Opera Omnia Luigi Einaudi

Paradossi ma non troppo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 02/02/1952

Paradossi ma non troppo

«Il Mondo», 2 febbraio 1952

 

 

 

Lode ai Parlamenti che fanno decadere la più gran parte delle proposte di nuove leggi e ne lasciano sopravvivere poche, quelle che sono veramente vantaggiose per la collettività.

 

 

Se un vecchio parlamentare del glorioso decennio piemontese o dei tempi della Destra storica potesse assistere ai dibattiti odierni, forse due fatti principalmente lo stupirebbero.

 

 

Nessun oratore, in primo luogo, si oppone alla proposti di nuovi dispendi o, se taluno chiede la riduzione di una data spesa (ad esempio per la difesa), ciò fa solo per chiedere un ben maggiore aumento in altri più popolari capitoli.

 

 

Chi ricorda che i Parlamenti sorsero appunto per opporsi alle richieste di nuove spese ed alla esazione di nuove imposte da parte dei re? Anzi, consentivano alla riscossione delle nuove imposte solo se i principi promettevano ogni volta in cambio franchigie od immunità da abusi ed arbitri? Salvo forse in qualche contrada antidiluviana, come la Svizzera e gli Stati Uniti, dove si legge ancora di deputati e di senatori i quali abbiano dato voto contrario a spese proposte dal governo? La testa di turco degli oratori è la ostinazione del ministro del Tesoro e del ragioniere generale dello Stato a negare il consenso a spese utili, necessarie, urgentissime. Laddove Tesoro e ragioniere sono meri nomi, privi di contenuto sostanziale, figure retoriche usate per significare il vero paziente, che è il cittadino o ceto sociale chiamato a pagare le nuove spese. Durante la lunga contesa per gli aumenti degli stipendi agli impiegati statali chi pose il problema nella sola maniera corretta: quale il grado di probabilità che l’aumento di 45 miliardi nella spesa per gli statali cagioni un aumento nel valore dei servizi resi dagli stessi impiegati? Se l’Alimento non ha luogo o se esso ha un valore inferiore ai 45 miliardi di maggiore spesa, ciò vuol dire che il reddito nazionale totale è rimasto invariato, suppongasi, sugli 8000 miliardi od è cresciuto, per virtù delle migliorate, ma non abbastanza migliorate, prestazioni degli impiegati solo ad 8020 miliardi. In tal caso, essendo invariata o poco cresciuta la torta, il di più della fetta assegnata agli impiegati, su chi cadrà? In un paese povero come l’Italia, nel quale, nonostante le chiacchiere degli orecchianti, i grossi redditi tengono poco posto, non è forse probabile che i 45 od i 30 od i 25 miliardi non compensati dalla maggiore produttività del lavoro meglio pagato degli impiegati, cadano in tutto o in parte su redditi di ceti sociali assai peggio pagati degli statali? Vi sono milioni di famiglie di braccianti pugliesi calabresi siciliani sardi veneti, milioni di artigiani e prestatori di servizi personali, i quali hanno redditi inferiori, talvolta notevolmente inferiori, a quelli dei peggio pagati tra i salariati statali. Chi oserebbe sostenere che un lavoro di uno sterratore del Polesine, di un vignaiolo o ortolano o coltivatore di agrumeti, del Mezzogiorno non sia un lavoro più intelligente, più difficile, più faticoso di quello proprio della più parte degli inservienti, uscieri e commessi dei ministeri romani? Quale parlamentare ha messo a confronto il valore sociale ed economico dei due tipi di lavoro ed ha manifestato qualche dubbio sulla opportunità di trasferire parte del reddito nazionale dall’uno all’altro gruppo? Taluno, per scarico di coscienza, discorse ancora una volta di necessarie riforme nella pubblica amministrazione rivolte a procacciare un miglior rendimento del lavoro degli impiegati; ma essendo a detta di tutti il problema assai complesso e difficile, anche stavolta si riconobbe la fatalità di doverne scindere la soluzione da quella dell’urgente aumento degli stipendi; riconoscendosi cosi, per deduzione logica, implicita, che rimanendo invariato quel rendimento ed invariato perciò il reddito nazionale, i 45 miliardi di incremento nella spesa degli stipendi sarebbero andati, attraverso la retorica fumosa delle «possibilità del Tesoro, a scemare i redditi di qualche altro ceto sociale, e cioè di un ceto sociale meno atto a respingere l’offesa; ossia ancora la maggior spesa avrebbe cresciuto la fame dei ceti sociali già usati a vivere di pane e cipolle, di pane e pomodori.

 

 

Il che non importa siano biasimevoli in generale i trasferimenti dì reddito da un ceto ad un altro, dai più ricchi ai più poveri, quando si supponga invariato il reddito nazionale totale; ma occorre sempre dimostrare che il trasferimento non distrugge troppo più reddito di quanto non ne trasferisca e che il trasferimento va a vantaggio dei più umili tra i poveri. Ove si supponga invero l’esistenza di 45 miliardi trasferibili senza troppo danno» la causa non e senz’altro vinta dagli statali. Quale dei due gruppi sociali, gli statali od i braccianti calabresi, merita maggiormente di trarre pro dal trasferimento? E quale dei due promette di crescere alla lunga meglio il prodotto nazionale totale cosi che il vantaggio da esso conseguito non riesca dì aggravio a nessuno? Come accadde nell’ultimo decennio del secolo scorso e nel primo del presente, quando gli aumenti di salario conseguiti dai contadini della valle padana e dagli operai industriali fecero dapprima gettare le alte strida ai datori di lavoro; ma poi ci si accorse che, per il più alto rendimento del lavoro, tutt’e due le parti erano state avvantaggiate.

 

 

Accanto al silenzio sulle spese pubbliche, il redivivo parlamentare di tempi andati si stupirebbe oggi di un secondo universale fatto: e cioè della querela assai frequente nei giornali e nei comizi contro i Parlamenti; r quali lavorerebbero poco ed adagio, mostrando scarso zelo nel discutere ed approvare nuove leggi. Dimentichi del ventennio fascistico, durante il quale bastava che al dittatore od ai suoi consiglieri venisse in mente una novità qualsiasi, perché il giorno dopo fosse pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’opportuno decreto-legge; ed un capitano d’industria o d’affari di Milano, Torino o Genova, disturbato dalla presenza o dall’assenza di una norma legislativa atta a risolvere una sua importante privata difficoltà, poteva esclamare:

 

 

«Stasera parto per Roma a reclamare la emanazione dell’urgente decreto-legge», dimentichi di quanto arbitrio, instabilità, incertezza fosse cagione la legiferazione improvvisata, a getto continuo, ogni sabato notte nel tempo fascistico, oggi si invoca la riforma del Parlamento, lo snellimento dei suoi lavori, la divisione del lavoro tra le due Camere e la limitazione del contenuto delle leggi ai principi generalissimi da integrarsi con regolamenti ministeriali. Oggi la vita si svolge rapida mutabile molteplice; ed il Parlamento deve perciò adeguare l’opera sua legislativa alla cresciuta accelerazione dei mutamenti della vita del paese.

 

 

Ancora una volta i critici dimenticano il vero compito dei Parlamenti in punto di fabbricazioni delle leggi. Il grado di civiltà e cioè di libertà di un popolo è in vero tanto maggiore quanto più numerosi e forti sono gli ostacoli alla produzione di norme obbligatorie per i cittadini. Chi più del tiranno è pronto, chi meno legato di lui nel dichiarare nuove norme obbligatorie, nuove leggi? La sua parola stessa è legge; il suo comando muta di giorno in giorno, si adatta ai casi singoli, vincola l’individuo e non il gruppo. La libertà nasce quando il comando del capo, del tiranno, del re non ò più senz’altro legge; quando il comando deve ubbidire al costume; deve richiedere il consenso dei saggi: la libertà si rafforza quando l’ordine del capo richiede, per essere vincolante, il trascorrere del tempo; grazie al quale il consenso dei popoli dichiara non essere la nonna formulata in odio al singolo, ma giustamente applicabile alla generalità dei casi. Il consiglio degli anziani, il consenso dei probi uomini. L’approvazione dei capifamiglia, la convocazione degli eletti delle comunità, delle città, dei nobili, dei borghesi, del clero, l’obbligo della registrazione dell’editto da parte delle corti giudiziarie, che altro significato ebbero se non quello di freno posto alla volontà capricciosa del sovrano, alla impulsività del capo, alle esigenze effimere del fatto del giorno, che stupisce e spinge all’azione immediata? Perché si compilano regolamenti parlamentari, i quali pongono limiti alla presentazione ed alla approvazione delle proposte di legge; perché Bono formulati obblighi di discussione pubblica, di esami preventivi e dì commissioni, di relazioni giustificative delle proposte presentate dai governi e dai parlamentari? Quale fondamento ha la istituzione delle due Camere del Parlamento, l’obbligo di ripetere una seconda volta le stesse logoranti discussioni se non quello di evitare la fretta e la improvvisazione nella approvazione di nuove leggi, per la urgenza di porre subito rimedio all’inconveniente, al danno, al disastro il quale abbia commosso il popolo ed abbia fatto dire ai più: «bisogna provvedere e provvedere subito per evitare in avvenire il danno, per riparare al disastro». Perché gli usi, le Costituzioni scritte e non scritte hanno voluto frenare la spinta a dettar subita la norma reputata dai più ungente per rimediare ad un dato male e conseguire quel desiderato bene? Perché il diritto qua di sanziona, là di veto, altrove di rinvio ai Parlamenti accordato ai capi di Stato? Perché tutte queste remore a fare il bene?

 

 

Chiarissimo e notissimo è il perché: la sapienza popolare, l’insegnamento dei secoli, l’esperienza universale hanno detto che la fretta, l’urgenza, la rapidità nel far leggi nuove sono il male dei mali, sono il danno massimo, sono lo strumento perfetto di tirannia, tirannia dell’uno, dei pochi, dei molti. La fretta è mala consigliera; l’urgenza è spesso invocata da coloro i quali vogliono distruggere qualche libertà, menomare qualche attributo della persona umana. Le leggi devono essere meditate a lungo o non sono leggi. Sono norme caduche, le quali, emanate oggi, domani dovranno essere modificate o revocate e frattanto avranno provocato danni irreparabili. Le leggi frettolose, le leggi non passate al vaglio di discussioni defatiganti sono spesso inutili e non di rado arnesi di sopruso a favore di piccoli gruppi rumorosi a danno dei più, usati a tacere; sono strumento di demagogia procacciatrice di successi apparenti immediati e feconda di mah duraturi.

 

 

Lode va dunque ai Parlamenti i quali facciano decadere la più gran parte delle proposte di nuove leggi e ne lascino sopravvivere poche, quelle poche le quali siano veramente vantaggiose alla collettività.

 

 

I grandi scrittori politici hanno riconosciuto unanimi la malvagità delle molte leggi nuove e la bontà delle pochissime degne di regolare la vita dei popoli. Guicciardini in uno dei pensieri aveva già lapidariamente affermato che la proposta di una legge nuova è per se stessa condannabile. Nella centoventesima nona «lettera persiana», Montesquieu scriveva con la data del 1719:

 

 

«I più dei legislatori sono stati uomini di mente ristretta che il caso ha posto a guida altrui, ed i quali hanno dato ascolto quasi soltanto ai loro pregiudizi ed alle loro fantasie. Essi non hanno veduto la grandezza e la dignità del loro compito; e si sono divertiti a creare istituzioni puerili, adeguandosi in tal modo alle menti limitate e screditandosi presso le persone di buon senso. Hanno abbondato in particolari inutili e si sono dilettati di casi speciali; caratteristica dei cervelli piccoli, i quali vedono le cose singole e non si elevano mai alle vedute generali.

 

 

«I più dei legislatori hanno spesso abolito senza necessità le leggi esistenti, solo perché le hanno trovate già fatte; e cosi hanno gettato i popoli nel disordine che sempre accompagna le mutazioni. E vero che talvolta è necessario mutare qualche legge; ma il caso è raro e quando si verifica fa d’uopo toccare le leggi vecchie con mano tremante. Importa, nel far ciò, osservare tanta solennità e munirsi di tante precauzioni da persuadere il popolo che le leggi sono veramente cosa santa se occorrono tante formalità per abrogarle».

 

 

E Ferdinando Galiani, grandissimo fra gli scrittori politici del secolo XVIII, a 23 anni ricercando nel 1750 le ragioni per le quali i principi legiferavano così spesso in materia monetaria, ne indicava con le seguenti parole la più persuasiva:

 

 

«Essa è che gli uomini credono sempre far bene col fare e che, non facendo, s’abbia a star male; né si troverà magistrato, che voglia pregiarsi di non aver fatto. E pure il non fare non solo è cosa ripiena molte volte di pregio e di utilità, ma ella è inoltre difficile molto e faticosa assai più che non fare ad eseguire. E, se noi riguarderemo che tutte le nuove leggi, che si possono sopra qualche materia fare, si possono in un sol colpo promulgare ed in un foglio raccogliere, conosceremo che, quando é fatto tutto il buono, e pure si vuole (non contentandosi i eseguire il già fatto) seguitare ad ordinare, è inevitabile guastare il buono e cominciare il cattivo; e, ancorché non si facesse male, il voler troppo minutamente ordinare le cose è in sé grandissimo difetto».

 

 

Auree sentenze, che gioverebbe meditare a lungo; sicché meritata lode si cominci a tributare a quei governi ed a quei Parlamenti i quali invece di addirsi alla fatica di Sisifo della fabbricazione di nuove leggi, molto spesso mediocri o cattive e quasi sempre inutili e dopo breve tempo contennende, scrutassero diligentemente l’abbondantissima legislazione dei tempi recenti per espurgare le raccolte delle leggi da tutte quelle norme che con grande vantaggio pubblico se ne potrebbero resecare. Così conducendosi, governi e Parlamenti dimostrerebbero di aver egregiamente adempiuto al loro alto ufficio, e si procaccerebbero il favore duraturo dei loro popoli, gratissimi pel beneficio ricevuto.

 

 

MANLIO MAGINI[1]



[1] I riscontri archivistici confermano l’attribuzione einaudiana del testo [ndr]

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