Opera Omnia Luigi Einaudi

Parte seconda Delle imposte in generale Capitolo I. Il problema della ripartizione delle spese pubbliche indivisibili e caratteristiche dei prezzi pubblici proprii, improprii e spurii

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Parte seconda

Delle imposte in generale

 

Capitolo I.

Il problema della ripartizione delle spese pubbliche indivisibili e caratteristiche dei prezzi pubblici proprii, improprii e spurii

 

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 171-185

 

 

 

156. La posizione del problema. – L’argomento delle imposte, di cui ci dobbiamo ora occupare, come è il più caratteristico della scienza finanziaria, così è anche quello che presenta la maggior somma di problemi irresoluti e siffattamente complessi da non essere agevoli di sperarne presto la risoluzione.

 

 

Le ragioni di questa complessità maggiore si veggono agevolmente, ove si pensi ai passaggi graduali che dal prezzo privato ci hanno condotto alle soglie dell’imposta. L’elemento pubblico, che prima era inesistente, a poco a poco cresce d’importanza; il prezzo, che, in regime di industria privata, normalmente copre tutto il costo di produzione, lo copre ancora quando si tratta di prezzo pubblico, sebbene il prezzo stesso sia regolato diversamente da come lo sarebbe in economia privata; ma non lo copre più con la tassa e col contributo. Tassa e contributo coprono solo quella che è stata detta la parte divisibile del costo, e ne lasciano scoperta la parte indivisibile.

 

 

Qui si comincia a vedere quale sia il compito dell’imposta. Essa è pagata cioè per far fronte alla parte indivisibile del costo delle funzioni che l’ente pubblico si è addossato. Ritorneremo subito su questo concetto della indivisibilità, a cui noi finora abbiamo accennato, senza soffermarvisi sopra per non anticipare nella trattazione su argomenti che dovevano venire in seguito. Ma tutto il contesto del discorso ha già messo in luce come lo Stato provveda, normalmente almeno, per mezzo di prezzi quasi privati, di prezzi pubblici, di tasse e di contributi a quei servizi i cui benefici sono individualmente risentiti dagli utenti, in guisa che ognuno sia disposto volontariamente (prezzi quasi privati, prezzi pubblici e tasse) o si disponga per comando del legislatore (contributi) a pagare una somma che si presume sia il corrispettivo di un qualche servigio che l’utente-contribuente direttamente e personalmente e separatamente dai co-utenti riceve.

 

 

Cosicché implicitamente l’imposta si vede già essere quella somma che i contribuenti debbono pagare per far fronte a quelle spese od a quella parte di spese che non rendono un beneficio singolare, particolare ai cittadini; o che, pur beneficandoli, non li beneficano in modo che si possa constatare qual’è il beneficio che va a vantaggio particolarmente di Tizio o di Caio o di Sempronio. Il costo di queste spese o di questa parte di certe spese dicesi perciò indivisibile; e deve essere sopportato con imposte.

 

 

Le imposte si potrebbero quasi considerare come un fatto «residuo». Tutte le spese che l’ente pubblico non riesce o non vuole o non sa far pagare in tutto od in parte a coloro che ne hanno tratto un beneficio particolare vanno a finire in un grande conto, dove tutte queste spese indivisibili, vaganti che nessuno vuol pagare sono elencate, registrate, sommate. Il totale che ne risulta è enorme. All’incirca, e senza pretendere di dire cifre esatte, le quali variano da un anno all’altro, si può dire che su 2.800 milioni di spese effettive (comprese le spese ferroviarie) dello Stato italiano, solo 800 milioni siano spese divisibili, che si possono accollare agli utenti, a coloro cioè che se ne hanno tratto un vantaggio particolare, e ben 2.000 milioni sono spese indivisibili, che non si sa a chi far pagare in modo preciso e che perciò genericamente si dice che devono essere fatte pagare a tutti, per mezzo di imposte. Questi tutti, che pagano le imposte, non conservano più il nome di consumatori, come in economia privata, o di utenti, come spesso si dice a proposito di quei beni pubblici che si pagano con prezzi pubblici, tasse e contributi; ma prendono il nome dei contribuenti, quasi a mettere in evidenza il fatto che essi sono chiamati a «contribuire» insieme, collettivamente, a spese di cui i singoli non vogliono sapere.

 

 

La cifra addotta di 2.000 milioni di spese a cui si provvede con imposte, contro a soli 800 milioni a cui si provvede con tutti gli altri mezzi finora discorsi, basta a mettere in luce l’importanza fondamentale del problema delle imposte. Il qual problema, in parole molto semplici, consiste in questo; come ripartire su tutti, sui contribuenti questi 2.000 milioni (2.000 milioni all’incirca, nell’Italia del 1913 ma cresceranno; ed in altri paesi sono già cresciuti a 4, 5, 6 miliardi di lire in più) di spese che vanno a beneficio di tutti in genere e di nessuno in particolare; di spese che tutti dichiarano necessarie ed ognuno cerca di schivare ove appena la cosa gli sia possibile? Problema arduo, se si pensa che manca il criterio il quale finora ci era servito; il criterio del beneficio individuale che la spesa arrecava all’utente del servigio pubblico o del costo particolare necessario a rendere quel servigio. Bene o male, il criterio della ripartizione della spesa secondo i vantaggi e costi individuali aveva giovato finora all’ente pubblico, come giova al produttore privato; e la libertà della domanda da parte dell’utente serviva di calmiere infallibile contro ogni esagerazione nelle pretese dello Stato. Ora nono più. I servigi al cui costo si tratta di provvedere formano una massa compatta, a cui tutti devono provvedere. Come si provvederà?

 

 

Una breve analisi delle spese pubbliche indivisibili a cui si provvede con le imposte gioverà a chiarire il problema ed a preparare la via alla soluzione.

 

 

157. Caratteristiche dei servizi pubblici: non lo è la generalità. – Chiamiamo servizi pubblici proprii quelli a cui non si può far a meno di provvedere con le imposte, perché in nessun modo entrano nelle categorie precedenti; non essendo possibile affatto di conoscerne il beneficio ai singoli. L’analisi delle caratteristiche di questi servigi ci dimostrerà che ve n’è, innanzitutto, un certo numero che non si può tecnicamente immaginare possano essere pagati con prezzi privati, quasi privati, prezzi pubblici, tasse o contributi. Si tratta di servigi che devono essere, per ragioni tecniche, resi in maniera tale che quei mezzi di pagamento sarebbero disadatti; onde la necessità dell’imposta. Chi voglia approfondirsi su questo argomento potrà leggere la traduzione italiana dei Principii fondamentali dell’Economista diretta dal prof. P. Iannacone e, tra i libri italiani, quelli principalmente del prof. De Viti De Marco su Il carattere teorico dell’economia finanziaria (Roma, 1888) e del prof. U Mazzola su I dati scientifici della finanza pubblica, insieme con i parecchi studi che il prof. M Pantaleoni è venuto pubblicando nel Giornale degli Economisti e di cui la maggior parte si trova raccolta nei tre volumi fin qui comparsi di suoi saggi. Noi ci atterremo ad una trattazione compendiosa.

 

 

Alcuni dissero che una caratteristica dei servizi pubblici proprii, a cui per ragioni tecniche si deve provvedere con imposte, dev’essere la generalità dei servizi stessi, ossia la esistenza del bisogno relativo presso la totalità od almeno un grandissimo numero degli uomini viventi in un paese organizzato a forma di Stato. Questo concetto però non può essere ammesso in quanto che, se si potessero considerare senz’altro come servizi pubblici proprii servizi che sono generali, lo Stato dovrebbe far fronte a molti bisogni che sono certamente generali; per esempio il bisogno del pane, dei cibi, dei vestiti, della casa; e che tuttavia nessuno considera, per ora almeno, come servigi pubblici proprii, tali cioè che necessariamente richiedono l’intervento dello Stato. Non basta perciò che il bisogno sia generale perché possa dar luogo a servizio pubblico a cui provvedere per mezzo delle imposte.

 

 

158. Neppure la condizionalità. – Altri dissero pubblici i bisogni il cui soddisfacimento è condizionale al soddisfacimento di altri bisogni.

 

 

Se in qualche paese non c’è sicurezza sufficiente, gli uomini nono possono esercitare le industrie, l’agricoltura, ecc., perché ogni sforzo ridonderebbe a vantaggio altrui e quindi non verrebbe neppur compiuto.

 

 

Ma se è necessario il soddisfacimento del bisogno della pubblica sicurezza per procurarsi soddisfacimenti privati molteplici, non è questo un carattere specifico dei bisogni pubblici, perché sono numerosi i bisogni umani il cui soddisfacimento è condizione necessaria per il conseguimento di altre soddisfazioni. Il bisogno del cibo dovrebbe, a tale stregua, esser soddisfatto dallo Stato per mezzo delle imposte, perché se l’uomo è affamato o assetato non potrà, per esempio, studiare o contemplare una galleria di quadri, per averne un godimento estetico. Chi è scalzo e stracciato, non può normalmente recarsi al lavoro, non può avere rapporti utili con altri uomini, ecc. Quindi moltissimi bisogni sono condizionati ad altri; tutti i bisogni si concatenano gli uni con gli altri in quante il soddisfacimento preventivo di taluni è condizione necessaria al soddisfacimento successivo di altri.

 

 

Quindi, neanche questo carattere può considerarsi tale da poter definire i bisogni pubblici cui si soddisfa col pagamento delle imposte.

 

 

159. Si invece i caratteri della indivisibilità e del consolidamento. – Due altri sono invece i caratteri che permettono di distinguere i bisogni in questione: l’indivisibilità ed il consolidamento.

 

 

160. a) L’indivisibilità. – I bisogni che si soddisfano da privati oppure dallo Stato per mezzo del prezzo quasi privato o pubblico, della tassa e del contributo, hanno tutti il carattere di poter essere soddisfatti particolarmente dal singolo individuo. Invece i bisogni soddisfatti dallo Stato per mezzo dell’imposta hanno il carattere della indivisibilità. Bisogna cioè che il costo del loro soddisfacimento non sia ripartibile tra i singoli.

 

 

Lo Stato presta il servizio della pubblica sicurezza, ma non sa quanto di questo servizio vada a vantaggio dell’uno, quanto a favore dell’altro dei consociati. Lo Stato non può prestare il servizio della pubblica sicurezza solo a chi gli abbia pagato in precedenza un prezzo pubblico od una tassa, perché, mantenendo pubblica sicurezza e tribunali, non può difendere soltanto quelli che pagano, ma bisogna che difenda tutti e colpisca tutti i malviventi e gli offensori della pace pubblica. Se dovesse far prima, ogni volta, un’indagine preventiva per sapere se il richiedente il servizio della pubblica sicurezza ha oppure no pagato, si giungerebbe all’anarchia. Sarebbe distrutta l’essenza stessa dello Stato se si lasciassero i ladri e gli assassini esercitare liberamente la loro industria contro chi non avesse pagato la tassa.

 

 

Così si dica per il servizio della difesa dello Stato contro i nemici esterni. Lo Stato non può difendere il territorio nazionale soltanto a favore di taluni dei consociati (quelli paganti tassa). Ciò soltanto a non è tecnicamente possibile. Come non è possibile difendere la vita di Tizio e non quella di Caio; così non è possibile difendere l’integrità del territorio nazionale soltanto a favore dei gruppi di cittadini che volontariamente avessero pagato prima il prezzo della difesa. Ciò è tecnicamente impossibile. Il territorio nazionale si difende a prò di tutti i cittadini o di nessuno. Come pure la giustizia deve essere resa a tutti; perché possiamo chiamare noi giustizia quella di chi la rende solo a chi ne paga il prezzo caso per caso?

 

 

Ora si vede che cosa vuol significare il carattere della «indivisibilità» dei servizi pubblici proprii. Sono servizi che lo Stato non può, per la natura tecnica del servizio stesso, rendere a taluni consociati soltanto.

 

 

Quando l’ente pubblico se ne incarica, per definizione il servizio è reso a tutti i consociati. Naturalmente ciò suppone lo Stato organizzato a forma civile, così come esiste o si suppone che esista nella vecchia Europa occidentale. Noi, sotto certi rispetti, semibarbari Stati Uniti del nord, già l’abbiamo rilevato altre volte, accade che l’ente pubblico poco si curi di mantenere la pubblica sicurezza; o vi provveda in misura scandalosamente inadeguata; come per altri motivi tendono di nuovo a fare alcuni Stati modernissimi, come, per citare sempre esempi forestieri, la Francia, nella quale la polizia per anni rimase impotente, sotto la dominazione radico-socialista corsa dal 1900 al 1911, a domare sollevazioni sanguinose di scioperanti inferociti e devastatori e gesta incredibili di banditi in automobile. In questi paesi o in questi momenti allo Stato si sostituiscono imprese private che vendono sicurezza, come altri vende pane o vino, ad un prezzo liberamente dibattuto. Sta però di fatto che, appena la coscienza pubblica risorge, siffatta condizione di cose appare assurda e subito si richiede che lo Stato mantenga la sicurezza, impartisca giustizia, tuteli l’indipendenza nazionale. Noi non abbiamo bisogno di indagare il perché di questa esigenza. Questa indagine è compito delle altre scienze di Stato. La scienza finanziaria si limita a constatare che questa esigenza assoluta è un fatto; e che, dato questo fatto, ne discende la conseguenza logica della impossibilità tecnica di poter provvedere a certi servigi pubblici soltanto per coloro che volontariamente fossero disposti a pagare un prezzo pubblico allo Stato.

 

 

Il servigio è tecnicamente indivisibile anche perché non si sa quanto esso profitti a Caio, quanto a Tizio e quanto a Sempronio. Essendo reso a tutti, come si può pesare il vantaggio dei singoli? Come si può sapere, su un vantaggio della difesa nazionale stimato o costato 600 milioni di lire l’anno, quanta sia la parte aliquota dei singoli cittadini? Si conosce il vantaggio o il costo in blocco; non le quote afferenti ad ogni persona.

 

 

Questo è anche un fatto d’ignoranza certissimo; non è dovuto all’interesse di una classe, al predominio di un altra. No. È un fatto tecnico, che esiste oggi ed è probabile esisterà ancora in altri regimi politici e sociali.

 

 

Il fatto della indivisibilità porta ad una conseguenza importantissima: che non si può, a pagare le spese indivisibili, usare il criterio del prezzo né privato, né pubblico (si può trascurare la tassa, come da noi concepita, perché è un prezzo pubblico applicato ad una parte sola del costo). Come stabilire il prezzo di una merce o servizio il cui vantaggio non si può misurare per il singolo che dovrebbe pagare il prezzo? Il carattere della indivisibilità porta dunque alla conseguenza che il pagamento dell’imposta non può non tutti, farebbero il seguente ragionamento: io pago un tributo per avere la difesa nazionale, la sicurezza pubblica, la giustizia, perché apprezzo l’importanza di questi pubblici servizi e so che avrei danno gravissimo, anche particolare, se non lo facessi; ma poiché vedo che altri nulla paga ed ottiene lo stesso servizio, tanto vale che non paghi neppur io.

 

 

Vi sarebbero forse sempre alcuni, più consapevoli della necessità di questi servizi, che conserverebbero la volontà di pagare, ma, col crescere del numero dei non contribuenti, il novero dei paganti andrebbe sempre più restringendosi; il costo dei servizi indivisibili rimanendo lo stesso andrebbe sempre più gravando sui pochi volenterosi, sinché anche questi finirebbero per desistere, rendendosi a un certo punto impossibile la vita dello Stato.

 

 

Quindi, se si vuole che lo Stato esista, bisogna che il pagamento sia costrittivo per tutti e non venga a gravare soltanto su una minoranza sempre più ristretta e proclive, per il peso sempre maggiore, a non pagare.

 

 

161. b) Il consolidamento dei bisogni che devono essere soddisfatti per mezzo delle altre imposte, è il consolidamento. La parola «consolidamento» può essere ed è adoperata in finanza in parecchi significati; ma in questo caso vuol dire che il contribuente non deve avvertire la sensazione del bisogno; anzi non deve avvertire la sensazione del bisogno; anzi non deve avvertire in nessun momento che il bisogno non è soddisfatto.

 

 

Ciò non accade per gli altri nell’economia privata e nella finanza pubblica; anzi in tutti questi altri casi, prima c’è una privazione sentita dall’uomo, in seguito il bisogno di togliere questo senso di privazione e finalmente viene la richiesta di un bene o di un servigio atto a soddisfare a quel bisogno; così è per il cibo, così per i vestiti, ecc. Così pure nel caso dei prezzi pubblici e delle tasse, il primo sentimento è di privazione, a cui sussegue il bisogno di togliere la privazione stessa: bisogno di rivedere persone care, che ci spinge alla richiesta di un biglietto ferroviario; bisogno di comunicare con alcuno lontano, che ci fa comperare il francobollo; bisogno di studio o di un diploma di studio che ci spinge a pagare la tassa scolastica.

 

 

Invece nel caso di bisogni soddisfatti col mezzo dell’imposta è impossibile e sarebbe dannoso che la privazione fosse sentita prima e facesse così sorgere il bisogno, perché il giorno in cui i contribuenti sentissero la privazione di certi beni pubblici e gli inconvenienti che nascono dalla mancanza del soddisfacimento del bisogno pubblico, lo Stato arriverebbe troppo tardi per poterli soddisfare.

 

 

Il giorno in cui i contribuenti sentissero la mancanza della sicurezza pubblica, vorrebbe dire che essi, uscendo di casa, hanno paura di trovare indisturbati sulla via degli assassini o dei ladri e che non si senton sicuri neppure nelle proprie abitazioni. Ora, quando questa sensazione fosse realmente diffusa, è vero che questi uomini farebbero, e volontariamente, domanda al magistrato, per ottenere il soddisfacimento del bisogno della sicurezza pubblica; ma sarebbe anche vero che la domanda con tutta probabilità arriverebbe troppo tardi perché la società sarebbe allora già in mano ai malvagi, sarebbe preda dell’anarchia; e lo Stato sarebbe impotente a mantenere la pace pubblica.

 

 

Questa l’ipotesi estrema; essendo chiaro che esiste una graduazione infinita di posizioni a cominciare da quella in cui sono mantenute la perfetta sicurezza e la perfetta giustizia, ed in cui nessun uomo sente la privazione di questi beni pubblici, a quella in cui si verificano già alcune infrazioni, alle altre in cui le infrazioni si moltiplicano, i malviventi diventano forti, trovano manutengoli in tutti gli strati della popolazione, si diffonde l’omertà, per cui nessuno osa denunciare o testimoniare contro i rei di delitti, sino a giungere finalmente allo stato di completa anarchia. Qui si è voluto dire che, in uno Stato in cui perfettamente si conseguono i beni della giustizia e della sicurezza, nessun cittadino sente la privazione di essi beni; onde nessuno sente il bisogno di ottenerli. Ed il contrario accade laddove l’anarchia e la barbarie prevalgono. Ordunque, dovendosi presupporre nella nostra ricerca l’esistenza dello Stato, si deve presupporre l’inconsapevolezza nei più dei bisogni della sicurezza e della giustizia, poiché trattasi di bisogni già soddisfatti.

 

 

Il giorno in cui il popolo italiano sentisse la privazione del servizio della difesa nazionale, vorrebbe dire ch’esso, per definizione, avrebbe già perduta la propria indipendenza, cioè non esisterebbe più come Stato.

 

 

Lombardi e Veneti prima del 1859 e del 1866 sentivano la privazione del bisogno dell’indipendenza nazionale; perché essi non facevano parte di uno Stato italiano, anzi erano soggetti alla dominazione straniera. Perciò alcuni tra essi, i più consapevoli del valore supremo del bene dell’indipendenza, volontariamente si assoggettavano ad oblazioni pecuniarie per la causa del riscatto patrio, compravano cartelle del prestito mazziniano, sottoscrivevano ai 100 cannoni di Alessandria. Quelli erano prezzi pubblici o qualcosa che si potrebbe ai prezzi pubblici assomigliare, colla differenza che erano pagati non ad uno Stato già esistente, ma per la creazione di un nuovo Stato. I patrioti facevano quei sacrifici, perché sentivano duramente la privazione del sommo bene dell’indipendenza. Ma in un paese già eretto a Stato, questo si suppone soddisfi alla difesa del territorio nazionale. Onde i cittadini non sentono la privazione di un bene che già posseggono; e solo pochissimi (ancor meno dei patrioti del risorgimento) hanno la visione chiara della privazione del bene dell’indipendenza che essi sentirebbero se lo Stato non esistesse. E pochissimi si indurrebbero forse perciò a pagare un prezzo volontario per il conseguimento di un bene che quasi tutti neppure suppongono possa non essere conseguito.

 

 

Lo Stato dunque fornisce questi servizi pubblici prima che se ne senta il bisogno e ne nasca la domanda; di guisa che i contribuenti quasi non s’accorgono che i servizi pubblici sono forniti e non viene loro in mente che una domanda di questi servizi è necessaria.

 

 

Il consolidamento dei bisogni pubblici vuol dire soddisfacimento preventivo dei bisogni stessi, in guisa che il soddisfacimento quasi si consolidi nella psiche umana, appaia quasi automatico e fatale; sì da spegnere ogni incentivo a fare lo sforzo cosciente per soddisfare i bisogni consolidati.

 

 

Questo carattere dei bisogni pubblici porta alla conseguenza che se uno Stato è bene organizzato e soddisfa ai suoi fini, nessuno dei consociati fa domanda dei beni o servizi atti a soddisfare i bisogni consolidati, essendo essi soddisfatti preventivamente. Quando il bisogno non si sente non si fa domanda del bene atto a soddisfarlo. Se perciò rimanessimo nel campo del prezzo o della tassa, la domanda non si avrebbe, e lo Stato non avrebbe alcun provento; e quindi ancora ci troveremmo di fronte a questa contraddizione che da un lato lo Stato dovrebbe soddisfare a certi bisogni preventivamente in guisa che i cittadini non sentano la privazione relativa; e d’altro canto i cittadini, non facendo domanda del servizio stesso e non pagando il prezzo relativo, farebbero mancare allo Stato i mezzi per approntare i servizi stessi. Il fornaio produce pane perché sa che, prima o poi, ne riscuoterà il prezzo dai consumatori. Ma come farebbe lo Stato a produrre servizi pubblici proprii, quando fosse sicuro, come sarebbe se lasciasse i cittadini liberi di fare o non fare domanda, che nessuno glie ne pagherebbe il prezzo, pur dopo di averli goduti?

 

 

È quindi necessario che lo Stato sia sicuro di avere i mezzi necessari per soddisfare questi bisogni pubblici. Cotal sicurezza non si può ottenere, se lo Stato non distribuisca coattivamente il carico della prestazione dei mezzi pecuniari occorrenti a soddisfare i bisogni pubblici su tutti i contribuenti; ossia: se non istituisca le imposte.

 

 

162. Estensione del concetto dei servizi pubblici proprii. – I due caratteri della indivisibilità e del consolidamento servono a distinguere dalla folla dei bisogni detti pubblici, perché li soddisfano gli enti pubblici, quelli che necessariamente, per ragioni che diconsi tecniche, inquantoché hanno fondamento nella indole dei servizi e nella impossibilità di poterli compiere se non in questa maniera, devono essere soddisfatti col mezzo delle imposte. Noi abbiamo veduto che in sostanza il concetto del servigio «pubblico» non è un concetto «primitivo»; e parlando delle imprese «pubbliche» abbiamo dimostrato che pubbliche sono tutte quelle imprese che allo Stato piace di esercitare per fini reputati di utilità generale. Ma ora vedemmo che fra i tanti servizi pubblici ve ne sono taluni che non è nemmeno pensabile possano essere esercitati altrimenti che dallo Stato e altrimenti pagati che colle imposte, ossia distribuendone coattivamente i costi sulla collettività. Questi sono servizi pubblici proprii, il cui soddisfacimento è indivisibile e consolidato.

 

 

Se questi però fossero i soli servizi pubblici a cui si provvede colle imposte, il novero non ne sarebbe grande e si ridurrebbero a quelli che sono stati in ogni epoca e che in ogni epoca si ritenne dovessero essere gli uffici dello Stato: mantenere la pace pubblica, amministrare la giustizia, difendere l’integrità del territorio nazionale, a cui si aggiunsero col tempo la lotta contro le malattie contagiose, la diffusione dell’igiene, la diffusione della coltura. Anche in questi casi i caratteri della indivisibilità e del consolidamento esistono, perché, col diffondersi della scienza, si vide sempre meglio che la lotta contro i morbi del corpo e della mente in molti casi non poteva combattersi isolatamente, dopo che il male è sorto; essendo che il malato soccombe e l’ignorante non riesce a concepire la necessità della coltura. Onde la necessità di pervenire il morbo; di esercitare i servizi dell’igiene e delle scuole in guisa da impedire il verificarsi del male, da attutire la consapevolezza della privazione dei beni relativi e da estinguere perciò ogni stimolo ad una richiesta spontanea dei servizi stessi. Chi pensa oggi ai timori di epidemia da cui nei secoli scorsi l’Europa era continuamente assillata? Nessuno, perché normalmente gli Stadi provvedono ad impedire il diffondersi di malattie contagiose. Il novero di questi bisogni nuovi ed esercitati in maniera nuova, implicante l’indivisibiltà tecnica del servizio e il suo consolidamento, va crescendo continuamente. Si moltiplicano e si raffinano ognora i bisogni privati; e lo stesso accade per i bisogni pubblici. Sarebbe meraviglia accadesse diversamente. Il diciannovesimo secolo ha visto formarsi una vasta legislazione sociale, diretta, almeno in principio, a tutelare la vita delle nuove generazioni e delle donne, che, senza l’intervento dello Stato, sarebbe stata deteriorata per l’ingordigia di industriali e di genitori. Anche questo è un bisogno pubblico proprio; in quanto, senza l’imposta, difficilmente o male sarebbe tutelato. Pochi filantropi si disporrebbero a far propaganda contro l’impiego nelle miniere e nelle fabbriche dei giovani in troppo tenera età e delle donne nei periodi di gravidanza; e, quel che più monta, ben pochi si disporrebbero ad indennizzare industriali e genitori dei danni pecuniari risentiti in seguito alla invocata cessazione dal lavoro. Chi risente il vantaggio del non lavoro sono giovani e donne che non hanno i mezzi necessari per pagare il prezzo del servizio che lo Stato loro rende col suo intervento; caso di domanda potenziale che non si esplica, come non si esplica la domanda della donna che vede i brillanti nella vetrina del gioielliere e vorrebbe possederli, ma non ha i denari per comprarli.

 

 

L’imposta è necessaria per distribuire i costi della sorveglianza governativa sulle fabbriche e sulle miniere, delle indennità alle donne operaie dopo il parto, ecc. su tutta la collettività, la quale ne risente un vantaggio indivisibile, non repartibile sui singoli nel fatto che le nuove generazioni crescono più sane e più forti. Di chi è il vantaggio della diminuzione della mortalità, della diffusione della cultura, delle maestranze abili e sane? Non si sa quale classe ne sia più avvantaggiata, se le classi operaie, o quelle imprenditrici, se i poveri salvati dalle malattie, od i ricchi non più timorosi di contagio o di rivolte delle plebi malcontente.

 

 

Non è dunque possibile fare un elenco tassativo dei servizi pubblici propri a cui si deve provvedere con le imposte; il novero cresce a mano a mano che i caratteri tecnici della indivisibilità e del consolidamento appaiono estensibili ad un numero maggiore di fatti. Quei due caratteri sono la guida per giudicare se davvero esista o no il servizio pubblico proprio; ma una guida è qualcosa di più di un elenco, essendo estensibile e progressiva nel tempo.

 

 

In generale si può dire che se per un certo servizio manca la domanda attiva da parte dei contribuenti, e quindi se è assurdo sperare che esso possa essere fornito dall’impresa privata, la quale deve sempre incassar prezzi per coprire costi; e se tuttavia il bisogno di quel bene si ritiene debba essere soddisfatto, se si reputa che il non-soddisfacimento di quel bene sarebbe cagione di gravi malcontenti o danni per i cittadini di uno Stato, i quali oramai si sono abituati a considerare il soddisfacimento di un certo bisogno come un diritto acquisito o un qualcosa di connaturato con la vita umana come oggi è concepita, noi siamo nel campo dei servizi pubblici e proprii, a cui si provvede con le imposte.

 

 

163. Servizi pubblici improprii. – Oltreché a questa principalissima categoria le imposte provvedono anche ad altri servizi che diremo improprii, non per dar loro una nota di biasimo, ma semplicemente per distinguerli dai primi. Sono servizi, che tecnicamente potrebbero benissimo essere geriti col metodo del prezzo pubblico o della tassa: ma è più economico provvedervi col mezzo dell’imposta. Ricordiamo l’esempio già fatto della strada o del ponte.

 

 

Nulla vieterebbe tecnicamente di mettere a capo del ponte o nei crocicchi delle vie un pedaggiere per l’esazione di un pedaggio. Non così fa, perché costerebbe troppo e potrebbero nascere abusi; laonde si preferisce rendere la via gratuita, caricandone il costo coattivamente sui contribuenti. La spesa risulta più bassa e i contribuenti nel loro complesso pagano meno di quanto pagherebbero singolarmente gli utenti. Così è dell’illuminazione delle vie pubbliche. Tecnicamente nulla vieta che ognuno si porti il lume per guidarsi di notte per le vie; ma sarebbe costosissimo ed inefficace. Si ottiene una illuminazione molto più splendida ed assai meno costosa, rendendo l’illuminazione gratuita per l’utente che passa per la via e distribuendo coattivamente i costi sulla collettività.

 

 

Potrà venire il giorno in cui tutti abbiano preso l’abitudine di andare in tram, ogni volta che se ne abbia bisogno; e in questo caso l’esazione dei dieci centesimi di prezzo pubblico sarebbe fastidiosa ai passeggeri e costosa per l’esercente, ente pubblico o privato da lui delegato. Il prezzo non servirà allora più da freno al consumo inutile ed alle spese; le spese medesime si saranno consolidate in una cifra fissa, mutevole solo in rapporto al crescere della popolazione. A che prò mantenere il prezzo? Abolendo e rendendo la tramvia gratuita, in quelle condizioni di consumo generalizzato, si potrebbero risparmiare bigliettari e controllori. L’imposta diventerebbe il mezzo più economico per distribuire i costi della tramvia sulla collettività.

 

 

Si può notare – come molto acutamente ha fatto rilevare il prof. M. Pantaleoni in uno dei suoi saggi citati dal Giornale degli Economisti – che coll’ingrossarsi di certi servizi, col diventare, che allora fanno, certe spese da variabili fisse (veggansi nel capo sui prezzi pubblici le considerazioni fatte intorno alle spese fisse e variabili), nasce la convenienza a pagare le spese fisse medesime in blocco, senza fare suddivisioni difficili o costose; onde la opportunità economica di applicare il sistema della imposta. In alcune città dove l’acqua è abbondante e dove l’uso si è universalizzato o si desidera universalizzare, si reputa costoso troppo il sistema del prezzo; e meno ingombrante, più economico il metodo della imposta, sebbene tecnicamente sarebbe possibilissimo far pagare ad ognuno l’acqua da lui consumata.

 

 

Anche di questa categoria di servizi pubblici improprii non si può fare un elenco tassativo. È un elenco la cui lunghezza varia col trasformarsi della impresa e con la varia estensione della domanda. Quanto più l’impresa, il servizio che lo Stato ha assunto acquista dimensioni vaste e cresce la percentuale delle spese fisse, tanto più conviene pagare in blocco queste ultime; quanto il consumo si universalizza e diventa uniforme, tanto meno necessario diventa far susseguire il pagamento del prezzo al consumo singolo allo scopo di prevenire i consumi inutili. In siffatte circostanze può verificarsi la convenienza economica di non operare più la suddivisione, tecnicamente possibile, del costo e ripartire il costo stesso sulla collettività colle imposte.

 

 

164. Servizi pubblici spurii. – I servizi pubblici ai quali di fatto si provvede col mezzo delle imposte non sono però soltanto quelli che, sopra si sono indicati col nome di proprii ed improprii. Bisogna ricordare ancora una volta la conseguenza importantissima che i caratteri della indivisibiltà e del consolidamento di certi bisogni producono: i costi del soddisfacimento di quei bisogni debbono cioè essere ripartiti coattivamente sui cittadini. Lo Stato, come ente imposizionale, sorse dunque per una necessità tecnica; ma come tanti altri effetti i quali a loro volta diventano cause e reagiscono sulle cause medesime da cui trassero la loro origine, anche la forza coattiva dello Stato, sorta come conseguenza della necessità tecnica di distribuire costi indivisibili e consolidati di certi servigi, può essere adoperata da chi la detiene ad altri fini. Quegli individui, o certi, o classi che hanno in mano la macchina dello Stato possono giovarsene, ai fini finanziari, non soltanto per distribuire coattivamente i costi dei servigi pubblici proprii (indivisibili e consolidati) ed improprii (meno costosi a fornirsi, se la ripartizione dei costi avvenga coattivamente); ma altresii costi di servigi che sono tecnicamente divisibilissimi e per nulla consolidati e che economicamente sarebbero meglio distribuiti facendo pagare un prezzo ai singoli consumatori che un’imposta agli utenti. Sono servigi numerosi, di cui nessun statistico finora ha valutato l’importanza, il peso esatto in confronto al peso dei servigi pubblici proprii ed improprii, la cui indagine fu perciò abbandonata alle scorribande del cosidetto materialismo storico; ma che indubbiamente sono importanti. Col chiudere gli occhi dinnanzi ad essi, non ne sopprimiamo l’esistenza.

 

 

Chi non ha letto nelle Origines de la France contemporaine di Ippolito Taine il quadro splendido della società viziosa e brillante prima della rivoluzione? Forse un quarto dei 400 milioni a cui giungeva allora il bilancio francese era consacrato a mantenere la Corte sfarzosa di Versaglia e la nobiltà degenere che si aggirava intorno ai discendenti del Re Sole!

 

 

Chi non ricorda l’indignazione di Martin Lutero nel vedere il fasto e la grandigia con cui la Corte papale romana spendeva il prodotto delle imposte raccolte da tutto il mondo cattolico? Chi, in tempi recenti, non ha sentito parlare dei pazzi sperperi con cui il Gran Turco dava fondo sulle rive del Bosforo al ricavo dei prestiti pubblici contratti in Europa ed i cui interessi dovevano essere pagati con balzelli duramente estorti ai suoi sudditi? Né da siffatti fenomeni vanno esenti gli Stati democratici. Dura da mezzo secolo e durerà per un pezzo lo scandalo inaudito per cui negli Stati Uniti il servizio delle cosidette pensioni militari costa di più dei servigi fondamentali dello Stato, della difesa, della sicurezza, della giustizia. Nessuno può asserire che il pagamento di pensioni a pretesi veterani delle guerre nel 1812 contro l’Inghilterra – pare che siano ancor vivi i superstiti di quella guerra, – del 1860-6 di secessione, sia un servizio a costi indivisibili e consolidati o più economici, quando si rifletta che in parte non piccola trattasi di veterani delle battaglie elettorali combattute a base di falsi, frodi, intimidazioni, galoppinismi nei comizi tenuti via via per eleggere deputati, senatori, presidenti della Confederazione. Invece di estinguersi progressivamente per morte, quei veterani crescono ancora ognora di numero e gravano per cifre di centinaia di milioni di dollari sul bilancio pubblico.

 

 

Chi non è persuaso che nei governi parlamentari di Francia, Italia, Spagna, Portogallo, l’incremento della burocrazia governativa sia in parte un fenomeno morboso, dovuto alla necessità o convenienza di soddisfare a bisogni pubblici, ma alla opportunità di collocare i figli dei ceti burocratici, delle clientele elettorali, ecc., ecc.? Non i figli della borghesia, come si suol dire, ché nei centri industriali italiani e francesi gli aspiranti agli impiegati pubblici tendono a diminuire: ma i figli dei ceti improduttivi quali forniscono il più forte contingente alla gestione della cosa pubblica; e che, incapaci di guadagnare coll’attività libera ed indipendente, vogliono ripartire i costi della loro vita (che per essi costituisce il servizio pubblico per eccellenza) coattivamente sui concittadini.

 

 

Chi non vede, con angoscia, i primi segni della degenerazione di quelle leggi sociali, di cui sopra vedemmo le ragioni d’essere tecnicamente ed economicamente inoppugnabili? Oggi sono gli operai francesi, i quali si ribellano alla legge sulle pensioni per la vecchiaia e l’invalidità votata dal Parlamento, e, non contenti che il legislatore ne abbia ripartito i costi sugli operai stessi, sugli industriali e sui contribuenti in genere, vogliono non pagar nulla essi ed ottenere per giunta la pensione in più giovane età. Sono i cavatori di marmo di Carrara, i quali considerano come assurda ed incomportabile la pretesa del comune di far pagare loro una tenue quota di 6 lire annue, ben inferiore a quella cui sarebbero per loro beneficio assoggettati i contribuenti ed i produttori; e d’accordo cogli industriali, lieti pur essi di non pagar nulla, vogliono che l’intiero gravame pesi sui contribuenti. Chi non vede che simili e numerosi altri fatti fanno pronosticare e seriamente temere l’avvicinarsi del giorno in che, ad esempio della nobilità francese, la quale considerava ufficio pubblico il mantenersi essa nell’ozio e nei divertimenti, così la burocrazia invadente ed il proletariato considereranno dovere dello Stato mantenerli in cambio della minima possibile prestazione di lavoro?

 

 

Talché possiamo concludere che di fatto si ripartiscono colle imposte non soltanto quei servigi pubblici che corrispondono a bisogni indivisibili e consolidati o sono più economicamente in tal modo ripartibili, ma benanco tutti quei servigi che piaccia al gruppo o ceto o classe governante dichiarare pubblici anche se sono rivolti al soddisfacimento di loro bisogni personali e divisibili e delle loro clientele.

 

 

165. Il concetto del servizio pubblico è davvero arbitrario? – Su queste constatazioni di fatto si sono basati alcuni scrittori per dedurne che ogni indagine sulla natura delle spese pubbliche era inutile; trattandosi di concetti non economici o tecnici, ma puramente politici. È la scienza politica quella la quale, tenuto conto della variabile composizione dei ceti dirigenti, della classe politica, come direbbe il prof. Mosca, delle elites, come ha preferito dire il Pareto, determina quali sono in ogni momento i servigi da considerarsi pubblici o da ripartirsi coattivamente per mezzo delle imposte.

 

 

Il che è vero; ma non è tutto il vero; od almeno sembrano grandemente unilaterali ed imperfette le scritture di coloro che, ossessionati dai servigi pubblici che dicemmo «spurii» (e colui a cui il nome non piaccia, può cambiarlo a sua posta) non deve indurci a negare l’esistenza dei servigi pubblici proprii ed improprii, e non deve dissuaderci dall’analizzare i connotati di ciascheduno di essi.

 

 

Con ciò si ottiene un effetto di chiarezza nella esposizione; ed inoltre si pongono le basi della futura ricerca scientifica. La quale non deve consistere, come fanno i materialisti della storia, nel vedere solo i servizi pubblici spurii; e nel fondare esclusivamente sulle leggi di questi tutta la loro teoria delle imposte; e neppure, come tendono a fare gli scrittori della scuola finanziaria pura, i soli servigi pubblici proprii, aggiungendovi tutt’alpiù gli improprii; ma nello studiarli tutti, pesarne statisticamente la relativa importanza, dedurne le leggi particolari e riassumerle poi in leggi più generali.

 

 

Per le ragioni altrove già dette, noi facendo uno studio prevalentemente di prima approssimazione, non ci indugieremo troppo intorno a quelli tra i servigi pubblici che furono detti «spurii», pur non disconoscendone la grande importanza ed augurando soltanto che essa venga meglio misurata.

 

 

Rispetto all’argomento che ci dovrà occupare d’ora innanzi e cioè la distribuzione del costo dei servigi pubblici mediante le imposte, la differenza tra i servigi proprii, quelli improprii e gli spurii si può, entro certi limiti, trascurare. Quali siano i limiti, oltre i quali è d’uopo tener conto della sovradetta influenza, sarebbe troppo lungo discorrere.

 

 

Basti notare qui che ad imposte si deve ricorrere, sia che l’indivisibilità del costo sia determinata da ragioni tecniche, od economiche o puramente dal comando del principe (sovrano assoluto, tiranno, popolo, parlamento ecc., ecc. ). L’effetto pratico è in ogni caso di dover ricorrere al sistema delle imposte abbandonando il sistema dei prezzi.

 

 

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