Opera Omnia Luigi Einaudi

Per la storia di un gruppo che non riuscì ad essere partito

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1931

Per la storia di un gruppo che non riuscì ad essere partito

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1931, pp. 309-311

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 293-297

 

 

 

A. De Viti De Marco: Un trentennio di lotte politiche (1894-1922). Un vol. di pag. XXII-480. «Collezione meridionale», editrice, Roma (senza data, ma data della prefazione luglio del 1929, della postilla finale luglio del 1930. Prezzo L. 25).

 

 

I libri di ricordi, le biografie, le raccolte di scritti politici e polemici di storia sociale recentissima si moltiplicano. Hanno cominciato i socialisti con i ricordi autobiografici di Rigola, quelli di Zibordi su Prampolini, di Riguzzi sul movimento operario nel Parmense; seguì tra i cattolici sia il libretto di Marconcini su Toniolo. È bene che la storia o cronaca cominciata a fare da coloro che furono parte degli avvenimenti narrati; ed è bene si faccia affinché le nuove generazioni sappiano che cosa vollero gli uomini delle generazioni che stanno scomparendo. Oggi è la volta di un fiero aristocratico uomo, il quale fu capo spirituale di un gruppo di sparuta minoranza, non privo di una qualche influenza nell’Italia di prima il 1922. L’uomo è Antonio De Viti De Marco, nel campo scientifico Maestro degli studiosi italiani di finanza ed insieme politico e parlamentare non di fazione ma di idee; il gruppo non fu mai partito, non aspirò a portafogli in gabinetti e se gli si volesse dare un nome dovrebbe essere chiamato anti protezionista. Ma fu assai più di quel che l’aggettivo suggerisce. Come osserva il De Viti nell’Avvertenza al lettore, codesti anti protezionisti si sforzarono per un trentennio di formare «un partito liberale democratico che non è mai esistito nel parlamento italiano o vi è esistito soltanto di nome». Che in Italia non sia mai esistito un partito liberale stupiranno molti di sentir dire così nettamente, coll’aggiunta che un solo uomo «ebbe la visione integrale e precisa di un indirizzo liberale in tutte le sue concrete esplicazioni» e «fu il conte di Cavour, ma il suo programma nacque e morì con lui». Perché ai partiti esistenti nei Parlamenti di prima il 1922 si debba negare il diritto di chiamarsi liberali democratici dice lapidariamente il De Viti: «Le nuove libertà, concesse forse più per spirito dottrinario che non per domanda di popolo, servirono di fatto ai nuovi arrivati per organizzarsi in difesa dei propri interessi e del proprio diritto; ma questa difesa non la fecero consistere nel combattere il privilegio altrui, per arrivare all’egual trattamento di tutti sulla base della legge comune, ma nel reclamare nuovi privilegi per sé. Ogni nuovo privilegio era reclamato a titolo di egual trattamento con un privilegio preesistente. Così è avvenuto in Italia che il progresso dell’idea liberale e democratica è consistito nella graduale crescente estensione dei favori legislativi, passando dai gruppi maggiori ai minori, dai gruppi di vecchia formazione ai gruppi di nuova formazione, dai proprietari terrieri agli industriali, ai funzionari dello stato, alle cooperative di braccianti, alle organizzazioni proletarie. Si ebbe la gerarchia dei grandi, dei medi e dei piccoli privilegi». Un piccolo nucleo di persone tentò «di illuminare, educare ed organizzare politicamente le masse» contro «le organizzazioni politiche del privilegio che dissanguavano le forze produttive del paese povero … Subito dopo la tariffa del 1887 e la guerra doganale con la Francia iniziò le sue campagne contro il protezionismo industriale e quello agrario, per il riordinamento delle banche, per la moralizzazione della vita parlamentare, per la perequazione tributaria tra gruppi e regioni; per l’indipendenza della magistratura; attaccò in una parola, ogni forma di privilegio, per arrivare sempre più all’eguale trattamento economico, tributario e politico di tutti i cittadini, che è il solo fondamento di un partito e di un governo liberale». È facile comprendere come, con un programma siffatto, il gruppo non potesse diventar partito. Alcuni uomini suoi più rappresentativi, come il De Viti, il Pantaleoni ed il Giretti, si avvicinarono ai radicali che reputavano più adatti, perché meno attaccati ad interessi materiali ed emanazione di ceti professionali e medi relativamente colti, ad apprezzare l’importanza della loro predicazione; ma in quel partito non ebbero seguito né largo né duraturo. Altri uomini, di diverso temperamento, non pochi a tendenze spiccatamente tradizionalistiche e conservatrici, si accostarono al gruppo. Quanti nomi si incontrano nella cronaca del movimento del gruppo anti protezionista! Leggiamone alcuni, secondo il necessario disordine della cronologia: De Viti, Maffeo Pantaleoni, Ugo Mazzola, direttori del Giornale degli economisti; Riccardo Gavazzi, setaiuolo; Giacomo Raimondi, redattore economico del Corriere della Sera; l’ing. Francesco Nicola; il dott. Ambrogio Carnelli, valente funzionario delle imposte; il dott. Sormani, il dott. Guido Martinelli, Giovanni Borelli, Vilfredo Pareto, il conte Francesco Papafava; Edoardo Giretti, setaiuolo ed economista, il più infaticabile di tutti, ancor oggi dopo quasi mezzo secolo in campo contro i dazi protettivi; L.M. Billia, professore e filosofo arguto e profondo; Gaetano Mosca il maggior teorico politico vivente in Italia; Attilio Cabiati ed il sottoscritto, collaboratore per un quarto di secolo di grandi quotidiani; Gaetano Salvemini, con l’Unità e la Voce; il prof. Alberto Giovannini, il senatore Giustino Fortunato, gli on. Franchetti, Giusso, Cabrini, Comandini ed E. Ciccotti, Nicolò Fancello, il prof. Ugo Guido Mondolfo, Arcangelo Ghisleri, il prof. Giuseppe Prato, il dott. Mario Borsa, la signorina Lisa Scopoli, Pio Schinetti, ed altri ancora, venuti dalle più diverse tendenze politiche concordi nel ritenere che l’abolizione dei privilegi, a cominciare da quelli doganali, fosse la premessa prima della moralizzazione e della elevazione della vita politica.

 

 

Il libro che qui si annuncia si compone di quattro parti. Quella centrale, la più lunga di tutte (da pag. 7 a 446), comprende discorsi ed articoli pronunciati e scritti dal De Viti tra il 1894 e il 1922. Sono distinti in tre parti: «Per la libertà economica ed il Mezzogiorno». (Il De Viti è pugliese e quindi giustamente ha sempre visto quanto importasse il problema meridionale per l’Italia e quale necessità avessero i meridionali di ben comprendere il particolar danno economico, morale e politico che il protezionismo ad essi arrecava); «Le agitazioni popolari e le libertà politiche» (sui moti siciliani, sulle agitazioni agrarie nel Lazio e nel Ferrarese, sui tumulti di Milano, sul caso Crispi, per la libertà di stampa; la società delle nazioni, le colonie, il trattato di Versailles). A spiegare il valore di questi discorsi ed articoli basti dire che essi meritano di stare accanto a quelli di Giustino Fortunato. Con minore afflato storico, con meno accesa e possente commozione e con più pacato tecnicismo, i discorsi del De Viti sono, al pari di quelli del grande isolato che fece conoscere il Mezzogiorno all’Italia, modelli di oratoria politica. Le raccolte dei discorsi di Giustino Fortunato e di Antonio De Viti De Marco, di questi due politici che non furono mai neppure sotto segretari di stato e valevano più della più gran parte dei ministri del loro tempo, bastano a nobilitare un Parlamento, perché valgono a far vedere quanta sia la forza della discussione nella storia dei popoli.

 

 

Le altre minori partizioni del volume comprendono l’«Avvertenza al lettore» (pag. V-IX), da cui sopra si trasse qualche periodo e fu scritta dal De Viti a chiarire la ragione della sua vita e del suo gruppo; una «Nota storica sul movimento anti protezionista in Italia» (pag. XI-XXII), scritta da Umberto Zanotti Bianco, direttore della «Collezione meridionale» preziosissima fonte di indicazioni bibliografiche e cronologiche su uomini, associazioni, gruppi, giornali, libri; ed un appendice con postilla su «La questione doganale dopo la guerra» (pag. 449/480), nella quale, Ernesto Rossi, con l’usato scrupolosissimo rigore d’indagine, studia le vicende del protezionismo italiano dopo la tariffa del 9 giugno 1921.

 

 

Se Edoardo Giretti vorrà un giorno aggiungere, a questa del De Viti, in due giusti volumi (a comprendere anche solo il meglio della sua polemica anti protezionistica uno solo non basta) una silloge di suoi articoli e discorsi, sarà ricordato, in documenti storici di prim’ordine, quanto pochi uomini fecero, contro i ceti dirigenti e le classi dominanti, per tener viva la fiamma dell’idea liberale, che Cavour per un attimo aveva fatta trionfare.

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