Opera Omnia Luigi Einaudi

Pareggio di bilancio e cambi alti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 12/06/1924

Pareggio di bilancio e cambi alti

«Corriere della Sera», 12 giugno 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 731-734

 

 

l bilancio, osservano molti, è in pareggio ed il consolidato alla pari; ma il costo della vita è sempre altissimo ed i cambi sono fermi intorno ai 23 centesimi per lira. «L’opera energica del ministro delle finanze – dicono altri – è riuscita a far pagare i renitenti ed ha conquistato all’obbligo tributario vaste masse di assenti». «Ma – rispondono altri ancora – l’opera sua sarebbe stata assai meno feconda, se i ministri precedenti non gli avessero preparato la via e se gli italiani sino dal 1919 non fossero stati chiamati a pagare durissime imposte».

 

 

Queste voci paiono discordanti; ma in realtà non sono. In realtà bilancio in pareggio, consolidato alla pari, lira a 23 centesimi sono fatti i quali oggi mutuamente si condizionano. Oggi, dico, poiché in un domani non vicinissimo i rapporti tra quei fatti potrebbero anche cambiare. Ed il fatto del pareggio e del consolidato alla pari si collega evidentemente con l’opera degli uomini del passato, al punto che persino i loro demeriti, compreso il più grosso dei loro demeriti, la svalutazione della lira, devono essere considerati come una delle cause del pareggio raggiunto. Tutto ciò non è paradosso, ma evidenza intuitiva. Sarebbe illogico affermare la possibilità di mantenere il pareggio e nel tempo stesso mandare la lira a 100 centesimi; tenere il consolidato alla pari e ridurre il costo della vita al livello del 1914.

 

 

Ponendo il problema in termini storici si può affermare questo: che il peccato maggiore di cui si macchiarono i dirigenti la finanza italiana dal 1914 al 1920 fu la emissione strabocchevole di carta-moneta. Forse fu peccato socialmente, politicamente fatale. La circostanza che quasi tutti gli stati se ne macchiarono starebbe a provare la fatalità del peccato. Il fatto che qualche stato se ne macchiò in misura notevolmente più bassa, sicché le conseguenze furono di gran lunga meno temibili, starebbe a provare che, insieme colla fatalità, ci fu una parte di debolezza nello istituire per tempo imposte sufficienti, di imprevidenza nell’usare il facile strumento del torchio, di rilassatezza nel non frenare le spese, specie nell’immediato post-guerra.

 

Avendo, durante tutto quel periodo in cui si faceva lavorare il torchio della carta-moneta, scritto infinite volte per protestare contro il funesto andazzo, per dimostrare che guerra e carta-moneta non sono due fatti inseparabili, e per chiarire le dolorose conseguenze a cui si andava incontro, chi scrive può oggi dolorosamente, ma senza rimorso alcuno, constatare che quel funesto andazzo ha prodotto tutte le conseguenze di cui era capace: e fra queste conseguenze c’è anche il raggiunto pareggio.

 

 

Il deprezzamento monetario, è cosa nota, è alla radice di tutto quel grande rivolgimento sociale e politico che ebbe luogo in Europa dopo il 1914. Esso immiserì le classi a reddito fisso, gittò semi di odio e di rivolta nelle moltitudini contro gli arricchiti, che si chiamarono a torto gli arricchiti «di guerra» mentre avrebbero dovuto chiamarsi gli arricchiti «della moneta bassa»; rese invidiosi coloro che si erano arricchiti di meno contro coloro che si erano arricchiti di più. La sua azione continua ancor oggi; poiché, essendo difficilissimo disfare ciò che si è dannosamente fatto, essendo grandemente dubbia la convenienza di aggiungere ai mali della svalutazione i mali della rivalutazione, pone contro le classi le quali sperano dalla rivalutazione un beneficio le classi le quali ne paventano la rovina delle industrie e la disoccupazione operaia.

 

 

Il bilancio dello stato è in pareggio perché paga agli antichi creditori gli interessi con lire a 23 centesimi. Se dovesse pagare con lire a 100 centesimi, addio pareggio! Il consolidato è alla pari perché le 5 lire di interesse costano allo stato l’equivalente di 1,15 lire d’ante-guerra. Se sul serio lo stato dovesse pagare in oro, non potrebbe pagare 5 lire, ma appena 1,15 o giù di lì, e il consolidato invece di valere 100 lire ne varrebbe 23. Sarebbero 23 lire-oro; ma la pari non ci sarebbe. I contribuenti pagano tante imposte quante bastano per ottenere il pareggio; ma trattasi di pareggio sulla base di lire a 23 centesimi. Se dovessero pagare in lire oro, potrebbero pagare assai meno; e quindi lo stato incasserebbe 4 contro 18 di spesa; il che vorrebbe dire che il pareggio non ci sarebbe; o si potrebbe ottenere soltanto col ridurre ad gli interessi del debito pubblico, ad  gli stipendi, ad  tutti gli impegni. La qual cosa è facile a dirsi, difficilissima a farsi; poiché bisognerebbe distinguere tra quelli i cui crediti o diritti risalgono ad epoche di moneta buona e quelli che risalgono ad epoche più recenti. Né basterebbe; poiché ci può essere chi ha comprato vecchia rendita 3,50% con moneta buona e chi l’ha comprata con moneta vile a prezzo vile in epoche recenti. E tutto ciò è quasi impossibile ad appurare «legalmente», in regime di titoli al portatore.

 

 

Non v’è forse problema, il quale non contenga a causa della svalutazione monetaria un elemento di paradosso o di illusione. Contro il caro-viveri tutti insorgono; e contro il caro-fitti ed il caro-vestiti ed il caro d’ogni cosa; e da ogni parte si odono sospiri ed alti lai. Hanno però, coloro che si lamentano, sempre ben presente dinanzi alla mente l’illogicità delle loro lagnanze? Io comprendo la lagnanza in bocca di un vecchio ritiratosi dalla professione o dal commercio o dall’impiego con un reddito di 4 o 5 mila lire-oro, reddito fisso, oggi svalutato ad un quinto del valore antico. Questi è logico ed è veritiero nell’inveire contro la politica che lo trasse ad atroci sofferenze.

 

 

Ma colui che vide il suo stipendio, il suo salario, il suo reddito moltiplicarsi per cinque, non è un illuso o non vuole illudere altri quando grida contro il caro-vita? Se non ci fosse il caro-vita, se egli non dovesse pagar tutto cinque volte tanto, chi potrebbe pagare a lui un salario, uno stipendio, un onorario, un prezzo dei suoi servigi moltiplicato per cinque?

 

 

È sempre pericoloso azzardare cifre e percentuali; ma non si va forse molto lontani dal vero affermando che oramai la gran massa dei contadini, proprietari, fittaiuoli, mezzadri e braccianti, la gran massa di coloro che vivono delle industrie e dei commerci, la grandissima maggioranza degli operai, oso aggiungere persino la maggioranza degli impiegati si sono adattati al nuovo livello dei prezzi. Per i nove decimi della popolazione oggi il grido contro il caro-viveri è un non senso, per molti è una ipocrisia. La minoranza dei sofferenti, quel decimo della popolazione che per l’età, per il sesso, per le attitudini e le professioni esercitate non ha potuto crescere i proprii redditi o stipendi o pensioni deve sentirsi a giusta ragione indignata di questo coro immenso in cui la voce della sua disperazione si disperde e che, per il falso suono che dà, annulla il valore del grido di aiuto che esce dalle file dei veri danneggiati. Purtroppo, poco si può fare – salvo forse in materia di imposte – per questa minoranza che il trascorrere degli anni inesorabilmente assottiglia; ma essa ha gran ragione di protestare contro i programmi assurdi di cose che fanno a pugni: alti salari e lotta contro il caro-viveri pareggio del bilancio e rivalutazione della lira – consolidato a 100 e cambio alla pari. Porsi ideali di fantocci assurdi significa non volere riparare nulla, non volere neppure smussare alcune tra le più acuminate punte delle ingiustizie ancor oggi sanguinanti prodotte dalla svalutazione monetaria.

 

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