaesani, tutti costoro disprezzano i consiglieri i quali «sanno» le maniere di ovviare alle loro difficoltà, di superare le crisi da cui essi sono afflitti. Perciò non sono socialisti, non hanno paura della concorrenza e della lotta e, credendo nella propria maniera di vita, soli sono degni di far fronte all’avvento «fatale» del comunismo.

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