Nella città brutta è il luogo dell’imposta sulle aree fabbricabili
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/01/1961
Nella città brutta è il luogo dell’imposta sulle aree fabbricabili
«Corriere della Sera», 7 gennaio 1961
La città brutta è la città vera, la città reale. I tentativi non più tanto rari di porre vincoli all’imperversare del brutto fanno bene sperare per il futuro della città che gli italiani debbono conservare nel centro antico e creare negli ingrandimenti nuovi.
Purtroppo, oggi imperversa ancora il brutto. chi vive in una grande città ai margini delle costruzioni, deve, prima e dopo le porte antiche traversare quartieri orrendi, non ancora , per lo più, sopraffatti dai grattacieli, ma già guasti da falangi serrate di case altissime di otto e dieci piani e da false palazzine di quattro e cinque piani separate le une dalle altre da vicoli nei quali il sole non penetra mai.
Le case e le palazzine non sono case; bensì alveari, nei quali vivono uomini sconosciuti gli uni agli altri e legati soltanto dalla riscossa convivenza di condomini chiamati a deliberare di bilanci, di stipendi ai portieri, di spese per l’illuminazione della scala comune, per il riscaldamento centrale, per le riparazioni al tetto, alle facciate esterne ed ai cortili.
Dopo qualche anno, le case nuove appaiono già fatiscenti, scrostate e sporche dalla pioggia battente ed appaiono fruste, se paragonate agli edifici del centro nobilitati dall’età.
L’occhio di chi sia obbligato a percorrerli, deve rivolgersi all’alto per scorgere un tratto di cielo, su su risalendo quasi si trovasse in mezzo a canions nord – americani. Le strade disordinate non lasciano travedere alcun piano razionale, salvo quello di infittire le costruzioni sì che appaiono adatte alla voluta coltivazione intensiva del territorio cittadino.
Nella città antica, gli squarci e le ferite han nome di risanamento e sono spiegate dalla necessità di consentire il rapido passaggio di vetture automobili, di carrozzoni tranviari ed elettrici e di carri immani, rombanti ed asfissianti.
Ma è falsa necessità, fittiziamente determinata dall’errore dei pubblici amministratori, i quali non hanno predisposto i nuovi centri urbani adatti ad uffici pubblici e ai relativi nugoli di impiegati o ad empori commerciali e stabilimenti industriali; né si sono curati di ordinare un sistema di strade e vie che non faccia capo all’unico centro cittadino, quello antico, e non obblighi a traversarlo sulle ferite apportate al corpo vivo delle vecchie case; un sistema di viabilità che si svolga al di fuori del centro e per vie circolari o diagonali conduca uomini e veicoli alla meta.
La popolazione del centro non ha requie dai rumori che la perseguitano nelle ore notturne e cresce senza tregua perché i proprietari, non frenati nella loro brama di riparare, costruendo nuovi locali liberi, all’ingiusto danno dei blocchi degli affitti, ottengono e subito usano permessi di sopraelevazione di uno o più piani sui vetusti edifici centrali. In questo clima nasce un tipo particolare della «speculazione». Questa è nobile parola, propria di una nobilissima e rarissima qualità umana, quella dello «speculare», ossia del guardare e sovratutto del «vedere» lontano, nel futuro, sugli avvenimenti e sulle vicende che oggi la comune dei mortali non intuisce e non vede; ma è interesse collettivo qualcuno intuisca e veda.
Nella città bella, lo speculatore è alleato dell’amministratore previggente e sapiente. Il piano regolatore meglio concepito, quello che ordina l’incremento cittadino più adatto alla prosperità ed al buon vivere del domani, non si attua da solo. L’autorità cittadina può costruire le scuole, gli edifici di uso pubblico, i parchi ed i giardini, le chiese, i ricreatori e le palestre; ma tutti gli apprestamenti più perfetti non vivono, non operano se qualcuno non corre il rischio del costruire privato delle case di abitazione, di ufficio, di negozio.
Solo lo speculatore antivede dove sono massime le possibilità del frequente passaggio di coloro ai quali abbisognerà comprare e vendere e negoziare e ricevere clienti per litigi dinnanzi ai tribunali, per consulti di sanità. Il valore delle aree edilizie non nasce nella città bella per generazione spontanea; ma è massimo, là dove lo speculatore ha visto che quella area propria al commercio e quell’altra invece allo studio professionale e l’altra ancora ad abitazione ricca ovvero a buon mercato. L’errore, nello scegliere le aree adatte al fine di massima utilizzazione, deprime il reddito e quindi il valore capitale delle aree.
L’opera del buon amministratore e dell’avveduto speculatore sono le une alle altre complementari, ché l’una pone i limiti ed i vincoli, l’altra intende all’utilizzazione migliore e quindi al reddito massimo entro quei limiti e quei vincoli.
Tutt’altro è il tipo dello speculatore nella città brutta.
Qui si specula non per antivedere, ma per deformare il futuro nell’interesse di talun possessore di aree desideroso di utilizzarle intensivamente e presto. Si specula sull’intrigo e sul lucro; si crea il fatto compiuto delle costruzioni disordinate su vie non ancora esistenti od a mala pena tracciate in un piano regolatore invecchiato, non più rispondente alle esigenze della città progressiva.
Le case vengono su senza fognatura, senz’acqua e senza illuminazione. Quando sono popolate di nuovi venuti, attratti dal basso prezzo di acquisto o dai fitti modesti, e le promesse degli impresari non si avverano subito, gli abitanti inviano deputazioni al sindaco ed all’assessore competente, invocando strade salde e provvidenze igieniche. I giornali pubblicano lettere di chi si querela di essere abbandonato in mezzo alla campagna.
L’amministratore pubblico è costretto a compiere l’opera sua là dove un razionale piano regolatore non lo consentirebbe, o lo consentirebbe soltanto, con minor dispendio, in prosieguo di tempo. Frattanto, la lottizzazione di talune aree adatte alla pronta fabbricazione avanza nelle zone intermedie fra i borghi improvvisati nella campagna e la cerchia antica cittadina.
Lo speculatore d’intrigo promuove la concessione di permessi per l’altezza e la superficie massime consentite dai regolamenti edilizi vigenti; ed ogni nuova costruzione eccita e costringe al compimento delle opere pubbliche necessarie alla vita cittadina: fognatura, condotta dell’acqua, illuminazione, sede stradale.
La spesa, fatta per soddisfare alle esigenze di chi forse ha costruito a bell’apposta al margina estremo della via nuova, cresce il valore delle aree fabbricabili intermedie. I cittadini, costretti a percorrere lunghi tratti di via nuda per giungere alla casa instrutta, protestano contro l’inerzia municipale, la quale abbandona tanto spazio di strada priva dei servizi pubblici essenziali, occasione, per l’oscurità dominante, al malfare delle donne perdute e dei loro protettori.
L’opera pubblica così imposta cresce vieppiù il valore delle aree fabbricabili intermedie e retrostanti, dove frattanto sono sorte baracche improvvisate di legno e lamiere fruste, riparo di immigranti senza casa, che una legge iniqua considera illegali e privi di permesso di lavoro onesto. I valori edilizi salgono ognor più nelle aree dove si prevede potere costruire gli otto e i dieci piani di case, rassomiglianti a quelle che Giovenale descrive per la Roma imperiale, dai molti piani, dove gli abitanti ricordavano l’incendio di Nerone e ne temevano la ripetizione. Il disordine della città brutta favorisce l’affittirsi delle case – alveari, propizie agli intrighi degli speculatori ed al sospetto di connivenze remunerate dei funzionari preposti alla attuazione dei piani regolatori ed alla concessione dei permessi di costruzione.
Qui ha luogo l’imposta sulle aree fabbricabili, ché i doppi di imposta e le sciabolate tributarie si confanno al brutto edilizio, al disordine nella costruzione delle case, alla mescolanza delle scuole, delle chiese, degli alveari per le torme raccogliticce degli impiegati di uffici pubblici disseminati per ogni dove, dei negozi, dei laboratori artigiani e degli stabilimenti industriali.
Laddove nella città bella l’imposta sulle aree è condannabile perché promuove la costruzione delle aree innanzi al momento della loro maturità economica; nella città disordinata e brutta l’imposta speciale odiosamente spinge i possessori a vendere orti, parchi, giardini, terre di conventi e monasteri a speculatori meglio atti a destreggiarsi nel dedalo delle valutazioni fiscali; e giova solo, così come desiderava lo speculatore d’intrigo, ad accelerare la costruzione delle superfici intermedie fra quelle già costruite, promuovendo lo spesseggiare di temporanei depositi, di laboratori, di negozi, di case a buon mercato, che dovranno poi essere abbattute quando il rione cittadino si sia maggiormente sviluppato e frattanto consentono di non pagare l’imposta speciale e dare un reddito bastevole.
Che è spreco del risparmio, che potrebbe essere investito in maniera permanente più economica, nell’attendere il momento della maturazione delle aree mantenute acconciamente vuote.
La città disordinata e brutta è il luogo proprio del gravame, che malamente si dice imposta, ma è multa o penalità; la quale colpisce in modo particolare gli innocenti, i quali volentieri si sarebbero astenuti dal vendere l’area non ancora giunta al momento della ottima utilizzazione; ed esenta i furbi, i quali sanno, in combutta o, il che fa lo stesso, in sospetto di combutta con gli amministratori pubblici autori di piani regolatori intesi ad accelerare la costruzione intensiva degli alveari raccolti in breve spazio e privi di luce e di verde e di riposo.
Non ho proposte o suggerimenti per un’imposta la quale nasce nel brutto e nel disordine, salvo forse un solo: poiché la ragione degli altissimi valori, sproporzionati ai benefici reali che la città bene ordinata nel suo incremento progressivo reca ai cittadini, è la insipienza degli amministratori pubblici, incapaci ad antivedere il futuro, alla multa che diversamente colpisce innocenti proprietari impediti di conservare terreni non ancora maturi per la città bella e furbi speculatori conniventi con avveduti accaparratori di aree – edilizie, sia collegata altra multa posta a carico degli amministratori pubblici dimostratisi inetti a procacciare il bene comune. poiché l’indice migliore del danno sofferto dalla collettività è il rendimento dell’imposta speciale, siano assoggettati i pubblici amministratori, a norma della loro responsabilità, ad una multa proporzionata al rendimento medesimo.
Anche se la proporzione fosse modesta, gioverebbe a tener lontano dagli uffici coloro che sentissero di essere inetti a distinguere tra la città bella e bene ordinata e la città brutta e disordinata.
Il suggerimento è, senza forse, stravagante; ma non più di quanto sia il proposito di provvedere, con una falsa imposta, che è il doppio di quella vera bene congegnata sul reddito dei fabbricati, all’esigenza di apprestare agli abitatori una città che non sia inospite rifugio di cemento e di mattoni, nella quale invano gli uomini cercano, dopo una giornata di fecondo lavoro, il restauratore riposo per sé e la famiglia, e dalla quale invece essi fuggono, non appena possono, verso la campagna, il verde ed il sole.